Valerio Rosati si guardò nello specchio del bagno ed una smorfia stizzita gli contrasse il volto, che si era incupito di botto:
”Guarda lì”, si commiserò amaramente. “Ho trentasette anni e ne dimostro venti di più. Che schifo!”
Quest’ultima esclamazione gli era sfuggita alla vista degli occhi infossati e circondati da una sottile ragnatela di rughe. Valerio avvicinò ancora di più il viso allo specchio, schiacciò un brufoletto che occhieggiava sulla punta del mento, poi si riempì la mano di crema da barba e cominciò ad insaponarsi la faccia, senza mai smettere di borbottare in maniera per lo più incomprensibile. Finito di sbarbarsi, si risciacquò il volto e passò in cucina, dove il soliloquio continuò davanti ad una tazzina di caffé e ad una fetta di torta del giorno prima:
“E comunque sono ridicolo a preoccuparmi del mio aspetto fisico, quando domani mattina potrei non averne più uno. Proprio così, caro amico, domattina potrei essere morto”, sentenziò rivolgendosi verso un piccolo gatto di maiolica abbandonato in un angolo della credenza. “Mi troveranno chissà quando nel canale che passa accanto alla ferrovia, magari con mani e piedi legati e la polizia penserà subito ad un regolamento di conti tra elementi della malavita. Chi mi conosce si meraviglierà delle brutta fine che ho fatto, le ipotesi in proposito si incroceranno serrate e nessuno saprà che in effetti sono morto perché non avevo restituito nei termini concordati un prestito al caro e generoso don Luigi Contorni, un benefattore dell’umanità che mi ha parlato molto chiaramente l’ultima volta che ci siamo incontrati. Pe essere precisi, il suo messaggio mi è stato portato da un energumeno atticciato con due orecchie a cavolfiore, lo sguardo fisso da serial killer e due mani grandi e nodose come badili. «Guagliò», mi ha detto con la tipica voce bassa e rauca che tutti i delinquenti sembrano aver copiato dal Padrino cinematografico. “Guagliò, don Luigi mi ha mandato ad avvisarti: se non consegni i sette milioni da qui a una settimana, puoi anche smettere di preoccuparti per il mangiare, il respirare e tutto il resto. Ricordati, una settimana a partire da oggi.». E se ne era andato trascinandosi dietro una gamba che si diceva fosse rimasta schiacciata sotto la saracinesca di un negozio, saltata prematuramente in aria durante un maldestro tentativo di intimidazione a scopo mafioso. Non mi aveva dato neanche il tempo di chiedere come mai i tre milioni del prestito iniziale fossero diventati sette nel giro di tre mesi. Mah, misteri della matematica e del complicato calcolo di interessi…Adesso, eccomi qui a fare colazione forse per l’ultima volta nella mia casa: domani scade l’ultimatum ed io in tasca ho esattamente duecentoquarantamila lire. Vuoi sapere che programmi ho per le prossime ore? Fra poco esco, mi faccio una bella passeggiata fino al molo per Capri e me ne vado a trascorrere sulla spiaggia di Marina Piccola quella che potrebbe essere la mia ultima giornata su questa terra. Stasera, al ritorno da Capri, prima di rientrare in casa farò un salto nella caserma dei carabinieri poco distante e racconterò in quale situazione mi ha cacciato quello sporco strozzino. Se proprio ci devo rimettere la pelle, per lo meno darò un po’ di filo da torcere al signor Contorni! Poi domani mattina presto darò fuoco alla tipografia, così nelle mani del nostro caro amico resterà alla lettera un pugno di cenere e infine mi stravaccherò comodamente in quella poltrona e aspetterò di vedere che cosa succede. Che te ne pare? Non hai niente da dirmi? E già, a sentire il nome di don Luigi Contorni anche voi pupazzi tenete prudentemente il becco chiuso!”.
Rosati finì di bere il caffè, si alzò da tavola, depose nell’acquaio la tazzina sporca e tornò in bagno per completare le pulizie mattutine. Più tardi, dopo aver indossato un comodo vestito, si preparò per uscire. Passando davanti ad uno specchio a figura intera appeso nell’anticamera, non resistette alla tentazione di lanciarsi un’altra occhiata: la superficie gli rimandò l’immagine di un uomo attraente, alto, con gli occhi azzurri e i capelli chiari tagliati cortissimi.
