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18 marzo 2012 7 18 /03 /marzo /2012 09:33

Valerio Rosati si guardò nello specchio del bagno ed una smorfia stizzita gli contrasse il volto, che si era incupito di botto:

”Guarda lì”, si commiserò amaramente. “Ho trentasette anni e ne dimostro venti di più. Che schifo!”

Quest’ultima esclamazione gli era sfuggita alla vista  degli occhi infossati e  circondati da una sottile ragnatela di rughe. Valerio avvicinò ancora di più il viso allo specchio, schiacciò un brufoletto che occhieggiava sulla punta del mento, poi si riempì la mano  di crema da barba e cominciò ad insaponarsi la faccia, senza mai smettere di borbottare in maniera per lo più incomprensibile. Finito di sbarbarsi, si risciacquò il volto e passò in cucina, dove il soliloquio continuò  davanti ad una tazzina di caffé e ad una fetta di torta del giorno prima:

“E comunque sono ridicolo a preoccuparmi del mio aspetto fisico, quando domani mattina potrei non averne più uno. Proprio così, caro amico, domattina potrei essere morto”, sentenziò rivolgendosi verso un piccolo gatto di maiolica abbandonato in un angolo della credenza. “Mi troveranno chissà quando nel canale che passa accanto alla ferrovia, magari con mani e piedi legati e la polizia penserà subito ad un regolamento di conti tra elementi della malavita. Chi mi conosce si meraviglierà delle brutta fine che ho fatto, le ipotesi in proposito si incroceranno serrate e nessuno saprà che in effetti sono morto perché non avevo restituito nei termini concordati un prestito al caro e generoso don Luigi Contorni, un benefattore dell’umanità che mi ha parlato molto chiaramente l’ultima volta che ci siamo incontrati. Pe essere precisi, il suo messaggio mi è stato portato da un energumeno atticciato con due orecchie a cavolfiore, lo sguardo fisso da serial killer e due mani grandi e nodose come badili. «Guagliò», mi ha detto con la tipica voce bassa e rauca che tutti i delinquenti sembrano aver copiato dal Padrino cinematografico. “Guagliò, don Luigi mi ha mandato ad avvisarti: se non consegni i sette milioni da qui a una settimana, puoi anche smettere di preoccuparti per il mangiare, il respirare e tutto il resto. Ricordati, una settimana a partire da oggi.». E se ne era andato trascinandosi dietro una gamba che si diceva fosse rimasta schiacciata sotto la saracinesca di un  negozio, saltata prematuramente in aria durante un maldestro tentativo di intimidazione a scopo mafioso. Non mi aveva dato neanche il tempo di chiedere come mai i tre milioni del prestito iniziale fossero diventati sette nel giro di tre mesi. Mah, misteri della matematica e del complicato calcolo di interessi…Adesso, eccomi qui a fare colazione forse per l’ultima volta nella mia casa: domani scade l’ultimatum ed io in tasca ho esattamente duecentoquarantamila lire. Vuoi sapere che programmi ho per le prossime ore? Fra poco esco, mi faccio una bella passeggiata fino al molo per Capri e me ne vado a trascorrere sulla spiaggia di Marina Piccola quella che potrebbe essere la mia ultima giornata su questa terra. Stasera, al ritorno da Capri, prima di rientrare in casa farò un salto nella caserma dei carabinieri poco distante e racconterò in quale situazione mi ha cacciato quello sporco strozzino. Se proprio ci devo rimettere la pelle, per lo meno darò un po’ di filo da torcere al signor Contorni! Poi domani mattina presto darò fuoco alla tipografia, così nelle mani del nostro caro amico resterà alla lettera un pugno di cenere e infine mi stravaccherò comodamente in quella poltrona e aspetterò di vedere che cosa succede. Che te ne pare? Non hai niente da dirmi? E già, a sentire il nome di don Luigi Contorni anche voi pupazzi tenete prudentemente il becco chiuso!”.

Rosati finì di bere il caffè, si alzò da tavola, depose nell’acquaio la tazzina sporca e tornò in bagno per completare le pulizie mattutine. Più tardi, dopo aver indossato un comodo vestito,  si preparò per uscire. Passando davanti ad uno specchio a figura intera appeso nell’anticamera, non resistette alla tentazione di lanciarsi un’altra occhiata: la superficie gli rimandò l’immagine di un uomo  attraente, alto, con gli occhi azzurri e i capelli chiari tagliati cortissimi.  

“Però, non sono ancora da buttar via”, commentò il giovane, dimenticando che non più tardi di un’ora prima si era giudicato pronto per la rottamazione. Scuotendo la testa, Rosati aprì l’uscio di casa, discese le due rampe di scale che lo separavano dall’androne del palazzo, lo attraversò, aprì il portone e si ritrovò sulla strada che era, come al solito, piena di gente che si spostava  in ogni direzione, chi seguendo un itinerario determinato, chi beandosi nel passeggiare sotto il  sole caldo e luminoso di metà giugno. Due ragazze con un gelato in mano gli lanciarono, incrociandolo, un’occhiata di aperta approvazione, alla quale egli rispose con un sorriso. Una bancarella straripante di musicassette diffondeva nell’aria musica ad altissimo volume; un pizzaiolo itinerante impastava destramente, e poi poneva a cuocere in un piccolo forno a carbonella, larghi dischi di pizza sottilissima dai quali si sprigionavano aromi irresistibili. Un cestino dondolante scese dal secondo piano del palazzo e si fermò davanti al garzone del fruttivendolo che lo attendeva fermo sul marciapiede: un sacchetto di verdura venne deposto all’interno ed il recipiente rifece il percorso inverso, tirato su da una signora che urlò “Dì a don Renzo che poi passo io a pagare” prima di ritirare la testa dalla finestra e di sparire all’interno della sua abitazione. Il traffico era notevole e, tanto per cambiare, allegramente caotico, snodandosi in una cacofonia di suoni che riempiva la vita della strada. Rosati si era fermato al semaforo ed attendeva che passasse al verde, quando si sentì toccare sulla spalla, mentre una voce allegra lo strappava ai suoi pensieri:

