I signori Petrella abitavano in un quartiere di Roma, modesto ma pulito ed abbastanza tranquillo. La loro
casetta, ereditata nove anni prima da una vecchia zia, la quale con quel gesto aveva voluto sdebitarsi dell’ospitalità e dell’assistenza ricevuta dai nipoti per oltre tredici anni, era
comoda spaziosa e rispondeva a tutte le loro esigenze. Carlo Petrella lavorava nello studio di un architetto che egli raggiungeva agevolmente al termine di dieci minuti di metropolitana.
Sua moglie Anna faceva la commessa part-time in un piccolo, ma ben avviato negozio di libri del quartiere e questo le permetteva di esercitare agevolmente il suo hobby preferito, la lettura.
Insomma, la vita per la famigliola avrebbe potuto scorrere via piacevolmente, se nel fondo del cuore del signor Petrella non si fosse annidato un cruccio che diventava sempre più molesto ed
intollerabile: dover vivere in una zona prevalentemente abitata da gente rozza, composta in massima parte da operai che andavano al lavoro alle cinque del mattino e che trascorrevano
il tempo libero a giocare a carte e ad ubriacarsi.
“Ah, potersi spostare in un complesso urbanistico più elegante, dove la gente osserva orari d’ufficio
normali e passa le ore di libertà in giardino, oppure al circolo ricreativo, a giocare a tennis o a conversare”, sospirava ogni tanto l’insoddisfatto professionista. Ma il desiderio di
cambiare residenza si scontrava con un ostacolo insormontabile che si chiamava Giulio ed era l’unico figlio dei Petrella. Giulio aveva ormai quindici anni, ma con quella faccia così rosea e quel
sorriso timido ne dimostrava al massimo dodici. Dopo un inizio un po’ difficile, sembrava essersi felicemente ambientato nella scuola locale e frequentava con regolarità ed impegno l’oratorio
della parrocchia di Santa Rita, tanto che il parroco lo aveva voluto inserire nel coro.
“Sarebbe un peccato fargli cambiare ambiente proprio ora” - osservò anche quella sera la signora Petrella,
rispondendo al marito che per un’ennesima volta deprecava la sua triste sorte - “Tu sai quanto è timido ed introverso, basta un niente a turbare il suo equilibrio. Stasera aveva le
esercitazioni nel coro e speriamo che non torni tardi, altrimenti gli si guasta l’appetito e non manda giù niente della cena che gli ho messo in caldo”.
In quel momento, Giulio stava camminando lentamente lungo la stradina alberata che partiva dalla chiesa e
sboccava in una larga piazza, centro di raduno dei minorenni di ambo i sessi residenti nel quartiere e area di esibizione per le rincorse di assordanti motorini intorno alla fontana che
troneggiava in mezzo alla piazza stessa. Il grosso rione era cresciuto progressivamente a partire dalla chiesa ed ora si presentava come una disordinata accozzaglia di squallidi
casermoni e negozi scarsamente forniti, tra i quali di tanto in tanto si intrufolavano linde villette unifamiliari ed esercizi commerciali di un cero livello. Ogni tanto una strada partiva
dall’arteria principale e si inoltrava verso l’aperta campagna, dove si scorgevano fabbriche e capannoni industriali. L’andatura di Giulio era volutamente lenta perché il ragazzo non aveva un
gran desiderio di tornare a casa. Appena lui rincasava, sua madre lo spediva a darsi una rapida lavata e a cambiare tutto quello che aveva indossato fino a quel momento, poi lo costringeva
a mandare giù un pasto abbondante e sostanzioso che Giulio mangiava con grande fatica. Dopo il padre avrebbe voluto il resoconto esatto di tutto quello che aveva fatto a scuola e
infine…
La manata lo colpì tra le scapole con forza, facendolo quasi ruotare su stesso. Si voltò spaventato e si
trovò davanti due ragazzi, entrambi più grandi d’età e decisamente più grossi di lui. Mentre uno si guardava con attenzione intorno, l’altro, il più alto e robusto dei due, con un gran cespuglio
di capelli rossi e ispidi, disse:
“Questa è una rapina, piccoletto. Rovescia un po’ quelle tasche.”
Giulio lo guardò a bocca aperta, incapace di parlare o di reagire.
“Forza, bamboccio” – si spazientì il secondo delinquentello – “Datti una mossa. O vuoi che lo facciamo
noi?”
“Davvero mi state rapinando? Mi dispiace per voi, ma in tasca avrò sì o no un euro È giovedì, capite.
La settimana la prendo il venerdì, io.”
Giulio si frugava in tasca, intanto che parlava, e alla fine aveva pescato un cinquantino ed un paio
di ventini, che porse sul palmo aperto.
Il ragazzo più alto, quello che sembrava il capo, fissò quelle due misere monetine e infilò le mani in
tasca. Poi riportò lo sguardo sul visetto angosciato di Giulio:
“Quanto ti dànno, i tuoi, alla settimana?”
“Venti euro”
“Perciò, se t’avessimo incontrato domani avremmo beccato un foglio da venti euro?”
“Certo” - confermò Giulio, ansioso di evitare frizioni con quella temibile coppia di teppisti -
“Mi dispiace molto, ma se siete a corto di soldi forse potrei aiutarvi a racimolarne un pò…” concluse precipitosamente, come se temesse di essersi scoperto troppo.