“Però, non sono ancora da buttar via”, commentò il giovane, dimenticando che non più tardi di un’ora prima si era giudicato pronto per la rottamazione. Scuotendo la testa, Rosati aprì l’uscio di casa, discese le due rampe di scale che lo separavano dall’androne del palazzo, lo attraversò, aprì il portone e si ritrovò sulla strada che era, come al solito, piena di gente che si spostava in ogni direzione, chi seguendo un itinerario determinato, chi beandosi nel passeggiare sotto il sole caldo e luminoso di metà giugno. Due ragazze con un gelato in mano gli lanciarono, incrociandolo, un’occhiata di aperta approvazione, alla quale egli rispose con un sorriso. Una bancarella straripante di musicassette diffondeva nell’aria musica ad altissimo volume; un pizzaiolo itinerante impastava destramente, e poi poneva a cuocere in un piccolo forno a carbonella, larghi dischi di pizza sottilissima dai quali si sprigionavano aromi irresistibili. Un cestino dondolante scese dal secondo piano del palazzo e si fermò davanti al garzone del fruttivendolo che lo attendeva fermo sul marciapiede: un sacchetto di verdura venne deposto all’interno ed il recipiente rifece il percorso inverso, tirato su da una signora che urlò “Dì a don Renzo che poi passo io a pagare” prima di ritirare la testa dalla finestra e di sparire all’interno della sua abitazione. Il traffico era notevole e, tanto per cambiare, allegramente caotico, snodandosi in una cacofonia di suoni che riempiva la vita della strada. Rosati si era fermato al semaforo ed attendeva che passasse al verde, quando si sentì toccare sulla spalla, mentre una voce allegra lo strappava ai suoi pensieri:
“Valerio, che piacere vederti! Come stai?” Il giovane si voltò di scatto e di trovò di fronte ad un uomo maturo dall’aspetto giovanile, con la schiena dritta e le spalle ampie, una bella faccia schietta e un sorriso amichevole che metteva in mostra i grossi denti candidi e regolari. Rosati si sentì sprofondare nel panico: ricordava il viso dell’uomo, ma quale era il suo nome? Poi qualcosa scattò nella sua memoria ed anche l’ultimo tassello andò al suo posto. Il nuovo arrivato, che intanto attendeva una reazione qualsiasi da Valerio, bloccato lì come imbambolato, si chiamava Giuliano Guerriero ed era nientemeno che il suocero di Contorni! Ex-suocero, per la verità, in quanto sua figlia Clara, stanca dei continui soprusi di un marito manesco e prepotente, un bel giorno l’aveva piantato in asso ed era tornata nella bella casa dei genitori, felici in cuor loro dell’epilogo di un’unione che essi non si erano mai convinti ad approvare del tutto.
“Don Giuliano, che piacere vedervi”, il tono sicuro di Valerio spazzò via le sue esitazioni del primo momento. “Posso esservi utile in qualcosa?”
“Ti ringrazio, Valerio, ma non è il caso. Ti ho visto uscire dal palazzo e mi è venuta voglia di salutarti. Anzi, visto che la fortuna ci ha fatti incontrare, ne approfitto per invitarti a cena, stasera, a casa mia. No, non accetto scuse o rifiuti. Tu sai che ti ho sempre stimato e mi farebbe veramente piacere averti alla mia tavola, davanti ad un buon piatto di frutti di mare.
Dopo cena, poi, ho organizzato un pokerino al quale interverranno due o tre amici: posso considerarti dei nostri? Tu sai che a me piace molto di più guardare che partecipare e allora quale migliore occasione per divertirmi, come si dice, per interposta persona? No, ti prego, non puoi privarmi di questa soddisfazione”, disse Guerriero, stringendogli le mani in segno di affabile coercizione. “Resta inteso che tu non dovrai rischiare i tuoi soldi. Prima della partita ti darò una somma congrua e così tu potrai giocare per te e per me. D’accordo, allora? Ti aspetto alle nove, non mancare, mi raccomando. Adesso devo scappare, ho un sacco di cose da fare. A stasera, ciao.”
E quella specie di ciclone si perse tra la folla, lasciando Valerio senza parole:
“Roba da pazzi, non mi fatto nemmeno aprire bocca! E va bene, vuol dire che stasera mi concederò una buona cena ed uno stimolante pokerino. Tanto, è tutto gratis…”concluse il giovane con un sorrisino amaro. Un quarto d’ora dopo giunse al molo d’imbarco sugli aliscafi per Capri, giusto in tempo per prenderne uno e partire per l’isola di Tiberio. Vi trascorse tutta la giornata e quando rimise piede sulle strade di Napoli, il sole era una palla arancione, rossa e viola che incendiava la parte occidentale del golfo. Aveva appena il tempo di correre a casa a cambiarsi d’abito e indossare l’unico davvero elegante che avesse, accuratamente risparmiato per le grandi occasioni, prima di raggiungere la villa di Guerriero che si trovava sulla collina di Posillipo.