“Valerio, che piacere vederti! Come stai?” Il giovane si voltò di scatto e di trovò di fronte ad un uomo maturo dall’aspetto giovanile, con la schiena dritta e le spalle ampie, una bella faccia schietta e un sorriso amichevole che metteva in mostra i grossi denti candidi e regolari. Rosati si sentì sprofondare nel panico: ricordava il viso dell’uomo, ma quale era il suo nome? Poi qualcosa scattò nella sua memoria ed anche l’ultimo tassello andò al suo posto. Il nuovo arrivato, che intanto attendeva una reazione qualsiasi da Valerio, bloccato lì come imbambolato, si chiamava Giuliano Guerriero ed era nientemeno che il suocero di Contorni! Ex-suocero, per la verità, in quanto sua figlia Clara, stanca dei continui soprusi di un marito manesco e prepotente,  un bel giorno l’aveva piantato in asso ed era tornata nella bella casa dei genitori, felici in cuor loro dell’epilogo di un’unione che essi non si erano mai convinti ad approvare del tutto.

“Don Giuliano, che piacere vedervi”, il tono sicuro di Valerio spazzò via  le sue esitazioni del primo momento. “Posso esservi utile in qualcosa?”

“Ti ringrazio, Valerio, ma non è il caso. Ti ho visto uscire dal palazzo e mi è venuta voglia di salutarti. Anzi, visto che la fortuna ci ha fatti incontrare, ne approfitto per invitarti a cena, stasera, a casa mia. No, non accetto scuse o rifiuti. Tu sai che ti ho sempre stimato e mi farebbe veramente piacere averti alla mia tavola, davanti ad un buon piatto di frutti di mare.

Dopo cena, poi, ho organizzato un pokerino al quale interverranno due o tre amici: posso considerarti dei nostri? Tu sai che a me piace molto di più guardare che partecipare e allora quale migliore occasione per divertirmi, come si dice, per interposta persona? No, ti prego, non puoi privarmi di questa soddisfazione”, disse Guerriero, stringendogli le mani in segno di affabile coercizione. “Resta inteso che tu non dovrai rischiare i tuoi soldi. Prima della partita ti darò una somma congrua e così tu potrai giocare per te e per me. D’accordo, allora? Ti aspetto alle nove, non mancare, mi raccomando. Adesso devo scappare, ho un sacco di cose da fare. A stasera, ciao.”

E quella specie di ciclone si perse tra la folla, lasciando Valerio senza parole:

“Roba da pazzi, non mi fatto nemmeno aprire bocca! E va bene, vuol dire che stasera mi concederò una buona cena ed uno stimolante pokerino. Tanto, è tutto gratis…”concluse il giovane con un sorrisino amaro. Un quarto d’ora dopo giunse al molo d’imbarco sugli aliscafi per Capri, giusto in tempo per prenderne uno e partire per l’isola di Tiberio. Vi trascorse tutta la giornata e quando rimise piede sulle strade di Napoli, il sole era una palla arancione, rossa e viola che incendiava la parte occidentale del golfo. Aveva appena il tempo di correre a casa a cambiarsi d’abito e  indossare l’unico davvero elegante che avesse, accuratamente risparmiato per le grandi occasioni, prima di raggiungere la villa di Guerriero che si trovava sulla collina di Posillipo.

Un’ora più tardi si stava districando nel traffico della città, attento a non commettere imprudenze. Una sera stellata, un po’ fredda, si avviava a subentrare alla bella giornata ormai trascorsa, quando imboccò la salita che portava a destinazione. Al centro del cielo splendeva una luna piena rotonda come una fragrante pagnotta di pane, che inondava la città di un chiarore così bianco da sembrare azzurrino. Percorse qualche chilometro ed arrivò di fronte ad un cancello di ferro battuto, oltre il quale si profilò un viale alberato che sboccò in un piazzale ricoperto di finissima ghiaia bianca ed occupato, al momento, di una mezza dozzina di macchine grandi e lucenti. A destra dello spiazzo, in cima ad una corta e larga scalinata, si ergeva la villa, un edificio a pianta rettangolare , raccolto (come Rosati ebbe modo di appurare in seguito) intorno ad un cortile interno molto ordinato: al centro troneggiava un gazebo bianco con tavolino e poltroncine, mentre lungo il  suo perimetro erano disseminati  imponenti  vasi di terracotta traboccanti di fiori, un piccolo e variopinto giardino al quale si poteva accedere attraverso le due serie di porte finestre che si aprivano ai lati dell’enorme salone a pianterreno. Il visitatore scese dalla macchina e fu accolto da uno scoppio di abbaiamenti. Un cagnolino bianco scivolò fuori dalla porta della casa e si lanciò sul viale, ansante di piacere e rimbalzante come una palla, ansioso di fare amicizia. Valerio si chinò a strisciargli una veloce carezza sul capo ed entrò in  un ampio ingresso. Il locale alla sua destra mostrava, attraverso la porta aperta, una biblioteca con alti pannelli di quercia scura alle pareti, scaffalature  e  pavimento in legno di noce. Il lungo corridoio che portava al salone principale,  invece, era luminoso, con pavimenti in parquet e pareti bianche adornate di stampe di città medievali e di cavalli purosangue ripresi nelle pose più diverse, testimonianze della passione coltivata da sempre da Giuliano Guerriero. Valerio entrò nella grande sala, elegantemente arredata, e vi trovò tre persone oltre al padrone di casa che gli si avvicinò premurosamente, lo prese sottobraccio e lo portò a conoscere gli altri. Ma non poteva sapere che la vista di uno dei tre l’aveva quasi fatto svenire: era il tizio dal fisico di pugile in pensione che aveva fatto da portavoce di Luigi Contorni, quella famosa mattina delle minacce di morte. Si vide tuttavia costretto a dissimulare i suoi sentimenti e a sorridere quando il loro anfitrione gli presentò quelli che sarebbero stati i suoi compagni prima a cena e poi, presumibilmente al tavolo del poker. Seppe così che quella mammoletta del picchiatore si chiamava Andrea Solimeni, che gli strinse la mano fin quasi a stritolargliela, con un sorriso cattivo stampato sul brutto muso. Il secondo invitato era anziano,  grassoccio, di media statura, con una lieve calvizie, l’aspetto notevolmente curato nei particolari. Il suo nome era Nunzio Siani, ma tutti lo chiamavano “il ragioniere”. Parlava con voce bassa e untuosa, usando parole al miele, ricoperte di glassa, con una giovialità da parroco di campagna. A Valerio restò subito antipatico, mentre lo incuriosì un giovanotto alto e magro, i lunghi capelli biondi legati sulla nuca, all’angolo della bocca un sorrisino che gli conferiva un’aria indolente. Guerriero lo presentò come Mimmo De Luca, senza aggiungere altro. Esauriti i convenevoli di rito, il padrone di casa invitò i suoi ospiti a prendere posto al tavolo situato in un angolo del salone, che reggeva un’elegante buffet, ricolmo di ricercati bocconcini che spaziavano dal salmone al caviale, con accompagnamento di vini costosi, e la cena ebbe inizio, allietata dai vari e succulenti  piatti portati in tavola da due camerieri discreti ed efficienti. Anche la conversazione fluì abbastanza sciolta, nonostante la palpabile tensione in atto tra Valerio e Solimeni, il quale ogni tanto gli lanciava occhiate minacciose, alle quali l’altro cercava di non dare importanza. Da un punto imprecisato della stanza si diffondevano, a basso volume, le note della colonna sonora di “West side story”.

