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8 marzo 2013 5 08 /03 /marzo /2013 17:04

Mi accade, talvolta, di formulare un pensiero, un interrogativo, magari di scarso interesse, che poi scava un piccola nicchia in qualche angolino tranquillo della memoria, vi si annida e rimane lì, quieto ed inoffensivo ospite, a lievitare come un seme depositato nell’esiguo pugno di terra di un vaso da fiori. A volte appassisce e muore per manifesto disinteresse successivo, in altre occasioni attecchisce e lentamente si irrobustisce, fino a sovrastare prepotentemente ogni altro pensiero. Negli ultimi giorni si è verificata proprio un’eventualità del secondo tipo. Una domanda ha cominciato a frullarmi nella mente e adesso preme per ottenere una risposta:

chi, e perché, ha stabilito che la razza bianca sia superiore a qualsiasi altra razza nel mondo conosciuto? 

Come è nata questa convinzione e perché si è radicata nel pensare comune fino a diventare, in tanti cervelli apparentemente saldi, un dato di fatto incontestabile, addotto addirittura a giustificazione di inenarrabili nefandezze socio-politiche? Ho cercato di documentarmi adeguatamente sul tema, ma devo mestamente confessare che nessuno scritto mi ha fornito una spiegazione soddisfacente. Sarà sicuramente dipeso dalla mia incapacità di cercare tra le carte giuste. Ho imparato, ad esempio, che si definisce razza ogni raggruppamento di individui costituito in modo empirico – cioè, fondato su dati derivanti dalla pratica e dall’esperienza immediata – partendo dalla base di caratteri somatici esteriori comuni ad un gran numero di persone. E ho anche letto, da qualche parte, che noi bianchi siamo migliori, privilegiati o superiori rispetto alle persone di etnia diversa perché “…nel corso dei secoli abbiamo portato loro la civiltà e il progresso...” Proprio così! Chiunque ne sia l’autore, può vantarsi di aver coniato  un’affermazione talmente idiota da meritare una menzione nel Guinnes dei primati. La cosa più raziocinante da fare sarebbe quella di passare oltre, ma voglio invece divertirmi  a sbirciare nelle pieghe della Storia per ricostruire, ispirandomi ai tanti scritti esistenti sull’argomento, una scena avvenuta con frequenza sulle coste delle Americhe  tra il XV e il XVII secolo. Puntiamo, quindi, la nostra attenzione sulla rena allora  pulita di una spiaggia del Messico. 

Tre galeoni imponenti, panciuti, avanzano alti su un mare sonnacchioso, appena increspato in corrispondenza delle candide creste di onde che ne sembrano rabbrividire. Le vedette hanno già avvistato il tratto di  litorale oltre il quale si allarga una vasta distesa di rena chiarissima, delimitata lungo tutto il suo perimetro da una folta e lussureggiante foresta. L’aria immobile rimanda suoni sconosciuti agli invasori, che spiano i dintorni, tradendo qualche segno di apprensione. Sulle navi la tensione monta lentamente. A circa un miglio dalla riva, le tre gigantesche imbarcazioni gettano le ancore e manovrano in modo che le loro fiancate irte di cannoni siano in condizione di spazzare la spiaggia con il loro micidiale volume di fuoco. Poco dopo, una capace scialuppa, che inalbera le insegne del comandante supremo, viene calata in acqua e si dirige con comprensibile circospezione verso quel  lontano e biancheggiante tratto di costa sabbioso, che appare completamente deserto. I naviganti lanciano occhiate acute in ogni direzione. Giunti all’altezza del bagnasciuga, alcuni di loro balzano in acqua e trascinano il pesante natante all’asciutto, sulla sabbia. Una figura alta, barbuta, completamente ricoperta da una lucente armatura sbarca con movimenti lenti, quasi ieratici, e si inginocchia: è Hernán Cortés, il comandante in capo della spedizione, il duce dei conquistadores. Cortés si fa il segno della croce e, con voce chiara e squillante, pronuncia la formula di rito, l’apriti Sesamo che gli spagnoli hanno artificiosamente coniato per giustificare la ruberia: 

“Io prendo possesso di queste terre in nome di Dio e della graziosa maestà il re di Castiglia”.  