Un’ora più tardi si stava districando nel traffico della città, attento a non commettere imprudenze. Una sera stellata, un po’ fredda, si avviava a subentrare alla bella giornata ormai trascorsa, quando imboccò la salita che portava a destinazione. Al centro del cielo splendeva una luna piena rotonda come una fragrante pagnotta di pane, che inondava la città di un chiarore così bianco da sembrare azzurrino. Percorse qualche chilometro ed arrivò di fronte ad un cancello di ferro battuto, oltre il quale si profilò un viale alberato che sboccò in un piazzale ricoperto di finissima ghiaia bianca ed occupato, al momento, di una mezza dozzina di macchine grandi e lucenti. A destra dello spiazzo, in cima ad una corta e larga scalinata, si ergeva la villa, un edificio a pianta rettangolare , raccolto (come Rosati ebbe modo di appurare in seguito) intorno ad un cortile interno molto ordinato: al centro troneggiava un gazebo bianco con tavolino e poltroncine, mentre lungo il suo perimetro erano disseminati imponenti vasi di terracotta traboccanti di fiori, un piccolo e variopinto giardino al quale si poteva accedere attraverso le due serie di porte finestre che si aprivano ai lati dell’enorme salone a pianterreno. Il visitatore scese dalla macchina e fu accolto da uno scoppio di abbaiamenti. Un cagnolino bianco scivolò fuori dalla porta della casa e si lanciò sul viale, ansante di piacere e rimbalzante come una palla, ansioso di fare amicizia. Valerio si chinò a strisciargli una veloce carezza sul capo ed entrò in un ampio ingresso. Il locale alla sua destra mostrava, attraverso la porta aperta, una biblioteca con alti pannelli di quercia scura alle pareti, scaffalature e pavimento in legno di noce. Il lungo corridoio che portava al salone principale, invece, era luminoso, con pavimenti in parquet e pareti bianche adornate di stampe di città medievali e di cavalli purosangue ripresi nelle pose più diverse, testimonianze della passione coltivata da sempre da Giuliano Guerriero. Valerio entrò nella grande sala, elegantemente arredata, e vi trovò tre persone oltre al padrone di casa che gli si avvicinò premurosamente, lo prese sottobraccio e lo portò a conoscere gli altri. Ma non poteva sapere che la vista di uno dei tre l’aveva quasi fatto svenire: era il tizio dal fisico di pugile in pensione che aveva fatto da portavoce di Luigi Contorni, quella famosa mattina delle minacce di morte. Si vide tuttavia costretto a dissimulare i suoi sentimenti e a sorridere quando il loro anfitrione gli presentò quelli che sarebbero stati i suoi compagni prima a cena e poi, presumibilmente al tavolo del poker. Seppe così che quella mammoletta del picchiatore si chiamava Andrea Solimeni, che gli strinse la mano fin quasi a stritolargliela, con un sorriso cattivo stampato sul brutto muso. Il secondo invitato era anziano, grassoccio, di media statura, con una lieve calvizie, l’aspetto notevolmente curato nei particolari. Il suo nome era Nunzio Siani, ma tutti lo chiamavano “il ragioniere”. Parlava con voce bassa e untuosa, usando parole al miele, ricoperte di glassa, con una giovialità da parroco di campagna. A Valerio restò subito antipatico, mentre lo incuriosì un giovanotto alto e magro, i lunghi capelli biondi legati sulla nuca, all’angolo della bocca un sorrisino che gli conferiva un’aria indolente. Guerriero lo presentò come Mimmo De Luca, senza aggiungere altro. Esauriti i convenevoli di rito, il padrone di casa invitò i suoi ospiti a prendere posto al tavolo situato in un angolo del salone, che reggeva un’elegante buffet, ricolmo di ricercati bocconcini che spaziavano dal salmone al caviale, con accompagnamento di vini costosi, e la cena ebbe inizio, allietata dai vari e succulenti piatti portati in tavola da due camerieri discreti ed efficienti. Anche la conversazione fluì abbastanza sciolta, nonostante la palpabile tensione in atto tra Valerio e Solimeni, il quale ogni tanto gli lanciava occhiate minacciose, alle quali l’altro cercava di non dare importanza. Da un punto imprecisato della stanza si diffondevano, a basso volume, le note della colonna sonora di “West side story”.