La cena terminò affogata in un pregevole cognac vecchia riserva e i cinque si sgranchirono le gambe con una breve passeggiatina all’aperto. La notte era calma e il cielo un  vasto velluto stellato. Mentre passeggiavano, Solimeni trovò il modo di avvicinare Rosati e di sussurrargli con calma pesante e minacciosa, la voce roca e l’alito che puzzava di vino, conseguenza delle frequenti libagioni alle quali si era abbandonato durante la cena:

“Non avrai intenzione di giocare anche tu, stasera, ammesso che abbia i soldi per farlo. Ricordati dell’appuntamento che hai domani mattina e cerca di non mancare, tanto non troveresti nessun posto dove nasconderti. Io ti ho avvisato, morto in piedi…” E con quest’ultima elegante stoccata, lo sgradevole individuo si allontano ridacchiando. Valerio lo seguì per un pò con lo sguardo, nel quale si leggeva un forte impulso di uccidere, poi scrollò la testa e rientrò in casa. Qui Guerriero lo attirò in un angolo deserto della biblioteca e gli mise tra le mani una mazzetta di banconote, senza proferire parole e poggiando un dito sul naso per imporri il silenzio. Quindi lo risospinse verso il salone, dove un cameriere aveva già preparato il tavolo da gioco. I convitati presero posto alla spicciolata. Valerio aveva alla sua sinistra il ragioniere, di fronte Solimeni e alla sua destra  De Luca, il biondino. Guerriero, invece, si era seduto su una poltroncina,  a metà dietro Siani, il ragioniere, e Solimeni e da lì si dispose a godersi la sera, un bicchiere di porto in una mano ed un panciuto sigaro nell’altra.

Mentre i giocatori disponevano davanti a loro le fiches in mucchietti ordinati, si fece sentire la voce antipatica di Solimeni:

“Don Giuliano”, disse l’omaccio, rivolto al padrone di casa. “Voi sapete quanto vi stimo e non mi permetterei mai in casa vostra di dubitare di qualcuno dei vostri ospiti. Però, ho il dovere, come giocatore, di accertarmi che il gioco si svolga secondo tutte le regole da parte di noi quattro. Vi prego, perciò, di autorizzarci a mettere sul tavolo i nostri soldi, in modo da controllare che tutti sono in grado di affrontare una partita accanita come quella che ci prepariamo a giocare, visto che abbiamo deciso di non porre limiti alla posta.”

Così dicendo, scoccò un’occhiata malevola e trionfante a Rosati, un’occhiata che diceva chiaramente: e adesso, pezzente, voglio vedere come te la cavi! Guerriero, con un cenno del capo, aveva intanto autorizzato la richiesta di Solimeni e così sul tavolo comparvero due robusti mazzi di banconote da centomila lire, mostrati dal ragioniere e dal biondino, mentre Valerio indugiò un attimo, poi tirò fuori lentamente dalla tasca della giacca un rotolo rispettabilissimo di biglietti di banca e lo appoggiò sul tavolo: erano almeno quattro o cinque milioni quelli che giacevano sotto gli occhi sbalorditi di Solimeni che passava alternativamente lo sguardo dalle banconote alla faccia beata di Rosati, il quale ne approfittò per prendersi la rivincita:

“E tu, Solimeni, non ci fai vedere il colore dei tuoi soldi?”