I due giovinastri si guardarono, poi scoppiarono a ridere:
“Questa è davvero da raccontare in giro! Tu, che hai paura della tua ombra, vorresti insegnare a noi come
fare la grana. Ma non hai ancora capito con chi hai a che fare?” - il più alto parlava tra continui sghignazzi, in cui talvolta inciampavano le parole. L’altro, da parte sua, non diceva nulla e
si limitava a fissare attentamente Giulio, come se avesse letto nei suoi occhi qualcosa di promettente. All’improvviso fece sentire la sua voce, ottenendo che il suo compagno smettesse di
starnazzare.
“E quale sarebbe questa straordinaria proposta?” domandò a Giulio, con un filo di ironia.
“Conoscete la sala giochi che sta in fondo al corso, subito dopo la tabaccheria, quella piena di
slot-machine? Beh, una di quelle macchinette, la più grossa di tutte, è stata ficcata in un angolo e raramente qualcuno riesce a cavarle dei soldi. La gente si avvicina, vi infila manciate di
monetine, poi se va delusa ed arrabbiata, visto che con quella macchinetta nessuno vince mai! E sapete perché?” – ormai Giulio aveva artigliato l’attenzione dei due interlocutori e non intendeva
perdere l’esiguo vantaggio che si era assicurato su quella bella coppia di prepotenti - “Perché quella è una macchina organizzata in modo che la combinazione vincente non venga mai fuori.
L’ho letto su una rivista, che spiegava anche come svuotarla.”
“Come, a martellate?” – il tono del “capo” suonò marcatamente ironico, era chiaro che non si fidava
minimamente del piccoletto.
“No, c’è un metodo più tranquillo e in un certo senso legale” – spiegò Giulio con calma –“Ascoltatemi bene.
La spina elettrica è infilata in una presa nel muro. Se si tira via la spina e si interrompe il circuito elettrico, intanto che la macchina è in funzione, si bloccherà immediatamente anche il
meccanismo di sicurezza e si fermerà dove capita, addirittura nel punto che trasmette alla macchinetta l’impulso di svuotarsi. Che ne dite, ci proviamo? Bisogna essere in tre. Uno per
distrarre il gestore e questo potrebbe farlo uno di voi due, magari chiedendogli di cambiare dieci euro; il secondo per far funzionare la macchinetta e il terzo per infilarsi in quell’angolo e
tirare fuori la spina. Questo potrei farlo io, che sono il più piccolo. Per di più, ogni venerdì arriva un tizio e la vuota. A quest’ora dev’essere piena zeppa di quattrini”.
I due aspiranti rapinatori, che ormai avevano deposto ogni velleità criminale nei confronti di Giulio, si
guardarono per un momento in faccia, poi il più alto, forse per non dare l’impressione di cedere con eccessiva facilità alla proposta di uno scricciolo che nessuno conosceva nell’ambiente dei
duri, domandò con voce strascicata:
“Se è così facile, perché non l’hai fatto, finora?”
“Perché non avevo…” – cominciò Giulio, poi si interruppe: poteva mai confessare che non aveva mai potuto
contare su due amici capaci di portare a termine il colpo? Perciò, rimediò alla meno peggio:
“Perché non avevo mai trovato ragazzi in gamba come voi.”
Meno di un’ora dopo, il più alto dette di gomito al suo amico e gli sussurrò:
“Sarà meglio andarcene, ormai non c’è più niente da mungere.”
“E il gestore, come si comporterà? Ci sta lanciando delle occhiaie che sembrano secchiate di acqua gelata.
Può impedirci di uscire da qui?”
“Ma vuoi scherzare? Lascia che si mangi le mani fino al gomito, a noi non può fare proprio niente. Deve
stare per forza stare zitto. Mica può venirsene fuori a dire che quella era una macchina truccata e che noi abbiamo trovato il modo di farle sputare quel ben di Dio che aveva accumulato nel
pancino. Lo lincerebbero in un baleno. Dài, andiamo.”
Giulio li guardò e non si mosse, aspettando di capire se nell’invito avessero incluso anche lui. E quando
il ragazzo alto gli sibilò “allora, vuoi sbrigarti?” si affrettò a seguirli fuori dalla sala giochi. Il cuore gli batteva, ma stranamente riusciva a conservare la freddezza necessaria per
cogliere l’occasione di diventare il terzo elemento della minuscola banda, nel caso se ne fosse presentata l’occasione. I suoi due nuovi sodali, intanto, si erano inoltrati in un dedalo di
stradine secondarie e di vicoli, l’uno più angusto e sudicio dell’altro, finché sbucarono sulla riva del Tevere. Dato che il molo era stato chiuso un paio d’anni prima, l’area intorno era tutta
una desolazione, alla quale contribuivano non poco gli edifici in rovina, con le finestre chiuse e le porte sprangate con assi. Il “rosso” si fermò davanti ad una di quelle porte e si
chinò. Giulio vide che spostava una tavola, lasciando spazio sufficiente perché un ragazzo potesse passare strisciando le altre assi. Dopo che tutti e tre furono entrati, il “capo” del duo azionò
una lampadina tascabile e Giulio si trovò a fissare una scala di pietra, ingombra di intonaco caduto. In cima alla scala si apriva una porta dall’aspetto malconcio. Il piccolo corteo la superò ed
entrò in una stanzetta. Le finestre erano chiuse da scuri di ferro. Le pareti erano tappezzate di vecchi poster, alcuni prossimi a deteriorarsi irrimediabilmente. Tutto l’arredamento del locale
consisteva in un tavolo, costruito con alcune assi appoggiate su due cavalletti, e in tre cadenti poltrone di vimini.