La cena terminò affogata in un pregevole cognac vecchia riserva e i cinque si sgranchirono le gambe con una breve passeggiatina all’aperto. La notte era calma e il cielo un vasto velluto stellato. Mentre passeggiavano, Solimeni trovò il modo di avvicinare Rosati e di sussurrargli con calma pesante e minacciosa, la voce roca e l’alito che puzzava di vino, conseguenza delle frequenti libagioni alle quali si era abbandonato durante la cena:
“Non avrai intenzione di giocare anche tu, stasera, ammesso che abbia i soldi per farlo. Ricordati dell’appuntamento che hai domani mattina e cerca di non mancare, tanto non troveresti nessun posto dove nasconderti. Io ti ho avvisato, morto in piedi…” E con quest’ultima elegante stoccata, lo sgradevole individuo si allontano ridacchiando. Valerio lo seguì per un pò con lo sguardo, nel quale si leggeva un forte impulso di uccidere, poi scrollò la testa e rientrò in casa. Qui Guerriero lo attirò in un angolo deserto della biblioteca e gli mise tra le mani una mazzetta di banconote, senza proferire parole e poggiando un dito sul naso per imporri il silenzio. Quindi lo risospinse verso il salone, dove un cameriere aveva già preparato il tavolo da gioco. I convitati presero posto alla spicciolata. Valerio aveva alla sua sinistra il ragioniere, di fronte Solimeni e alla sua destra De Luca, il biondino. Guerriero, invece, si era seduto su una poltroncina, a metà dietro Siani, il ragioniere, e Solimeni e da lì si dispose a godersi la sera, un bicchiere di porto in una mano ed un panciuto sigaro nell’altra.
Mentre i giocatori disponevano davanti a loro le fiches in mucchietti ordinati, si fece sentire la voce antipatica di Solimeni:
“Don Giuliano”, disse l’omaccio, rivolto al padrone di casa. “Voi sapete quanto vi stimo e non mi permetterei mai in casa vostra di dubitare di qualcuno dei vostri ospiti. Però, ho il dovere, come giocatore, di accertarmi che il gioco si svolga secondo tutte le regole da parte di noi quattro. Vi prego, perciò, di autorizzarci a mettere sul tavolo i nostri soldi, in modo da controllare che tutti sono in grado di affrontare una partita accanita come quella che ci prepariamo a giocare, visto che abbiamo deciso di non porre limiti alla posta.”
Così dicendo, scoccò un’occhiata malevola e trionfante a Rosati, un’occhiata che diceva chiaramente: e adesso, pezzente, voglio vedere come te la cavi! Guerriero, con un cenno del capo, aveva intanto autorizzato la richiesta di Solimeni e così sul tavolo comparvero due robusti mazzi di banconote da centomila lire, mostrati dal ragioniere e dal biondino, mentre Valerio indugiò un attimo, poi tirò fuori lentamente dalla tasca della giacca un rotolo rispettabilissimo di biglietti di banca e lo appoggiò sul tavolo: erano almeno quattro o cinque milioni quelli che giacevano sotto gli occhi sbalorditi di Solimeni che passava alternativamente lo sguardo dalle banconote alla faccia beata di Rosati, il quale ne approfittò per prendersi la rivincita:
“E tu, Solimeni, non ci fai vedere il colore dei tuoi soldi?”
Mordendosi le labbra per il dispetto, l’energumeno ebbe la tentazione di mandare al diavolo il rivale, ma ricordò appena in tempo che era stato lui a sollevare la questione e adesso non poteva certo tirarsi indietro. Esibì a sua volta un bel malloppo ed il gioco poté cominciare. Dopo un paio d’ore, la situazione vedeva in vantaggio Valeri che vinceva circa due milioni, mentre il biondino si teneva prudentemente a galla. Solimeni era quello che perdeva di più. Trascorsa un’altra ora, Rosati aveva incrementato le sue vincite, il ragioniere si era tirato discretamente su e il biondino perdeva qualcosa, niente da paragonare alle perdite di Solimeni che sbagliava a cacciarsi in tutte le combinazioni, nel tentativo di rifarsi. Ad un certo punto della notte, fu il biondino a proporre di giocare ancora un’ora e poi smettere. Solimeni avrebbe voluto proseguire ad oltranza, ma di fronte alle insistenze degli altri dovette arrendersi. Si arrivò così all’ultimo giro, quello in cui, per tradizione, si sparavano tutte le cartucce a disposizione. Distribuiva le carte De Luca, il biondino. La tensione era palpabile, mentre le carte si allineavano davanti ai giocatori. Valerio raccolse le cinque servitegli e vide che aveva una coppia di re. Decise di passare per vedere cosa facevano gli altri. Alla sua sinistra il ragioniere sfogliò lentamente il piccolo ventaglio ed aprì di cinquecentomila lire. Impetuoso come sempre, Solimeni rilanciò di un milione. De Luca guardò le sue carte e passò. Valerio era dubbioso: il piatto si presentava allettante, ma poteva rischiare, già da subito, un milione e mezzo per andare a giocare con una coppia di re? In quell’istante agganciò per caso lo sguardo del biondino e, meraviglia delle meraviglie!, notò che questi gli faceva con la testa un rapido ed impercettibile cenno: lo invitava a giocare senza timore. Timoroso che anche gli altri due avessero afferrato il gesto, Rosati rivolse di sottecchi un’occhiata in giro, ma si tranquillizzò subito, tutto sembrava in ordine. Era il momento delle grandi decisioni e così, sentendo su di sé lo sguardo duro di Solimeni, puntò la cifra richiesta. Chiese tre carte, il ragioniere giocò anche lui e ne prese una e Solimeni due. Con lentezza esasperante, Valerio spizzicò le carte arrivate. Quando giunse a scoprire la quinta, una specie di rombo iniziò a ronzargli nelle orecchie nelle orecchie e si sentì leggero leggero, come se stesse fluttuando in un sogno: aveva in mano un poker di re, con un asso come quinta carta. Rosati non aveva il coraggio di guardare i rivali, sicuro che non avrebbero impiegato molto a leggergli in faccia il punteggio raggiunto. Si fece, comunque, forza e con voce in cui si sforzò di infondere un pizzico di delusione, propose “parola”, attendendo che uno degli altri due proponesse un rilancio qualsiasi. Il primo fu il ragioniere, che aprì con un milione. Solimeni a momenti non lo lasciò neanche finire di parlare e gracchiò con la sua voce roca “un milione più altri due”, intendendo che vedeva il milione di Siani e rilanciava di altri due. Valerio trattenne per un attimo il respiro. Ma che cosa aveva in mano, quel bestione? Ebbe la pazza idea di lasciar perdere tutto e ritirarsi dal gioco, in fondo qualcosa vinceva e forse Contorni si sarebbe accontentato di un anticipo, anziché fargli impartire una lezione memorabile. Ma come poteva ritirarsi con un poker di re in mano, per giunta con un asso come quinta carta?