Subito dopo, si materializza un frate missionario, per solito un domenicano, il quale benedice le armi spagnole e garantisce ad ogni comportamento successivo l’automatica  assoluzione da qualsiasi peccato mediante il semplice espediente di presentare l’intera operazione militare come espressione della volontà di Nostro Signore: tutto, cioè, si pone in opera ad majorem Dei gloriam. Chissà  come si sentivano protetti e giustificati nel loro agire i fomentatori di disordini di ogni genere, potendo vantare, a loro dire,  uno sponsor di tale importanza e potenza… (A proposito, avete notato che le imprese militari più gloriose e cruente della storia dell’umanità sono state quasi sempre intraprese, a sentire i loro patrocinatori, per la maggior gloria della grandezza di Dio? L’ultimo, eclatante esempio è venuto dalle SS hitleriane che ostentavano sulla fibbia dei loro cinturoni l’estremo oltraggio “Gott mit uns”…). 

Torniamo a Cortés e ai suoi portatori di pace, progresso e civiltà nel nome di Dio. Preso possesso della spiaggia con quella inequivocabile dichiarazione, i terrificanti stranieri sciamano verso l’interno, allungano le loro rapaci mani su sterminati territori, eliminano senza alcuno scrupolo i nativi, razziano tutto il possibile in oro, gioielli e oggetti preziosi,  dopodiché ritornano, dopo anni di angherie innominabili, alle loro case in Europa. Ma chi erano i conquistadores? Bernal Diaz del Castillo, cronista della spedizione di Hernán Cortés del 1519, nella sua opera “Historia verdadera de la conquista de la Nueva España” spiega che il termine conquistadores era usato per riferirsi ai soldati, agli esploratori ed agli avventurieri che portarono gran parte delle Americhe sotto il controllo dell’impero coloniale spagnolo tra il XV e il XVII secolo (la medesima azione fu svolta dai portoghesi prevalentemente in Sud America). 

«Siamo venuti per servire Dio e il re…ed anche per diventare ricchi». Così il citato Bernal Diaz maliziosamente riassumeva la filosofia di vita dei conquistadores che non erano davvero i conquistatori che volevano far credere. Essi agivano per conto del Regno di Castiglia, si davano un sacco di arie da gran signori, ma si trattava pur sempre di spiantati, di nobili decaduti, di figli cadetti arruolatisi nell’esercito in quanto le prospettive di successo e di ricchezza, nella Spagna successiva alla scoperta dell’America erano estremamente limitate. Molti di loro - non si sa quanto spinti da radicate convinzioni personali oppure, molto più probabilmente, influenzati dalle infiammate prediche di ecclesiastici di bassa forza – consideravano la conquista del Nuovo Mondo come una crociata contro i «pagani» non ancora convertiti al cattolicesimo e, perciò, votati a subire qualsiasi misura i nuovi arrivati intendessero adottare allo scopo di riportare quei reprobi sulla salvifica via che essi stessi indicavano, sempre nel nome di Dio. E pazienza se ogni tanto i salvatori di tante anime perse si vedevano costretti a far intendere ragione a quelle teste dure spaccandone qualcuna…Del resto, il loro grido di battaglia era estremamente significativo: prima di scagliarsi contro i nativi americani invocavano «Santiago Matamoros», cioè San Giacomo l’uccisore dei Mori. Nei primi decenni del 1500, gli indigeni delle Americhe dovettero dunque sopportare la catastrofica presenza di soldati-esploratori, di avventurieri privi di ogni scrupolo morale, di frati che si dedicavano all’evangelizzazione sull’esempio di quel campione di moderazione e di carità cristiana che fu il loro grande inquisitore Tomás de Torquemada. Era fatale che alla fine gli invasori prevalessero, poiché potevano mettere in campo armi (i famigerati archibugi) che terrorizzavano i nativi, i quali mai avevano avuto a che fare con quegli strani arnesi: li vedevano sbuffare improvvise ondate di fumo puzzolente, li sentivano emettere fragorosi botti ed ecco che un loro compagno crollava a terra morto, senza che nessun nemico si notasse nelle vicinanze! E da dove uscivano quegli spaventosi  animali che formavano un mostruoso gruppo unico con le facce bianche venute dal mare e volavano sul terreno con le loro quattro lunghe zampe, producendo un impressionante rumore di tuono? La storiografia moderna, però, è orientata a trovare in un fattore ben preciso, e probabilmente definitivo, la vera causa della conquista e della sottomissione degli imperi dell’America latina da parte degli europei, un fattore molto diverso dalle letali nuove armi e dagli sconosciuti cavalli: la diffusione di malattie e infezioni contro le quali gli indigeni non possedevano le difese immunitarie adatte a contrastarle. La divulgazione nelle Americhe di quei tipi di patologia furono la principale causa di una terrificante catastrofe demografica. Malattie come il vaiolo e la peste sterminarono le popolazioni, poiché l’organismo di queste ultime non possedeva difese immunitarie in grado di organizzare un’efficace risposta all’attacco di elementi di natura batterica e virale. Alcuni ricercatori americani hanno dichiarato che quando Cortés sbarcò in Messico, la popolazione della regione assommava a 25,2 milioni di persone: cento anni più tardi gli stessi abitanti erano ridotti a meno di un milione! Siamo o non siamo in pieno genocidio?