Giulio si guardava attorno un po’ intimidito: che cosa sarebbe successo adesso? Fu il “rosso”, come il
solito, a rompere il silenzio:
“Puoi prendere la terza sedia, se vuoi” disse a Giulio e il ragazzo capì che era un invito formale a far
parte della minuscola congregazione. Ma l’altro non aveva finito:
“Senti, a questo punto credo che sia meglio conoscerci un po’ meglio. Innanzitutto, come ti chiami?”
“Giulio”.
“Bene, Giulio, oggi sei stato una vera rivelazione e non c’è dubbio che in seguito potresti essere molto
utile ai nostri scopi. Sai, noi siamo stati sempre in tre, ma un mese fa il nostro amico “Faina” si è fatto pizzicare mentre tentava di svignarsela da un negozio di abbigliamento indossando un
giubbotto in pelle che si era scordato di pagare e adesso ha un anno e sei mesi di tempo per riflettere sulle conseguenze di certe dimenticanze. A proposito di nomi, è giunto il momento di
presentarci. Io mi chiamo Ernesto, ma tutti mi conoscono come Velluto perché ho nelle mani un tocco così delicato che, quando opero, nessuno ne avverte il contatto. Il mio amico qui
presente è stato battezzato col nome di Vittorio, ma se hai bisogno di lui e non dici che stai cercando Trovarobe tanta gente neanche capisce di chi stai parlando. Sai perché lo chiamano
così? Perché è capace di procurarti qualsiasi cosa, da una falsa carta d’identità a un kit completo di pneumatici da neve a prezzo stracciato. E non farti ingannare da quella sua finta aria da
innocentino: il nostro Trovarobe è più duro di una sbarra di ferro e ti consiglio di non farlo mai arrabbiare sul serio.”
“Ciao, Giulio, benvenuto nella compagnia” – la voce strascicata di Vittorio suonava leggermente roca
e Giulio avvertì con nitida percezione la latente pericolosità che avrebbe, all’occasione, saputo sprigionare quel ragazzo smilzo ed apparentemente innocuo – “E adesso vediamo quanto abbiamo
racimolato” – proseguì il ragazzo, estraendo dalla tasca un sacchetto di plastica in cui aveva ammassato le monete. Scese un palpitante silenzio, mentre Vittorio contava i soldi. Alla fine,
sollevò lo sguardo sorridente e riferì:
“Cari miei, proprio niente male per un lavoretto pulito e piuttosto veloce. Abbiamo messo insieme…”
- breve pausa ad effetto – “ Tremilasettecento euro!” dichiarò trionfante.
“Bravo, Giulio, ti sei meritato la tua parte” – intervenne Ernesto – “Ecco qui milleduecento euro tutti
tuoi. Cosa ci farai di questo mucchio di soldi? Altro che paghetta settimanale, no?” E giù una bella risata. Giulio guardava incredulo quella somma per lui stratosferica e sembrava intontito.
Ernesto capì il suo smarrimento e gli fece una proposta:
“Senti, forse ti stai chiedendo come farai a nascondere ai tuoi genitori tutti questi soldi. Noi abbiamo
una cassa comune nella quale conserviamo le nostre parti. Se vuoi, puoi dare a me anche il tuo denaro ed io lo metterò insieme al resto. S’intende che potrai chiederlo indietro, in
tutto o in parte, in qualsiasi momento. Ma se non ti fidi…”
“No, figurati, altroché se mi fido” – fece Giulio precipitosamente – “Eccoti i miei soldi, mettili
assieme agli altri e pensaci tu a custodirli.”
“Senti, a proposito dei tuoi” – intervenne Trovarobe – “Non cominceranno a chiedersi che fine hai
fatto?”
“No, stà tranquillo” – rispose Giulio – posso dire che dopo le esercitazioni del coro sono andato al
Circolo della Gioventù che appartiene alla chiesa ed è diretto da don Pietro.”
“Il vecchio don Pietro!” – lo motteggiò Ernesto – “Quel prete noioso è ancora vivo? Da quanto tempo non
entro più in chiesa a sentirlo.”
Giulio rifletté attentamente sul reverendo, poi sentenziò:
“No, ti sbagli, è in gamba. E poi mi piacciono le sue prediche, così appassionate”
“Come no!” – sghignazzò Ernesto – “Me le ricordo le sue prediche. Le terminava sempre con lo stesso
ammonimento: per l’uomo, l’unico bene che valesse la pena di perseguire era quello di servire Dio. Io, invece, mi sono convinto che l’unico bene che valga la pena di perseguire è nascosto tra le
tante dolcezze in possesso di ogni bella ragazza che si muova in modo più che solleticante entro il mio campo visivo…sempre che non si preferisca il valore commerciale di una allettante partita
di telefonini da piazzare ad un buon prezzo presso un ricettatore…”
E giù una sonora risata, alla quale si unì Vittorio, con quel suo tono di voce più basso e quasi
graffiante.