Via, questo non è il momento di tremare, si disse, anzi è il momento di osare. Guardò fisso negli occhi Solimeni e decise di fare un gioco davvero pesante. “Vide” i tre milioni complessivi appena proposti dai suoi avversari e rilanciò ancora di altri due milioni. Una grande sicurezza era scesa nel suo cuore, si sentiva libero ed euforico, spinto da una sensazione che gli sussurrava: vincerai! Il ragioniere guardò le sue carte, esitò, forse intuì che Valerio aveva un gioco superiore al suo e passò. Restava solo Solimeni, l’ultimo ostacolo sulla via della vittoria e della salvezza, rifletté un Rosati trepidante. Facendo rapidamente i conti, infatti, sul tavolo ci sarebbe stata una somma enorme, più che sufficiente per pagare i suoi debiti e mettersi anche qualcosa in tasca. E Solimeni non lo deluse. Beffardo e sicuro di sé, scandì chiaramente: piatto! e spinse al centro del tavolo tutte le fiches che aveva davanti. Il momento della verità, insieme sperato e temuto da Valerio, era arrivato, ma egli, sia detto a suo onore, non esitò neanche per un momento. Spinse a sua volta il bel mucchio di gettoni a sua disposizione accanto a quello dell’altro ed attese. Solimeni volle godersi il momento del presunto trionfo. Allineò le carte sul tavolo una per volta, con lentezza irridente: primo fante, secondo fante, terzo fante, una donna, quarto fante. Aveva poker di fanti, un punto straordinario! Valerio gli concesse di sfoggiare un sorrisino sfottente, poi a sua volta sciorinò le sue carte sul tavolo. Quando depose il quarto re accanto agli altri tre e all’asso, il viso di Solimeni si trasformò in una maschera di incredulità e di rabbia impotente. Strinse le sue carte in una manona enorme e le spiegazzò con gelida furia, più minacciosa di uno scatto aperto di ira. Il ragioniere era rimasto sbalordito. Due poker serviti nella stessa mano! Quando mai si era vista una combinazione simile? E meno male che lui aveva avuto il buon senso di andarsene col suo full di donne, altrimenti l’avrebbero stritolato. De Luca, calmo, si era appoggiato allo schienale della sedia e si guardava intorno con aria indifferente. Giuliano Guerriero, temendo qualche atto inconsulto da parte di un Solimeni che non accennava a calmarsi, si era alzato, avvicinandosi al tavolo e proponendo con voce tranquilla:
“Ragazzi, vogliamo fare i conti? Vediamo, se ho seguito bene il gioco, direi che, De Luca perde duecentomila lire, il ragionier Siani perde due milioni e ottocentomila lire e Solimeni
è sotto di, vediamo, otto milioni e quattrocentocinquantamila lire. Rosati, quindi, vince undici milioni e quattrocentocinquantamila lire. Giusto?”, nessuno parlò e il padrone di casa proseguì, con un leggero tono di compiacenza. “Bene, non resta che regolarizzare i conti e poi potremo andare tutti a dormire, dopo una nottata così spossante e per certi aspetti molto interessante.”
Il ragioniere e il biondino sborsarono senza fiatare i soldi persi. Solo Solimeni, per la prima volta imbarazzato, brontolò che lui aveva soltanto cinque milioni in tasca e che avrebbe saldato in mattinata l’intero debito.