Mordendosi le labbra per il dispetto, l’energumeno ebbe la tentazione di mandare al diavolo il rivale, ma  ricordò appena in tempo che era stato lui a sollevare la questione e adesso non poteva certo tirarsi indietro. Esibì a sua volta un bel malloppo ed il gioco poté cominciare. Dopo un paio d’ore, la situazione vedeva in vantaggio Valeri che vinceva circa due milioni, mentre il biondino si teneva prudentemente a galla. Solimeni era quello che perdeva di più. Trascorsa un’altra ora, Rosati aveva incrementato le sue vincite, il ragioniere si era tirato discretamente su e il biondino perdeva qualcosa, niente da paragonare alle perdite di Solimeni che sbagliava a cacciarsi in tutte le combinazioni, nel tentativo di rifarsi. Ad un certo punto della notte, fu il biondino a proporre di giocare ancora un’ora e poi smettere. Solimeni avrebbe voluto proseguire ad oltranza, ma di fronte alle insistenze degli altri dovette arrendersi. Si arrivò così all’ultimo giro, quello in cui, per tradizione, si sparavano tutte le cartucce a disposizione. Distribuiva le carte De Luca, il biondino. La tensione era palpabile, mentre le carte si allineavano davanti ai giocatori. Valerio raccolse le cinque servitegli e vide che aveva una coppia di re. Decise di passare per vedere cosa facevano gli altri. Alla sua sinistra il ragioniere sfogliò lentamente il piccolo ventaglio ed aprì di cinquecentomila lire. Impetuoso come sempre, Solimeni rilanciò di un milione. De Luca guardò le sue carte e passò. Valerio era dubbioso: il piatto si presentava allettante, ma poteva rischiare, già da subito, un milione e mezzo per andare a giocare con una coppia di re? In quell’istante agganciò per caso lo sguardo del biondino e, meraviglia delle meraviglie!, notò che questi gli faceva con la testa un rapido ed impercettibile cenno: lo invitava a giocare senza timore. Timoroso che anche gli altri due avessero afferrato il gesto, Rosati rivolse di sottecchi un’occhiata in giro, ma si tranquillizzò subito, tutto sembrava in ordine. Era il momento delle grandi decisioni e così, sentendo su di sé lo sguardo duro di Solimeni, puntò la cifra richiesta. Chiese tre carte, il ragioniere giocò  anche lui e ne prese una e Solimeni due. Con lentezza esasperante, Valerio spizzicò le carte arrivate. Quando giunse a scoprire la quinta, una specie di rombo iniziò a ronzargli nelle orecchie nelle orecchie e si sentì leggero leggero, come se stesse fluttuando in un sogno: aveva in mano un poker di re, con un asso come quinta carta. Rosati non aveva il coraggio di guardare i rivali, sicuro che non avrebbero impiegato molto a leggergli in faccia il punteggio raggiunto. Si fece, comunque, forza e con voce in cui si sforzò di infondere un pizzico di delusione, propose “parola”, attendendo che uno degli altri due proponesse un rilancio qualsiasi. Il primo fu il ragioniere, che aprì con un milione. Solimeni a momenti non lo lasciò neanche finire di parlare e gracchiò con la sua voce roca “un milione più altri due”, intendendo che vedeva il milione di Siani e rilanciava di altri due. Valerio trattenne per un attimo il respiro. Ma che cosa aveva in mano, quel bestione? Ebbe la pazza idea di lasciar perdere tutto e ritirarsi dal gioco, in fondo qualcosa vinceva e forse Contorni si sarebbe accontentato di un anticipo, anziché fargli impartire una lezione memorabile. Ma come poteva ritirarsi con un poker di re in mano, per giunta con un asso come quinta carta?

Via, questo non è il momento di tremare, si disse, anzi è il momento di osare. Guardò fisso negli occhi Solimeni e decise di fare un gioco davvero pesante. “Vide” i tre milioni complessivi appena proposti dai suoi avversari e rilanciò ancora di altri due milioni. Una grande sicurezza era scesa nel suo cuore, si sentiva libero ed euforico, spinto da una sensazione che gli sussurrava: vincerai! Il ragioniere guardò le sue carte, esitò, forse intuì che Valerio aveva un gioco superiore al suo e passò. Restava solo Solimeni, l’ultimo ostacolo sulla via della vittoria e della salvezza, rifletté un Rosati trepidante. Facendo rapidamente i conti, infatti, sul tavolo ci sarebbe stata una somma enorme, più che sufficiente per pagare i suoi debiti e mettersi anche qualcosa in tasca. E Solimeni non lo deluse. Beffardo e sicuro di sé, scandì chiaramente: piatto! e spinse al centro del tavolo tutte le fiches che aveva davanti. Il momento della verità, insieme sperato e temuto da Valerio, era arrivato, ma egli, sia detto a suo onore, non esitò neanche per un momento. Spinse a sua volta  il bel mucchio di gettoni a sua disposizione accanto a quello dell’altro ed attese. Solimeni volle godersi il momento del presunto trionfo. Allineò le carte sul tavolo una per volta, con lentezza irridente: primo fante, secondo fante, terzo fante, una donna, quarto fante. Aveva poker di fanti, un punto straordinario! Valerio gli concesse di sfoggiare un sorrisino sfottente, poi a sua volta sciorinò le sue carte sul tavolo. Quando depose il quarto re accanto agli altri tre e all’asso, il viso di Solimeni si trasformò in una maschera di incredulità e di rabbia impotente. Strinse le sue carte in una manona enorme e le spiegazzò con  gelida furia, più minacciosa di uno scatto aperto di ira. Il ragioniere era rimasto sbalordito. Due poker serviti nella stessa mano! Quando mai si era vista una combinazione simile? E meno male che lui aveva avuto il buon senso di andarsene col suo full di donne, altrimenti l’avrebbero stritolato. De Luca, calmo, si era appoggiato allo schienale della sedia e si guardava intorno con aria indifferente. Giuliano Guerriero, temendo qualche atto inconsulto da parte di un Solimeni che non accennava a calmarsi, si era alzato, avvicinandosi al tavolo e proponendo con voce tranquilla:

“Ragazzi, vogliamo fare i conti? Vediamo, se ho seguito bene il gioco, direi che,  De Luca perde duecentomila lire, il ragionier Siani perde due milioni e ottocentomila lire e Solimeni

è sotto di, vediamo, otto milioni e quattrocentocinquantamila lire. Rosati, quindi, vince undici milioni e quattrocentocinquantamila lire. Giusto?”, nessuno parlò e il padrone di casa proseguì, con un leggero tono di compiacenza. “Bene, non resta che regolarizzare i conti e poi potremo andare tutti a dormire, dopo una nottata così spossante e per certi aspetti molto interessante.”