E non è che andasse meglio col colonialismo in Africa. Nella seconda metà del XIX secolo si assistette ad una vera e propria spartizione del cosiddetto “Continente nero” da parte di Francia e Gran Bretagna seguite, in misura minore, da Germania, Portogallo, Italia, Belgio e Spagna. Le potenze coloniali che organizzavano quelle spedizioni, dirette a coinvolgere i popoli arretrati stanziati oltre il deserto del Sahara, le chiamavano “missioni civilizzatrici”, altisonante definizione che nascondeva il solito, squallido scopo di sempre: sfruttare le riserve naturali del continente, arricchirsi a spese di quella povera gente vessata in ogni modo, riempire le stive delle navi con oro, pelli, avorio, legni pregiati, caffè, pietre preziose e via rapinando. La vendita sui mercati europei di tutto quel ben di Dio avrebbe gonfiato sensibilmente le tasche di questo altro tipo di benefattori dell’umanità. Sì, perché le tanto virtuose e tanto sbandierate “missioni civilizzatrici” abbinano il colonialismo commerciale con il ributtante traffico di schiavi. Tra il XV e il XVIII secolo, un gran numero di indigeni (circa 11 milioni) viene rastrellato con incursioni nelle tribù africane da parte dei mercanti di schiavi europei, i famigerati negrieri. Quegli sventurati, imbarcati in condizioni disumane sulle navi che solcano l’Atlantico, vengono sbarcati sulle coste americane come schiavi adibiti alla coltura delle piantagioni di cotone e di tabacco. L’abominevole traffico procura introiti notevolissimi ai suoi criminali praticanti, ma produce anche nefaste conseguenze sullo sviluppo dell’Africa a causa dell’intervento dei bianchi: impoverimento dei popoli neri delle colonie, sia in termini economici che culturali; distruzione della cultura, dello stile di vita, delle tradizioni e delle credenze religiose delle popolazioni indigene; sfruttamento selvaggio ed intensivo delle ricche risorse naturali, fino all’esaurimento. Inoltre, la  soggezione politica  imposta dai bianchi colonizzatori ai neri ha impedito per lunghissimi periodi a questi ultimi di sviluppare una coscienza politica nazionale e di sapersi governare autonomamente.

Abbiamo, dunque, stabilito abbastanza chiaramente che noi bianchi non abbiamo fatto proprio niente a favore di tanti altri popoli, che hanno la pelle di colore diverso dalla nostra, per arrogarci il diritto di crederci superiori a loro. Il degradante fenomeno della schiavitù praticata su larga scala, in supremo dispregio delle leggi umane e divine, è stato ormai debellato sin dalla metà dell’800, quando la sua pratica subì un fierissimo colpo dalla guerra civile americana, quella famosa combattuta tra i nordisti e i sudisti di tanti epici film.  Ė vero che il colonialismo commerciale continuò per altro tempo ancora (ricordate quella innominabile parodia di “impero tornato sui colli fatali di Roma”, come recitavano gli ossessionanti slogan del regime fascista che nel contempo spingeva gli italiani ad occupare sollecitamente il loro posto al sole in Africa?), poi l’epilogo della seconda guerra mondiale spazzò via gli ultimi rimasugli di megalomanie coloniali ed anche gli imperi, veri o fittizi che fossero, scoppiarono come palloncini tra le mani di chi già si vedeva percorrerli in lungo e in largo con una corona d’alloro sulla testa, alla moda dei Cesari…Ma intanto aveva preso piede un altro tipo di razzismo, più subdolo e strisciante del precedente. I visi pallidi, annientati gli indiani in America, in Africa ed in Asia (l’India degli inglesi e di Gandhi), avevano scoperto che in Europa allignavano torbidi progenie di individui altamente nocivi per la purezza di una razza, quella ariana, che fino ad allora aveva galleggiato nell’anonimato. A scoprire siffatta sconvolgente realtà furono persone profondamente versate nello studio della genetica, quali Adolf Hitler e i suoi nazisti E non scoprirono solo questo. Appurarono anche che tra i maggiori responsabili di questa inammissibile contaminazione si contavano gli ebrei, gli appartenenti alle etnie slave e centinaia di  migliaia di altri sventurati, afflitti da anomalie fisiche o psichiche. Urgeva intervenire immediatamente, e senza debolezze, imponendo con ogni mezzo il mito della superiorità del tipo ariano, un individuo appartenente ad una razza che si era estesa dall’Europa centro-settentrionale fino all’Asia. L’ariano vantava una preminenza culturale e biologica  innegabile  su qualsiasi altra razza, vaneggiavano i nazisti, soprattutto su quella ebrea, che doveva essere cancellata dalla faccia della terra. Nessuno ebbe il coraggio di far chiaramente presente al capo dei tedeschi che il concetto di razza è privo di qualsiasi fondamento che lo colleghi alla genetica, cioè a quella parte della biologia che studia le basi morfologiche e chimiche della trasmissione dei caratteri ereditari degli esseri viventi. In parole molto più semplici, non esistono razze superiori o inferiori perché qualsiasi classificazione del genere non poggia su basi scientifiche. Non è un caso, del resto, che ai tempi nostri il termine razza è sempre più spesso sostituito da quello più appropriato di etnia. Dicevamo che nessuno, in Germania, ebbe il coraggio di avvertire Hitler che la sua era una scusa smaccata per perseguitare milioni di persone a lui invise per motivi che nulla avevano a che fare con le origini etniche e così tante zone dell’Europa occupata da quei tristi figuri con la svastica sul braccio si popolarono di orribili luoghi di torture, negazione della dignità umana e morte: i campi di sterminio. Ė giusto ricordare che, quando qui da noi, nel 1938, furono promulgate le “leggi razziali” ad opera dei fascisti genuflessi davanti ai nazisti, il popolo italiano dimostrò, nel suo complesso, di non essere razzista, fatta ovvia eccezione per quelli dei suoi che lo stesso Mussolini definì “utili idioti”:  servi del potere che si riscaldano al sole riflesso del capo, del quale sostengono acriticamente ogni iniziativa, divulgano ogni cialtroneria, giustificano ogni presa di posizione.