Passarono un paio di settimane. Giulio tornava a casa sempre più tardi e i genitori cominciavano a
chiedersi dove trascorresse il tempo dopo la scuola. Una sera Petrella senior affrontò il discorso, esprimendo qualche timore circa il pericolo di fare cattive conoscenze che correva un
ragazzo timido ed inesperto come il loro figliolo, ma si scontrò con la serenità della moglie la quale, avendo interrogato Giulio e ricevuto risposte tranquillizzanti, era pienamente soddisfatta
della piega presa dagli avvenimenti:
“Non c’è assolutamente da preoccuparsi, Carlo, in questo periodo Giulio è occupatissimo. Pensa che, oltre a
far parte del coro e del Circolo della chiesa, ora è stato accolto nel Gruppo dei Volontari, il cui statuto ricalca molto quello dei Boy Scout. Tu non sai come io sia felice che nostro figlio
frequenti tanta gente che può aiutarlo a diventare più sveglio e disinvolto!”
E difatti, grazie all’illuminato magistero dei suoi nuovi amici, Giulio stava rapidamente arricchendo il
suo bagaglio di conoscenze dei vari e più reconditi aspetti della vita di un giovanotto intraprendente che si dà da fare per raggranellare un po’ di sudati quattrini. La prima cosa che Giulio
imparò fu manovrare un pezzo di ferro per “prendere in prestito automobili”, come Velluto e Trovarobe definivano il furto delle macchine. L’operazione era di una semplicità estrema
e richiedeva soltanto abilità e precisione nei movimenti, qualità di cui il ragazzo era sicuramente fornito. Per il resto, occorreva un filo di ferro robusto con un occhiello all’estremità: il
sottile oggetto metallico veniva fatto passare attraverso una fessura aperta a forza di unghie nella parte alta di un finestrino; l’anello all’estremità agganciava il minuscolo pomello che
bloccava l’apertura della portiera, lo sollevava con ogni precauzione…e voilà, il gioco era fatto e l’autovettura aperta. Entrava allora in azione Velluto, alias Ernesto, che aveva
per qualche tempo lavorato in un’officina meccanica e sapeva come mettere in moto una macchina nel deprecabile caso in cui non si disponesse della chiave d’accensione. Bastava un altro filo di
ferro e, se nessun furente proprietario compariva sulla scena, la vettura veniva “presa in prestito” e usata come mezzo di trasporto per la serata. Quelle gite serali, tuttavia, non erano
soltanto viaggetti di piacere. Soddisfacevano anche un risvolto affaristico. Ernesto e Vittorio avevano una quantità di contatti, amici lesti di mano e di parola, che ogni tanto affidavano loro,
perché le vendessero col massimo profitto, pacchi di merce sulla cui provenienza e legittimità era meglio glissare. In casi del genere, i due soci battevano capillarmente le zone più promettenti
e, grazie alle astuzie del mestiere, riuscivano a piazzare tutta la refurtiva. Uno scatolone contenente due dozzine di radioline a transistor, ad esempio, non era tanto
facile da collocare presso un unico cliente: se però venivano offerte separatamente ai compratori nelle birrerie, nei bar e nelle sale da ballo, le radioline si vendevano senza alcun
problema. Velluto e Trovarobe erano specialisti in questo tipo di lavori e Giulio ne osservava diligentemente la tecnica, imparando ogni volta qualcosa di nuovo.
Certe sere i tre erano impegnati in lavori più misteriosi. Prelevavano una macchina con la solita tecnica
ormai altamente collaudata e raggiungevano luoghi fuori mano che di solito erano garage, spesso abbandonati e malamente illuminati. Lì si incontravano con figure indistinte che conservavano
un rigido silenzio e badavano accuratamente a mostrare il meno possibile la faccia. Tra Ernesto, il più abile della piccola banda nelle contrattazioni commerciali, e gli altri…operatori economici
avvenivano rapide operazioni di scarico e carico, al termine delle quali pesanti cassette venivano prelevate dal retro di furgoni e depositate sul sedile posteriore della macchina dei
ragazzi. Costoro poi ripartivano, ogni volta da soli, diretti verso mete non troppo lontane, che potevano essere un altro garage, una botteguccia o un piccolo stabilimento. Qui le cassette
venivano scaricate, sempre in silenzio, e alla fine un fascio di banconote veniva messo nelle mani di Velluto, a sancire la soddisfazione reciproca per la felice conclusione della
transizione. Poi i tre ragazzi rientravano in città, abbandonavano l’autovettura ad una discreta distanza dal loro covo e nel giro di una ventina di minuti si ritrovavano al sicuro nel loro
fatiscente rifugio, intenti ad un’operazione che col trascorrere del tempo aveva acquistato sempre maggiore attrattiva: rimpinguare con denaro “fresco” il già notevole malloppo conservato in una
scatola di latta per biscotti che era stata nascosta in un’intercapedine ricavata tra due travi d’angolo del soffitto. Una sera Ernesto, dopo aver lanciato la solita occhiata ammirativa al poster
che raffigurava una Kawasaki Z 1000 ABS dalla linea slanciata e le cromature luccicanti, tirò fuori la scatola e propose di contare i soldi contenuti: quanto mancava al raggiungimento della somma
necessaria per l’acquisto dell’agognato bolide?