Il ragioniere e il biondino sborsarono senza fiatare i soldi persi. Solo Solimeni, per la prima volta imbarazzato, brontolò che lui aveva soltanto cinque milioni in tasca e che avrebbe saldato in mattinata l’intero debito.

“Non c’è nessun problema” fece Guerriero sollecito. “Io anticipo a Rosati i rimanenti tre milioni e quattrocentocinquantamila lire e tu mi firmi un impegno a restituirmeli entro ventiquattro ore. Sto tranquillo perché so che non ti permetteresti mai di non onorare un debito di gioco.”

Si trattava di un’impressione sbagliata oppure nelle parole di don Giuliano si poteva scorgere una velata minaccia? Solimeni accettò, del resto non gli restava altro da fare. Consegnò i contanti che aveva, firmò l’impegno con Guerriero e si avviò alla porta dopo poche parole di formale ringraziamento per la cena e l’ospitalità dirette al loro anfitrione che le accettò con un grazioso cenno della testa. Prima di uscire, quell’uomo violento cercò con lo sguardo Rosati e nei suoi occhi danzava una fiammella di malvagità così pura da restarne sconvolti. Poco dopo si congedarono anche De Luca e Siani. Valerio era rimasto fermo al centro del salone, le mani in tasca e nella testa pensieri che sfrecciavano e si accavallavano come folate di vento. L’ultima occhiata di Solimeni gli aveva confermato che si era fatto un nemico mortale e la cosa francamente lo spaventava non poco. D’altra parte lo rincuorava il pensiero che possedeva la somma da dare a Contorni, l’abietto usuraio, e che era scongiurata definitivamente l’eventualità di finire all’ospedale, se non peggio. E tutto questo grazie ad un incredibile colpo di fortuna, di quelli che a poker sono l’eccezione, non certo la regola. Guerriero era rientrato, dopo aver accompagnato Siani ed aver confabulato brevemente con De Luca, il biondino, e adesso  si era rilassato su una poltrona, con l’inseparabile sigaro in una mano.

“Vieni, Valerio, siediti qui sul divano e parliamo un po’.” L’invito era gentile, accompagnato da un bel sorriso. Rosati non se lo fece ripetere e prese sollecitamente posto a poca distanza dal suo salvatore che lo guardava con aperta simpatia. Nella sua mente turbinavano ancora brandelli di pensieri fluttuanti, ma era arrivato il momento di chiarire qualche particolare di quella fantastica serata e così egli si rivolse al padrone di casa con un tono rispettoso ed incuriosito allo stesso tempo:

“Don Giuliano, innanzitutto vi restituisco i vostri soldi con mille ringraziamenti. Il vostro gesto mi ha salvato probabilmente la vita e da oggi io vi sono debitore in tutto e per tutto. Ma toglietemi una curiosità: perché l’avete fatto? È vero che ci conosciamo da tempo, però non mi è sembrato che tra noi ci fosse tutta questa amicizia, perciò mi chiedo  come mai abbiate preso a cuore il mio caso, invitandomi a casa vostra e prestandomi addirittura i soldi per giocare. E se avessi perso? La fortuna mi ha dato una mano determinante, ma pensate se quei due poker avessero invertito, diciamo così, il percorso e quello di Solimeni fosse capitato e viceversa. Non voglio neanche pensarci: a quest’ora io dovrei a voi cinque milioni  e mi resterebbe sempre da saldare il debito con quel rettile di Contorni. Roba da buttarmi a mare dall’alto di Castel dell’Ovo!”

Guerriero aveva ascoltato senza interrompere quella lunga tirata che veniva chiaramente dal cuore di Rosati. Adesso toccava a lui spiegare. L’uomo si sistemò meglio nella poltrona, si versò due dita di cognac dalla bottiglia che si trovava sul tavolino accanto, guardò dritto negli occhi il suo giovane amico e partì:

“Valerio, sgomberiamo subito il campo da un equivoco: nella tua vincita di stasera la fortuna c’entra ben poco e i due poker non potevano sbagliare strada perché erano stati indirizzati nelle direzioni giuste.” Notando l’espressione profondamente perplessa che si era disegnata sul viso dell’altro, don Giuliano sorrise:

“Vedo che occorre spiegarti proprio tutto. E va bene, mettiti comodo che facciamo quattro chiacchiere. Valè, devi sapere che l’incontro di stamattina tra noi due non è stato casuale, sono stato io a fare in modo che avvenisse. E neppure la partita a poker di stasera è venuta così per caso: era stato tutto organizzato nei minimi particolari, dai partecipanti alla pena che mi sono data per riunire qui a casa mia delle persone che sinceramente non stimo affatto. E non parlo certo di te, ma di quell’essere sgradevole di Solimeni e di quel leccapiedi di Siani, il ragioniere. In quanto al biondino, sappi che con un mazzo di carte in mano può fare quello che vuole. Ma questo lo sappiamo davvero in pochissimi e ci teniamo che resti un segreto ben custodito. Stasera De Luca mi ha reso davvero un gran servizio. Non hai ancora capito?”, il tono di Guerriero adesso si era fatto impaziente.”De Luca ha fatto in modo che nell’ultima mano sia a te che a Solimeni capitassero due poker e che tu, grazie al gioco più forte, potessi sbranarlo, mettendolo sul lastrico. È chiaro, finalmente?”