“Non c’è nessun problema” fece Guerriero sollecito. “Io anticipo a Rosati i rimanenti tre milioni e quattrocentocinquantamila lire e tu mi firmi un impegno a restituirmeli entro ventiquattro ore. Sto tranquillo perché so che non ti permetteresti mai di non onorare un debito di gioco.”
Si trattava di un’impressione sbagliata oppure nelle parole di don Giuliano si poteva scorgere una velata minaccia? Solimeni accettò, del resto non gli restava altro da fare. Consegnò i contanti che aveva, firmò l’impegno con Guerriero e si avviò alla porta dopo poche parole di formale ringraziamento per la cena e l’ospitalità dirette al loro anfitrione che le accettò con un grazioso cenno della testa. Prima di uscire, quell’uomo violento cercò con lo sguardo Rosati e nei suoi occhi danzava una fiammella di malvagità così pura da restarne sconvolti. Poco dopo si congedarono anche De Luca e Siani. Valerio era rimasto fermo al centro del salone, le mani in tasca e nella testa pensieri che sfrecciavano e si accavallavano come folate di vento. L’ultima occhiata di Solimeni gli aveva confermato che si era fatto un nemico mortale e la cosa francamente lo spaventava non poco. D’altra parte lo rincuorava il pensiero che possedeva la somma da dare a Contorni, l’abietto usuraio, e che era scongiurata definitivamente l’eventualità di finire all’ospedale, se non peggio. E tutto questo grazie ad un incredibile colpo di fortuna, di quelli che a poker sono l’eccezione, non certo la regola. Guerriero era rientrato, dopo aver accompagnato Siani ed aver confabulato brevemente con De Luca, il biondino, e adesso si era rilassato su una poltrona, con l’inseparabile sigaro in una mano.
“Vieni, Valerio, siediti qui sul divano e parliamo un po’.” L’invito era gentile, accompagnato da un bel sorriso. Rosati non se lo fece ripetere e prese sollecitamente posto a poca distanza dal suo salvatore che lo guardava con aperta simpatia. Nella sua mente turbinavano ancora brandelli di pensieri fluttuanti, ma era arrivato il momento di chiarire qualche particolare di quella fantastica serata e così egli si rivolse al padrone di casa con un tono rispettoso ed incuriosito allo stesso tempo:
“Don Giuliano, innanzitutto vi restituisco i vostri soldi con mille ringraziamenti. Il vostro gesto mi ha salvato probabilmente la vita e da oggi io vi sono debitore in tutto e per tutto. Ma toglietemi una curiosità: perché l’avete fatto? È vero che ci conosciamo da tempo, però non mi è sembrato che tra noi ci fosse tutta questa amicizia, perciò mi chiedo come mai abbiate preso a cuore il mio caso, invitandomi a casa vostra e prestandomi addirittura i soldi per giocare. E se avessi perso? La fortuna mi ha dato una mano determinante, ma pensate se quei due poker avessero invertito, diciamo così, il percorso e quello di Solimeni fosse capitato e viceversa. Non voglio neanche pensarci: a quest’ora io dovrei a voi cinque milioni e mi resterebbe sempre da saldare il debito con quel rettile di Contorni. Roba da buttarmi a mare dall’alto di Castel dell’Ovo!”
Guerriero aveva ascoltato senza interrompere quella lunga tirata che veniva chiaramente dal cuore di Rosati. Adesso toccava a lui spiegare. L’uomo si sistemò meglio nella poltrona, si versò due dita di cognac dalla bottiglia che si trovava sul tavolino accanto, guardò dritto negli occhi il suo giovane amico e partì:
“Valerio, sgomberiamo subito il campo da un equivoco: nella tua vincita di stasera la fortuna c’entra ben poco e i due poker non potevano sbagliare strada perché erano stati indirizzati nelle direzioni giuste.” Notando l’espressione profondamente perplessa che si era disegnata sul viso dell’altro, don Giuliano sorrise:
“Vedo che occorre spiegarti proprio tutto. E va bene, mettiti comodo che facciamo quattro chiacchiere. Valè, devi sapere che l’incontro di stamattina tra noi due non è stato casuale, sono stato io a fare in modo che avvenisse. E neppure la partita a poker di stasera è venuta così per caso: era stato tutto organizzato nei minimi particolari, dai partecipanti alla pena che mi sono data per riunire qui a casa mia delle persone che sinceramente non stimo affatto. E non parlo certo di te, ma di quell’essere sgradevole di Solimeni e di quel leccapiedi di Siani, il ragioniere. In quanto al biondino, sappi che con un mazzo di carte in mano può fare quello che vuole. Ma questo lo sappiamo davvero in pochissimi e ci teniamo che resti un segreto ben custodito. Stasera De Luca mi ha reso davvero un gran servizio. Non hai ancora capito?”, il tono di Guerriero adesso si era fatto impaziente.”De Luca ha fatto in modo che nell’ultima mano sia a te che a Solimeni capitassero due poker e che tu, grazie al gioco più forte, potessi sbranarlo, mettendolo sul lastrico. È chiaro, finalmente?”