“Ti ho mai detto che sono in trattative con Servosterzo per l’acquisto di questo mostro?” – chiese
Ernesto, rivolgendosi a Vittorio.
“Servosterzo chi, quel ladro di meccanico che ha l’officina al Quartiere Ostiense?” si informò
Vittorio, con una smorfia di disprezzo - “E tu che cosa hai a che fare con Servosterzo?”
“Non offendere l’uomo che ci procurerà questa meraviglia a prezzo di fabbrica” – ammonì «il rosso» - “Non
discuto sul fatto che Servosterzo sia un ladro, ma non oserà tirare qualche bidone a noi, avrebbe troppo da perdere: sa benissimo che ho nascosto in un luogo sicuro le foto che gli
scattammo l’anno scorso, durante il suo incontro d’affari, diciamo così, con quei due ricettatori di colore, e non vorrà assolutamente che arrivino misteriosamente nella mani della polizia. No,
stà tranquillo, Servosterzo ha promesso di aiutarmi e lo farà senza trucchi. E adesso, facciamo un po’ di conti. In questa scatola” – così dicendo Velluto l’aprì e la svuotò sul
tavolo, cominciando a contare il denaro che essa conteneva – “vediamo…ci sono…ecco, ci sono esattamente sessantaduemila euro…cribbio, neanche io mi aspettavo tanto ben di Dio! Vittorio, non
dici niente?”
Trovarobe, per una volta nella sua vita, non trovava le parole. Fissava rapito la pila di banconote di ogni taglio che il suo
socio aveva formato e non spiccicava verbo. Ernesto gli lanciò un urlaccio per scuoterlo, poi riprese a spiegare la sua idea:
“Quel modello di Kawasaki costa poco più di dodicimila euro, ma posso averlo a meno, grazie
all’interessamento di Servosterzo. Questo vuol dire che ci resterebbero più di cinquantamila euro, ai quali andrebbe ad aggiungersi la percentuale che ci spetta per la vendita di quella
partita di play-station piazzata per conto di Rosetta la velletrana. Ragazzi, non credo proprio che possiamo lamentarci.”
No, nella stanza non sembravano esserci anime scontente. Tutt’altro! Ma se Giulio conservava un’espressione
tutto sommato controllata, Vittorio, al contrario, sembrava essersi trasformato nella versione vivente di zio Paperone, quando la prospettiva di un guadagno gli fa comparire negli occhi il
simbolo del dollaro…
Passarono alcuni giorni. Giulio prendeva regolarmente parte alle esercitazioni del coro, per evitare che
don Pietro notasse la sua assenza e cominciasse a diffondere in giro inopportune domande. Ogni tanto si faceva vedere anche nella sede del Gruppo dei volontari, giusto per imprimere nella mente
degli altri l’idea che egli frequentasse il sodalizio con regolarità. Ma la sua intesa con i due poco raccomandabili amici si faceva sempre più stretta ed anche lui, ormai, attendeva con
crescente impazienza l’arrivo dell’ambita motocicletta. E una sera, l’atteso evento si realizzò. Vittorio e Giulio, con quest’ultimo che quasi balbettava per l’eccitazione, lo attesero poco
lontano dalla scuola e gli comunicarono la grande notizia: quella stessa sera, al calar della notte, sarebbero andati nel garage di Servosterzo e avrebbero ritirato la Kawasaki! Voleva
accompagnarli, per godere insieme di quell’irrepetibile momento? Certo, si affrettò ad accettare Giulio, lo aspettassero pure all’angolo del vicino bar di Oreste, sarebbe andato con loro più che
volentieri.
La sera, nel garage deserto del losco meccanico, si tenne una piccola cerimonia a base di esclamazioni
estasiate e di pacche beate sulle spalle, tutte manifestazioni di incontenibile visibilio con le quali Velluto e Trovarobe salutavano il materializzarsi del luccicante bolide motoristico
al centro del pavimento in cemento del vasto garage. Giulio, seduto su un bidone di olio per motore, li guardava con un sorrisino divertito che aleggiava sulle labbra, ma un osservatore attento
avrebbe notato che quel sorriso non arrivava agli occhi.
“Bene, Servosterzo, sei stato di parola. Eccoti quanto pattuito e grazie per la benzina.” - disse
Ernesto, mettendo nelle mani dell’altro un consistente mazzo di banconote.
“La benzina è un omaggio della casa a due simpatici amici come voi” – ribatté il meccanico, con un sorriso
untuoso. Poteva ben permettersi di essere generoso: il servizio di corrieri di merce scottante, svolto a più riprese da quei ragazzi per suo conto, gli aveva consentito di arricchirsi correndo
rischi minimi.
“Se volete provarla, - continuò Servosterzo – “vi conviene passare sotto il ponte della
metropolitana, attraversare la zona Giuliano-Dalmata e poi quella di Castel di Leva. Usciti dalla periferia, vi dirigete verso l’incrocio per Albano e vi immettete sulla Pontina, sulla quale
potete scatenare tutta la potenza di questo mostro.”