La faccia di Valerio Rosati era tutto un programma. L’uomo passava dalla meraviglia allo stupore più accentuati, aggrottava le sopracciglia nello sforzo di capire e sembrava quasi cercare le parole adatte per esprimere i cento interrogativi che gli frullavano nella mente. Poi parlò, ma la gran massa di domande che gli affollava la testa si concretizzò  in un semplice interrogativo:

“Perché?”

E fu allora che Giuliano Guerriero si aprì alle confidenze, diventando un fiume in piena. A mano a mano che parlava, Rosati riusciva a rendersi conto della grande pena che per tanto tempo aveva travagliato l’animo del suo amico:

“Tu mi chiedi perché ed hai il diritto di sapere. Saprai che Contorni è il mio ex-genero. Aveva sposato mia figlia, ma ben presto si era rivelato l’uomo senza onore che è: prepotente, violento, un brutto arnese del quale avevo diffidato fin dall’inizio della nostra conoscenza, ma che mia figlia aveva disperatamente voluto come marito. Mi piegai alla sua volontà, che dovevo fare? E questa è stata la fortuna di Contorni. Per come aveva trattato Clara avrei dovuto farlo sparire dalla faccia della terra, ma mi ha sempre trattenuto il pensiero che non era l’unico responsabile della situazione: una parte di colpa ce l’aveva anche mia figlia che si era intestardita nella sua idea di sposarselo, nonostante i miei consigli ed anche la scoperta, prima del matrimonio, di certi vizi di quell’animale. Tu sai già che è uno strozzino, un lurido avvoltoio che si precipita sulle disgrazie degli altri per riempirsi la pancia”.

Valerio sussultò, accorgendosi che a Guerriero nulla era ignoto dei fatti suoi. Questi si accese un altro sigaro con l’aria di non accorgersene neppure e proseguì:

”Ma forse non sai che gli sono sempre piaciute le donne e che alcune di loro, non potendo pagare altrimenti il loro debito, hanno dovuto piegarsi ai suoi  sporchi desideri. Clara era anche venuta a sapere di una poveraccia che aveva tentato il suicidio per la vergogna, ma neppure questo era valso ad aprirle gli occhi: era innamorata di Luigi Contorni e non c’è stato verso di farla ragionare. Dopo soli tre anni è tornata a casa disgustata dal maritino e adesso vive con noi, speriamo guarita per sempre dalla sua infatuazione. Contorni mi sta alla larga più che può, devo essere sincero, ed io lo lascio vivere.”

L’anziano signore era visibilmente provato dal racconto. Giuliano lo guardava e si accorse che la mano che portava alla bocca il sigaro gli tremava. Nondimeno, la voce era forte e sicura quando ricominciò a parlare:

“Valerio, io sono un uomo che a Napoli conta qualcosa, inutile nascondercelo, e spesso vengo a conoscenza molte cose. Per esempio, ho saputo che tu avevi un piccolo problema con Contorni e ho deciso di aiutarti. Stamattina ho aspettato che uscissi di casa, ti ho fermato e ho organizzato quest’incontro. Ho invitato di proposito Solimeni e il ragioniere, due uomini di quell’usuraio per far capire che ero al corrente del tiro che ti stavano preparando e che stessero attento a come si muovevano. A quest’ora Contorni saprà già della partita, ma dovrà ingoiare il rospo.” al pensiero, per la prima volta nell’ultima ora, le labbra di Guerriero si curvarono in un allegro sorrisino.  “Capirà che dietro tutto questo ci sono io e starà buono e zitto, gli conviene. Solimeni, in particolare, non gli dirà che è stato lui a perdere la maggior parte dei soldi e che, quindi, tu pagherai il tuo debito praticamente con il denaro che esce dalle tasche di Contorni per pagare il suo tirapiedi. Di conseguenza, il mio caro ex-parente crederà che sia stato io ad averti fornito i liquidi per tirati fuori di guai. Tu domani mattina, anzi fra qualche ora, vai direttamente da Contorni, tieniti alla larga da Solimeni, mi raccomando, e gli dai i sette milioni che quell’insetto pretende. Poi gli fai una proposta: comprare la tua tipografia per novanta milioni. Aspetta, non dirmi subito di no”.

Il tono di Guerriero era ancora paziente, l’uomo cercava ancora di convincere con le buone il suo impetuoso interlocutore che ogni tanto scalpitava e scartava come un cavallo ombroso:

“Ascoltami bene, Contorni ha messo gli occhi sulla tua tipografia e prima o poi la prenderà.  Io lo conosco, se si mette in testa qualcosa niente riesce a fargli cambiare idea. Tu vai da lui e dici che vuoi vendere per novanta milioni. Lui ti farà una controfferta scendendo a cinquanta. Tu ribatterai settanta, lui offrirà sessanta ed allora cederai. Bada che ti conviene, perché è vero che quel negozio è ben posizionato e vale davvero una ottantina di milioni, ma se fai i tuoi conti ti accorgi che sessanta li incassi comodamente, undici li hai vinti a poker e fanno settantuno, perciò ballerebbero ancora otto o nove milioni che sono poca cosa, se paragonati alla tranquillità che finalmente ti guadagni e alla possibilità di toglierti dai piedi Contorni una volta per tutte. Sei convinto? Ah, ricordati: quando parlerai con quell’individuo, se dovesse fare storie, non avere scrupoli a fargli capire che io so tutto della faccenda e vedrai che scenderà subito a più miti consigli.”

Il padrone di casa si addossò più comodamente allo schienale della poltroncina e guardò il suo amico che, visibilmente disorientato, stava cercando di mettere ordine nell’arruffato cespuglio dei suoi pensieri.