La faccia di Valerio Rosati era tutto un programma. L’uomo passava dalla meraviglia allo stupore più accentuati, aggrottava le sopracciglia nello sforzo di capire e sembrava quasi cercare le parole adatte per esprimere i cento interrogativi che gli frullavano nella mente. Poi parlò, ma la gran massa di domande che gli affollava la testa si concretizzò in un semplice interrogativo:
“Perché?”
E fu allora che Giuliano Guerriero si aprì alle confidenze, diventando un fiume in piena. A mano a mano che parlava, Rosati riusciva a rendersi conto della grande pena che per tanto tempo aveva travagliato l’animo del suo amico:
“Tu mi chiedi perché ed hai il diritto di sapere. Saprai che Contorni è il mio ex-genero. Aveva sposato mia figlia, ma ben presto si era rivelato l’uomo senza onore che è: prepotente, violento, un brutto arnese del quale avevo diffidato fin dall’inizio della nostra conoscenza, ma che mia figlia aveva disperatamente voluto come marito. Mi piegai alla sua volontà, che dovevo fare? E questa è stata la fortuna di Contorni. Per come aveva trattato Clara avrei dovuto farlo sparire dalla faccia della terra, ma mi ha sempre trattenuto il pensiero che non era l’unico responsabile della situazione: una parte di colpa ce l’aveva anche mia figlia che si era intestardita nella sua idea di sposarselo, nonostante i miei consigli ed anche la scoperta, prima del matrimonio, di certi vizi di quell’animale. Tu sai già che è uno strozzino, un lurido avvoltoio che si precipita sulle disgrazie degli altri per riempirsi la pancia”.
Valerio sussultò, accorgendosi che a Guerriero nulla era ignoto dei fatti suoi. Questi si accese un altro sigaro con l’aria di non accorgersene neppure e proseguì:
”Ma forse non sai che gli sono sempre piaciute le donne e che alcune di loro, non potendo pagare altrimenti il loro debito, hanno dovuto piegarsi ai suoi sporchi desideri. Clara era anche venuta a sapere di una poveraccia che aveva tentato il suicidio per la vergogna, ma neppure questo era valso ad aprirle gli occhi: era innamorata di Luigi Contorni e non c’è stato verso di farla ragionare. Dopo soli tre anni è tornata a casa disgustata dal maritino e adesso vive con noi, speriamo guarita per sempre dalla sua infatuazione. Contorni mi sta alla larga più che può, devo essere sincero, ed io lo lascio vivere.”
L’anziano signore era visibilmente provato dal racconto. Giuliano lo guardava e si accorse che la mano che portava alla bocca il sigaro gli tremava. Nondimeno, la voce era forte e sicura quando ricominciò a parlare:
“Valerio, io sono un uomo che a Napoli conta qualcosa, inutile nascondercelo, e spesso vengo a conoscenza molte cose. Per esempio, ho saputo che tu avevi un piccolo problema con Contorni e ho deciso di aiutarti. Stamattina ho aspettato che uscissi di casa, ti ho fermato e ho organizzato quest’incontro. Ho invitato di proposito Solimeni e il ragioniere, due uomini di quell’usuraio per far capire che ero al corrente del tiro che ti stavano preparando e che stessero attento a come si muovevano. A quest’ora Contorni saprà già della partita, ma dovrà ingoiare il rospo.” al pensiero, per la prima volta nell’ultima ora, le labbra di Guerriero si curvarono in un allegro sorrisino. “Capirà che dietro tutto questo ci sono io e starà buono e zitto, gli conviene. Solimeni, in particolare, non gli dirà che è stato lui a perdere la maggior parte dei soldi e che, quindi, tu pagherai il tuo debito praticamente con il denaro che esce dalle tasche di Contorni per pagare il suo tirapiedi. Di conseguenza, il mio caro ex-parente crederà che sia stato io ad averti fornito i liquidi per tirati fuori di guai. Tu domani mattina, anzi fra qualche ora, vai direttamente da Contorni, tieniti alla larga da Solimeni, mi raccomando, e gli dai i sette milioni che quell’insetto pretende. Poi gli fai una proposta: comprare la tua tipografia per novanta milioni. Aspetta, non dirmi subito di no”.