Oggi, purtroppo,  le cronache registrano sempre più frequentemente episodi che la logica, e il codice penale, classificano alla voce “insulti razziali”. Si va dai cori offensivi e dai “buuu” di dileggio indirizzati in uno stadio al calciatore di colore, allo sferzante epiteto “vai via, sporco negro” sibilato all’indirizzo dell’extracomunitario che chiede un piccolo aiuto economico, al gesto di violenza fisica compiuto ai danni di una ragazza sola ed indifesa, mentre divertiti spettatori sghignazzano ed incitano a caricare la dose, magari riprendendo essere in tanti contro uno e assicurarsi che ci sia una via di scampo, nel caso le cose si mettessero così male da costringere quei vigliacchi a sottrarsi con la fuga alle conseguenze  della loro mascalzonata. Non è una tattica inedita, è la linea di condotta adottata abitualmente da certe persone violente che si riuniscono in uno di quei gruppi  tristemente noti col nome di branco. Qual è, a conti fatti, la teoria che orienta ogni mossa di quegli ignobili individui che si sentono forti soltanto quando si avventano in frotta  su una preda indifesa? Semplice: la ricerca di un nemico da inserire in una categoria particolare e la sua “bestializzazione” (M. Hewstone: «Teoria dell’attribuzione»). L’individuazione del nemico permette la coesione di gruppo, sposta all’esterno i conflitti interni al gruppo, canalizza l’aggressività e quindi la protesta. Il “nemico” è tutto ciò che è altro, è il “diverso” preferibilmente individuato per il colore della pelle, per i tratti somatici e la religione. Sembra di leggere il manuale del perfetto nazifascista…

Ecco, oggi si incita all’odio razziale in base a questi principi. Neanche queste aberranti enunciazioni, tuttavia, spiegano perché la razza bianca debba sentirsi superiore a tutte le altre. Mi viene un dubbio: non sarà che non si trovano motivazioni a sostegno di questa tesi perché questa non è la verità?

A questo punto chiediamo aiuto alla poesia per scacciare il cattivo gusto che lasciano in bocca certe bassezze morali e godiamoci il dolente, vibrante sfogo di Shylock, il “Mercante di Venezia”, eccelsamente cesellato dall’arte inarrivabile di Shakespeare:

“…Egli m’ha vilipeso in tutti i modi (…), ha mostrato di spregiar la mia razza, ha stornato da me i miei buoni amici, così come ha aizzati e provocati i miei nemici. E tutto questo per quale ragione? Perché sono ebreo. E che dunque? non ha forse occhi un ebreo? non  ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? non viene ferito forse dalle stesse armi? non è soggetto alle sue stesse malattie? non è curato e guarito dagli stessi rimedi? e non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? se ci pungete non versiam sangue, forse? se ci avvelenate non veniamo a morte?...” 

Parole bellissime, sulle quali troppa gente dovrebbe meditare!

 

Rocco Tedino      

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