“Don Giuliano, perdonatemi, ma c’è sempre una cosa che non capisco: come mai vi siete preso tanta pena per me? Mi conoscete da tanti anni, è vero, ma questo non mi sembra che giustifichi tutto il fastidio che avete voluto accollarvi. Mi avete prestato dei soldi per giocare, avete disposto le cose in modo che vincessi una grossa somma, mi avete praticamente tirato fuori dalle unghie di Contorni, mi avete dato mille utili consigli…Ripeto: perché? Solo per dare una lezione ad una persona che voi disprezzate profondamente? Mi sembra sinceramente poco e perciò vi prego ancora di dirmi la vera ragione del vostro comportamento, se volete.”

La voce supplichevole, l’atteggiamento rispettoso e fermo insieme di Rosati non lasciarono indifferente Guerriero che, sospirando, finì il bicchiere di liquore m e riprese a parlare:

“Quella che sto per raccontarti è una storia vecchia di quarant’anni giusti giusti. Eravamo nel 1943, in quel famoso mese di settembre che qui a Napoli nessuno ha dimenticato, almeno quelli più anziani che, come me, parteciparono direttamente alla lotta. Sto parlando delle “quattro giornate”, quelle che permisero a noi, malandati e male in arnese, di  batterci contro l’esercito tedesco e di cacciarlo dalla città, armati solo di poche armi e tanto coraggio. Dietro un riparo innalzato alla meglio, in via Rettifilo, una mattina ci trovammo io e altri tre uomini. Uno di loro aveva trovato abbandonata in una strada poco lontana una mitragliatrice e la stava usando contro i tedeschi con vera maestria, impedendo che venissero avanti. Quell’uomo era tuo padre, Vincenzo Rosati. Ma io seppi il suo nome solo più tardi. All’improvviso una pallottola mi attraversò il torace, entrando dalla parte sinistra e lasciandomi a terra quasi privo di sensi. Allora tuo padre affidò l’arma ad uno degli altri due suoi compagni, mi caricò sulle spalle e, sfidando mille volte il pericolo di restare colpito a sua volta, mi portò fino alla Sanità, dove avevano attrezzato un piccolo posto di medicazione. Quella sua azione mi salvò la vita. Dopo la liberazione, finalmente guarito, lo cercai, lo trovai e feci in modo che la nostra amicizia non conoscesse mai flessioni. Tu non hai mai saputo niente di questa storia perché tuo padre, persona schiva e modesta, non volle per nessuna ragione che te la raccontassi: era un uomo che non amava parlare del bene che faceva. Resta il fatto che io, in quel lontano 1943, giurai a me stesso che mi sarei sempre occupato di te con discrezione, non perdendoti mai di vista e cercando di aiutarti ogni qualvolta ne avessi avuto bisogno, nei limiti delle mie possibilità. Ecco perché so della tua disavventura con Contorni e perché ho ritenuto giusto intervenire. Ti basta questa spiegazione come risposta alle tue tante domande?”

Valerio sorrise, finalmente appagato. Con un moto di fierezza e di commozione, rivide la figura asciutta, alta, un po’ curva di suo padre, ritrovò la sua espressione abitualmente severa, non priva, comunque, di passeggeri scintillii di allegria che ne addolcivano lo sguardo e pensò una volta di più che gli mancava davvero tanto, da quando meno di due anni prima un infarto se l’era portato via. Si alzò dalla poltrona, ringraziò ancora a lungo Guerriero, gli  tese la mano che l’altro strinse con marcata simpatia e si ritrovò fuori, all’aperto. Ingoiò con evidente piacere lunghe sorsate di aria fresca e frizzante,  mentre il sole bagnava la collina del Vomero e scendeva rapidamente ad illuminare il mare. Cominciava un’altra calda, lunga, piacevole giornata.

 

 

Rocco Tedino

 

    

 

     

 

 

 

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13 marzo 2012 2 13 /03 /marzo /2012 16:15

Quasi al centro della strada principale di Timau, si trova la macelleria di Flavio, come ormai viene comunemente chiamata dai residenti, nonostante da qualche anno abbia assunto la denominazione più completa di “Salumi e Sapori di Timau snc”, una ditta condotta da Flavio & Massimo Mentil, in cui il padre, attraverso un impegno lavorativo che non conosce soste, difende gelosamente le tradizioni gastronomiche del tempo che fu e  il  figlio  ha impresso all’attività una decisa sterzata verso più moderne tecniche di preparazione, conservazione e vendita dei prodotti. L’eccellente risultato finale è sotto gli occhi (e i denti, sarebbe il caso di aggiungere…) di tutti: carni e salumi che soddisfano ogni gusto, grazie al rispetto delle tradizioni, all’abilità e all’esperienza di cui due titolari della ditta sono largamente in possesso, segno sicuro di garanzia di una qualità costante ed eccelsa. L’ingrandimento di una foto esposta in vetrina e risalente al 1959 - l’anno di nascita dell’esercizio risale a nove anni prima - ritrae un giovanissimo Flavio che dal banco della macelleria sorride ad alcuni amici radunatisi nel negozio.     

Entrare in quella fucina di prelibatezze significa rifugiarsi in un’oasi di cordialità che predispone immediatamente al buonumore e regala la preziosa opportunità di scambiare quattro chiacchiere in serenità con Flavio il quale  al momento opportuno sa anche  mettere da parte il tono allegro e scanzonato per lui usuale e gratificare l’interlocutore di pareri e consigli intrisi di quella semplice e profonda saggezza che scaturisce dall’aver messo a frutto le esperienze della vita. E pazienza se, tornati a casa, ci si accorge che, tra una parola e l’altra, nel sacchetto della spesa le richieste quattro bistecche sono diventate sei oppure che con le salsicce incartate si può invitare a pranzo mezzo borgo! Poco male, davvero:  i prodotti di Flavio e la sua compagnia valgono abbondantemente il disappunto di certi piccoli disguidi.