“Cribbio, è un’idea super!” – esultò Vittorio, ma Giulio intervenne, per la prima volta nella
serata:
“Ragazzi, calmatevi e riflettete. Adesso è buio e una moto così, lanciata a tutta velocità, attirerebbe
sicuramente l’attenzione di tutti gli sbirri vigilanti da qui ai Castelli romani. Domani pomeriggio, invece, in un’ora in cui il traffico è scarso, ve ne andate sulla Pontina, come ha suggerito
il vostro amico, e vi divertite a volare con questo meraviglioso giocattolo senza eccessivi rischi. Prima che qualche pattuglia vi intercetti, sarete arrivati a Nemi o ad Ariccia e da lì non
avrete nessuna difficoltà a tornare a Roma, mantenendo un’andatura normale.”
Ernesto e Vittorio lo avevano ascoltato con attenzione, ma la voglia di provare la moto era troppo forte,
almeno per Vittorio, che tentò di far accettare al socio il suo punto di vista:
“Proprio perché è notte, dico io, dobbiamo farci una bella gita. Quanti posti di blocco, quante macchine di
carabinieri o polizia volete che ci siano in giro stasera? Anche a loro piace tornare a casa per cena, ci scommetto…”
Ma Velluto era dubbioso e dopo qualche riflessione tagliò corto:
“No, Vittorio, credo che Giulio abbia ragione: sarebbe da stupidi beccarci una multa spaziale per eccesso
di velocità, oltre a rischiare di farsi addirittura sequestrare questo gioiello …”
“E chi se ne frega dei soldi!” – lo interruppe rabbioso Vittorio – “Hai dimenticato quanti ne
abbiamo…”
Un’occhiata fulminante del «rosso» gli gelò il resto delle parole sulla punta della lingua.
Trovarobe capì di aver parlato troppo di fronte a un estraneo, neppure molto fidato come il subdolo meccanico, arrossì e chinò la testa. Questo mise fine alla discussione. Ernesto montò a
cavalcioni del mezzo, fece un cenno a Vittorio che si rannicchiò sull’angusto spazio dietro di lui, diede appuntamento a Giulio per la sera successiva, chiedendogli se aveva soldi per prendere un
taxi fino a casa, salutò con una strizzata d’occhio Servosterzo e uscì dal garage a velocità moderata.
Il giorno dopo Giulio marinò la scuola. Nel pomeriggio si appostò nei pressi del covo, in posizione
defilata, e vide uscire a bordo della motocicletta i suoi due amici, diretti verso la statale Pontina. Indossavano entrambi caschi integrali neri, nuovissimi, acquistati una settimana prima in un
negozio di articoli sportivi, dove erano state comprate anche le due giacche di cuoio nere che li proteggevano dal freddo. Pure i morbidi guantoni infilati sulle mani provenivano dallo stesso
negozio, ma non erano passati dalla cassa come il resto. Giulio stette ad osservarli per un po’, fino a quando non li vide sparire dietro una curva. A quel punto si avviò lentamente verso casa,
pensieroso. Era talmente immerso nelle sue riflessioni che andò quasi a sbattere contro la macchina della polizia, parcheggiata davanti al vialetto d’ingresso della sua abitazione. Giulio si
arrestò perplesso. Una folla di pensieri gli invase la mente. Che cosa volevano i poliziotti a casa sua? Che avessero scoperto la sua amicizia con Ernesto e Vittorio e i traffici da galera che
insieme avevano portato a termine? Tempo prima, Giulio si era informato su Internet: era vero che tra i 14 e i 18 anni si poteva finire in un carcere minorile ma esisteva anche la possibilità di
entrare, con un po’ di fortuna, in un “centro di prima accoglienza” per minorenni, in cui la reclusione aveva forme meno severe.
“Sì, va bene, sono un minorenne incensurato e comunque devono provare le loro accuse, se me ne faranno” –
si disse il ragazzo, sentendosi sempre più nervoso e preoccupato – “ma, accidenti, ho tanta paura! E se non entrassi?”
Poi comprese che una soluzione simile, lungi dal risolverlo, avrebbe soltanto rimandato il problema. E poi
i poliziotti non avrebbero certo ricavato una buona impressione da una sua eventuale fuga. Si fece, quindi, coraggio, tirò un profondo sospiro ed entrò in casa, dirigendosi verso il salotto. Qui
si trovò di fronte ad un quadro che si sarebbe potuto senz’altro intitolare “Incredula costernazione”. I suoi genitori erano sprofondati, immobili e chiaramente affranti, nelle due poltrone di
pelle che fronteggiavano il divano, dello stesso materiale, sul quale era seduto un uomo massiccio, quasi completamente calvo, dall’espressione risoluta. Al suo apparire sulla soglia del
locale, nessuno parlò. Giulio si sentì trafiggere da tre paia d’occhi che sembravano voler leggere fino nelle pieghe più segrete del suo animo. La madre fu la prima a riscuotersi. Con voce di
pianto, chiese al ragazzo dove fosse stato fino a quel momento.
“Dopo la scuola sono andato a fare un giro a Villa Borghese, mamma. È una giornata così bella…” rispose
Giulio, augurandosi che la sua voce non tremasse.