Il tono di Guerriero era ancora paziente, l’uomo cercava ancora di convincere con le buone il suo impetuoso interlocutore che ogni tanto scalpitava e scartava come un cavallo ombroso:
“Ascoltami bene, Contorni ha messo gli occhi sulla tua tipografia e prima o poi la prenderà. Io lo conosco, se si mette in testa qualcosa niente riesce a fargli cambiare idea. Tu vai da lui e dici che vuoi vendere per novanta milioni. Lui ti farà una controfferta scendendo a cinquanta. Tu ribatterai settanta, lui offrirà sessanta ed allora cederai. Bada che ti conviene, perché è vero che quel negozio è ben posizionato e vale davvero una ottantina di milioni, ma se fai i tuoi conti ti accorgi che sessanta li incassi comodamente, undici li hai vinti a poker e fanno settantuno, perciò ballerebbero ancora otto o nove milioni che sono poca cosa, se paragonati alla tranquillità che finalmente ti guadagni e alla possibilità di toglierti dai piedi Contorni una volta per tutte. Sei convinto? Ah, ricordati: quando parlerai con quell’individuo, se dovesse fare storie, non avere scrupoli a fargli capire che io so tutto della faccenda e vedrai che scenderà subito a più miti consigli.”
Il padrone di casa si addossò più comodamente allo schienale della poltroncina e guardò il suo amico che, visibilmente disorientato, stava cercando di mettere ordine nell’arruffato cespuglio dei suoi pensieri.
“Don Giuliano, perdonatemi, ma c’è sempre una cosa che non capisco: come mai vi siete preso tanta pena per me? Mi conoscete da tanti anni, è vero, ma questo non mi sembra che giustifichi tutto il fastidio che avete voluto accollarvi. Mi avete prestato dei soldi per giocare, avete disposto le cose in modo che vincessi una grossa somma, mi avete praticamente tirato fuori dalle unghie di Contorni, mi avete dato mille utili consigli…Ripeto: perché? Solo per dare una lezione ad una persona che voi disprezzate profondamente? Mi sembra sinceramente poco e perciò vi prego ancora di dirmi la vera ragione del vostro comportamento, se volete.”
La voce supplichevole, l’atteggiamento rispettoso e fermo insieme di Rosati non lasciarono indifferente Guerriero che, sospirando, finì il bicchiere di liquore m e riprese a parlare:
“Quella che sto per raccontarti è una storia vecchia di quarant’anni giusti giusti. Eravamo nel 1943, in quel famoso mese di settembre che qui a Napoli nessuno ha dimenticato, almeno quelli più anziani che, come me, parteciparono direttamente alla lotta. Sto parlando delle “quattro giornate”, quelle che permisero a noi, malandati e male in arnese, di batterci contro l’esercito tedesco e di cacciarlo dalla città, armati solo di poche armi e tanto coraggio. Dietro un riparo innalzato alla meglio, in via Rettifilo, una mattina ci trovammo io e altri tre uomini. Uno di loro aveva trovato abbandonata in una strada poco lontana una mitragliatrice e la stava usando contro i tedeschi con vera maestria, impedendo che venissero avanti. Quell’uomo era tuo padre, Vincenzo Rosati. Ma io seppi il suo nome solo più tardi. All’improvviso una pallottola mi attraversò il torace, entrando dalla parte sinistra e lasciandomi a terra quasi privo di sensi. Allora tuo padre affidò l’arma ad uno degli altri due suoi compagni, mi caricò sulle spalle e, sfidando mille volte il pericolo di restare colpito a sua volta, mi portò fino alla Sanità, dove avevano attrezzato un piccolo posto di medicazione. Quella sua azione mi salvò la vita. Dopo la liberazione, finalmente guarito, lo cercai, lo trovai e feci in modo che la nostra amicizia non conoscesse mai flessioni. Tu non hai mai saputo niente di questa storia perché tuo padre, persona schiva e modesta, non volle per nessuna ragione che te la raccontassi: era un uomo che non amava parlare del bene che faceva. Resta il fatto che io, in quel lontano 1943, giurai a me stesso che mi sarei sempre occupato di te con discrezione, non perdendoti mai di vista e cercando di aiutarti ogni qualvolta ne avessi avuto bisogno, nei limiti delle mie possibilità. Ecco perché so della tua disavventura con Contorni e perché ho ritenuto giusto intervenire. Ti basta questa spiegazione come risposta alle tue tante domande?”
Valerio sorrise, finalmente appagato. Con un moto di fierezza e di commozione, rivide la figura asciutta, alta, un po’ curva di suo padre, ritrovò la sua espressione abitualmente severa, non priva, comunque, di passeggeri scintillii di allegria che ne addolcivano lo sguardo e pensò una volta di più che gli mancava davvero tanto, da quando meno di due anni prima un infarto se l’era portato via. Si alzò dalla poltrona, ringraziò ancora a lungo Guerriero, gli tese la mano che l’altro strinse con marcata simpatia e si ritrovò fuori, all’aperto. Ingoiò con evidente piacere lunghe sorsate di aria fresca e frizzante, mentre il sole bagnava la collina del Vomero e scendeva rapidamente ad illuminare il mare. Cominciava un’altra calda, lunga, piacevole giornata.
Rocco Tedino