“Tu stamattina non sei andato a scuola, Giulio. Perché?” Il tono del padre minacciava tempesta da un
istante all’altro.
“Te lo dico io dove sei stato: in giro con i tuoi due cari amici Ernesto Giachetti e Vittorio Lentini, ad
organizzare un altro colpo ai danni di qualche povero sfortunato. Sbaglio?”
Lo sconosciuto aveva parlato con la sicurezza di chi sa perfettamente quello che dice e Giulio si sentì
attraversare da un brivido di angoscia al sentire citare la sua frequentazione con due tipi perfettamente noti alle forze dell’ordine, a giudicare dal fatto che il nuovo venuto conosceva anche i
loro cognomi. Ma non poteva crollare alla prima provocazione, così atteggiò meglio che poté il viso ad un’espressione interrogativa, costringendo l’uomo a presentarsi:
“Sono l’ispettore De Marco della polizia di Stato e sto indagando su alcuni furti di auto in cui sembra che
sia implicato anche tu. Ti dico chiaramente, in modo che tu capisca che non ho nessuna intenzione di farti cadere in qualche trappola, che sei stato riconosciuto da un testimone mentre con i tuoi
complici stavate, come dite voi, prendendo in prestito?, ecco, stavate prendendo in prestito una Mercedes in piazza Mecenate. E per dimostrarti ancora di più quanto intenda parlare
con te a carte scoperte, ti dirò anche che oggi pomeriggio i tuoi amici sono purtroppo entrambi morti in un incidente con la loro potentissima moto. Una pattuglia della stradale ha praticamente
assistito al fatto. Gli agenti hanno testimoniato che i due andavano ad una velocità pazzesca, quando il guidatore ha perso improvvisamente il controllo del mezzo, che è andato a schiantarsi
contro un camion fermo sul lato della strada. Pensa, sembra che la moto stesse in quel momento toccando i centosettanta! Due stupidi ragazzi incoscienti…” concluse De Marco, scuotendo la testa in
un gesto di sincera deprecazione. Poi continuò:
“Io adesso vado via, ma ti aspetto domani mattina, alle dieci, nel mio ufficio. Presentati nel
commissariato di zona, tuo padre te lo indicherà, e cerca di essere puntuale. Dovremo fare una lunga chiacchierata e dipenderà dalla sincerità e completezza delle tue risposte se deciderò di
denunciarti per una sfilza di reati lunga da qui a lì, oppure raccomandare al giudice di darti un’altra possibilità, vista la tua giovane età. Ricorda, comunque, che eventualmente non lo farei
per te, ma per i tuoi genitori, persone degne di rispetto, le quali non meritano questa umiliazione. A domani, allora, e puntuale, mi raccomando!”
L’ispettore si alzò, strinse la mano prima alla signora Anna, poi a suo marito, dedicò ad entrambi un
rassicurante “Non abbattetevi, vedrò quello che posso fare” e se ne andò, dopo aver lanciato un’ultima occhiata di aspro biasimo a Giulio, che se ne stava muto e compunto accanto ad una
vetrinetta. Uscito De Marco, si scatenò la tempesta di accuse, recriminazioni e scusanti di ogni tipo. Carlo Petrella dette fondo a tutta l’amarezza di un uomo probo che scopre nel modo peggiore
di aver allevato un mezzo delinquente e non la finiva più con le domande alle quali Giulio opponeva una difesa strenua, intessuta di mezze ammissioni scarsamente compromettenti e di accorate
negazioni di ogni suo coinvolgimento nelle attività illecite dei due ragazzi, che egli giurava di aver conosciuto a malapena. Anna Petrella, dal canto suo, dette a quella parvenza di processo un
contributo basato essenzialmente su sospiri, lacrime e una domanda ripetuta in media ogni due minuti: “Giulio, ma perché l’hai fatto?”, domanda alla quale il ragazzo non si prendeva assolutamente
il disturbo di rispondere. Come Dio volle, anche quel penoso interrogatorio ebbe termine, più che altro per l’invincibile sfinimento che aveva aggredito i due inquisitori, e Giulio poté ritirarsi
nella sua cameretta, inseguito dall’ultimo monito del padre:
“E ricordati che non muoverò un dito per evitarti una più che meritata punizione, nel caso dovessi finire
di fronte ad un giudice!”
Disteso nel suo letto, mani intrecciate dietro la nuca, sguardo vagante sul soffitto, Giulio ripassò tutti
gli avvenimenti della giornata e abbozzò un programma di massima per i prossimi giorni. Innanzitutto era necessario che, nella deprecabile ipotesi di una sua restrizione in un luogo di pena,
restasse libero il tempo necessario per andare a recuperare nel covo la scatola di latta con tutti quei soldi. Quanto aveva sognato di metterci le mani sopra! Con quella somma, per lui enorme,
avrebbe potuto togliersi un bel po’ di soddisfazioni, a patto di spendere con parsimonia, evitando di attirare l’attenzione. Ricordò quanti piani aveva escogitato nell’ultimo mese per
impadronirsi del malloppo, tutti alla fine scartati. Aveva dovuto attendere che la casualità giocasse la sua carta risolutiva per accorgersi che era finalmente giunto il momento di agire. C’era
voluta la concomitanza di due elementi essenziali: la decisione da parte dei suoi amici di comperare una motocicletta e l’apprendimento di una notizia foriera di sviluppi molto, molto
interessanti. Un giorno, mentre “navigava” in Internet senza un indirizzo preciso, Giulio si era imbattuto nella strampalata curiosità di un tale al quale interessava sapere se esistesse una
maniera di sabotare una moto di grossa cilindrata. C’era qualcuno che potesse, o volesse, aiutarlo? E qualcuno c’era, evidentemente, perché seguivano almeno sei o sette lettere contenenti
dettagliate informazioni circa la procedura da seguire all’occorrenza. Giulio aveva immediatamente drizzato le orecchie. Aveva letto con attenzione le spiegazioni fornite da qualcuno che, a
quanto pareva, era sufficientemente ferrato sui metodi di un individuo privo di remore morali e aveva atteso con pazienza che si presentasse il momento giusto per mettere in pratica le nozioni
acquisite. L’arrivo della moto aveva deciso il destino di Ernesto e Vittorio. Invece di andare a scuola, quella mattina, Giulio si era intrufolato nel covo e lì, sicuro di non essere disturbato
perché Velluto e Trovarobe erano andati a Velletri per incontrare una certa Rosetta e chiudere l’affare delle play-station, si era messo a lavorare con calma e concentrazione. Due
ore dopo, la trappola era pronta. Con certosina pazienza ed attenzione spasmodica, il giovanissimo criminale aveva cosparso con acido cloridrico gli steli anteriori della forcella e poi li
aveva segati a metà nel punto di rottura, badando scrupolosamente a non lasciare tracce facilmente visibili della manomissione. Gli effetti di quel procedimento si sarebbero inesorabilmente
manifestati al primo stato di tensione subito dal gruppo del manubrio e dei suoi elementi principali. La forcella, infatti, se sottoposta a stress eccessivo, si sarebbe scaricata e
successivamente spaccata senza manifestare preventivi segnali di cedimento; i giunti, dal canto loro, sono notoriamente deboli e una rottura è circostanza tutt’altro che inconsueta: velocità
elevata, una brusca frenata improvvisa e il pilota si ritrova a manovrare uno sterzo che non risponde più alle manovre! Quelle previsioni, in ogni caso frutto di ripetute sperimentazioni
effettuate da esperti, avevano ricevuto una tragica conferma a metà pomeriggio di quello stesso giorno, allorché due ragazzi alle soglie della giovinezza erano morti su una strada statale
dell’entroterra laziale, per un cedimento strutturale della potente moto sulla quale stavano viaggiando. Questa, al momento, era la conclusione alla quale erano giunti i poliziotti giunti sul
luogo del violentissimo impatto della motocicletta con un mezzo pesante parcheggiato su un lato della carreggiata. Giulio, sveglio nel buio della sua cameretta, si augurava naturalmente con tutto
se stesso che quella conclusione fosse accettata senza riserve dagli inquirenti e contribuisse a far chiudere il caso, etichettandolo come puro e semplice incidente stradale causato dalla
velocità troppo elevata. I suoi pensieri non si erano rivolti, neppure per un breve istante, all’indirizzo dei suoi defunti amici. Nella sua considerazione, loro erano stati semplicemente due
ostacoli sulla strada dell’arricchimento economico ed egli trovava del tutto naturale essersene sbarazzato. L’importante era che nessuno, tantomeno quel De Marco dallo sguardo pericolosamente
inquisitorio, sospettasse un suo coinvolgimento nel funesto avvenimento; il resto, al confronto, era poca roba e con un po’ di fortuna, aiutata da una robusta dose di abile recitazione, Giulio
contava di cavarsela senza eccessivi danni.
Adesso il ragazzo si sentiva molto più tranquillo. Si accorse di avere sete e si diresse silenziosamente
verso la cucina. Passando davanti alla porta socchiusa della camera da letto dei suoi genitori, sentì provenirne un mormorio fitto fitto e capì che non erano ancora riusciti ad addormentarsi. Il
tono di voce della mamma suonava più acuto del solito, forse a causa del piagnucolio che ogni tanto vi si insinuava; il registro solitamente grave della voce del padre, invece, non era
minimamente cambiato. E fu un lungo sfogo del genitore a far sorridere Giulio di aperta soddisfazione:
“Anna, io in presenza dell’ispettore ho dovuto mantenere un certo atteggiamento, ma adesso che siamo noi
due soli posso dirti che sono risoluto a sostenere in tutti i modi nostro figlio. A me le accuse rivoltegli sembrano sinceramente esagerate e non mancherò di farlo presente al giudice, se
dovessimo arrivare alla sua presenza. Ma andiamo, lo vedi tu Giulio andarsene in giro per Roma, a rubare automobili in compagnia di due ragazzacci mezzo delinquenti, che Dio accolga le loro
anime! Giulio, un ragazzo così timido ed ingenuo da arrossire addirittura in presenza del parroco! No, non lo crederò mai. Nessuno potrà convincermi che nostro figlio non sia altro che un
adolescente schivo, impacciato ed incline ad impressionarsi in presenza del pur minimo atto di violenza o di illegalità. Nessuno!”
Rocco Tedino