Oltre all’accoglienza calda ed amichevole, poi, i clienti sanno di poter trovare soprattutto  prodotti che solleticano irresistibilmente i cinque sensi al completo. Se l’ampia e luminosa vetrina pone il cliente di fronte al dilemma della scelta tra i tanti succulenti tranci di carne  esposti,  è la parete che si stende alle spalle di essa che incatena l’occhio e scatena tempeste nelle papille gustative dell’osservatore, il quale non può restare insensibile alle file di salumi dai  sapori delicati e pieni che si distinguono da ogni altro grazie a molteplici fattori. A questo punto appare utile accennare alle varie fasi del ciclo di produzione, se non altro per fornire un quadro chiaro delle procedure adottate dai due consolatori delle nostre crisi di ghiottoneria.

La prima operazione, ovviamente, riguarda l’approvvigionamento delle materie prime, con la scelta e la selezione delle carni, individuate in base al prodotto che si intende ottenere. Dopo la lavorazione delle carni, si passa alla fase di asciugatura delle stesse, giusto il tempo necessario per arrivare all’ottimizzazione dell’impasto, indi interviene l’affumicatura che varia in base al numero dei giorni necessari perché il prodotto sia pressoché perfetto. Terza ed ultima fase, la stagionatura: rifinisce i pezzi lavorati e li porta a “maturazione”, pronti per il consumo. Le tre fasi di asciugatura, stagionatura ed affumicatura vengono effettuate con dei macchinari acquistati nel 2009, quando, in previsione della ristrutturazione dell’immobile adibito ad area produttiva, si è provveduto, su “layout” finalizzato al tipo di lavorazioni, a dotare l’esercizio dei supporti tecnologici adatti.

 La passione per il suo lavoro ha portato già molti anni fa  Flavio a seguire, relativamente alla leggera salatura e alla lieve affumicatura dei prodotti, le regole tramandate dall’influenza carinziana, che impongono l’utilizzo di legna di faggio dei boschi locali ed un sapiente dosaggio della durata dell’operazione e della densità del fumo sprigionato (“profumati dal fumo e non cotti dal fumo”, ama ripetere il nostro artista gastronomico, parlando dei suoi insaccati), rappresentano un’esclusività artigianale che mantiene il gusto su sfumature dolci; la lavorazione di carni suine scelte provenienti da animali allevati in regime semibrado ed alimentati esclusivamente con prodotti naturali nonché la stagionatura garantita dall’aria fresca di montagna conferisce ai prodotti una caratteristica unica. L’aria dell’alta valle del Bût, particolarmente asciutta, favorisce non poco l’operazione di salatura, unitamente ai frequenti temporali che vengono seguiti da giornate di sole scintillante, con un’escursione di umidità notevole; tale rapido alternarsi di umido e secco esercita un ulteriore, benefico influsso sulla carne, promuovendo su ogni fibra o cellula un lento, penetrante massaggio e agevolando quindi una più omogenea salatura.  Si ottengono, così, prodotti dai sapori prelibati e genuini, soprattutto tenendo conto che nella loro conservazione non vengono impiegati additivi o conservanti chimici, dal momento che la macelleria dispone di impianti che garantiscono le condizioni climatiche ideali per consentire le adeguate fermentazioni delle carni.   

I salumi di Flavio sono il risultato di anni di esperienze avviate in anni lontani da suo papà Silvio e successivamente affinate alle luce  di accorgimenti ai quali non è estranea, ultimamente, la preparazione tecnica di Massimo, il proteiforme rampollo di Flavio, che è socio della ditta e si occupa prevalentemente della parte amministrativa. Facciamo qualche esempio, limitandoci ai prodotti più noti e graditi:

i bocconcini di olz birschtlr, la “salsiccia vecchia”, un salume derivante da carne di suino lavorata con aromi naturali, lasciata asciugare nell’adeguato essiccatoio con legna di faggio, e stagionata per circa 25 giorni: ha un sapore e una consistenza simile al salame, ma con un gusto un po’ più delicato;

lo speck affumicato, che si ottiene dalla coscia del suino e viene lavorato con sale, pepe e aromi naturali, lasciandolo riposare per alcuni giorni nei sapori finché essicca, in genere nel giro di una settimana. Una variante dello speck di questo tipo è costituita dai  trancetti di ruka speck, un salame dolce e morbido ricavato dalla schiena del maiale, insaporito con aromi naturali e lasciato stagionare dai quattro ai sei mesi, che si scioglie praticamente in bocca;

la mitica varhackara,  un delizioso pesto dal gusto particolare, che forse sarebbe più  affumicata - con l’aggiunta di qualche segreto scaturito dalla brillante fantasia gastronomica di Flavio e gelosamente custodito – finemente tritato, opportunamente mescolato e quindi conservato nella pietra come da tradizione.  Provate a gustare la varhackara spalmata su una fetta di pane integrale o sui crostini caldi, magari impiegatela nella preparazione di salse o di qualsiasi manicaretto al sugo, oppure usatela come condimento nei primi piatti a base di verdure fresche e minestroni, sugli gnocchi di patate …..una poesia!

il guanciale affumicato, lardo derivante dalla guancia del maiale e caratterizzato da una sottile venatura di carne all’interno che lo contraddistingue: dopo un’essiccatura di alcuni giorni, viene fatto stagionare adeguatamente per circa 60 giorni e si ottiene così un prodotto morbido da degustare su una buona fetta di pane fresco o su una fetta di polenta abbrustolita;

la pancetta affumicata  è un classico per quanto riguarda i salumi della ditta di Flavio e Massimo e si ottiene seguendo gli stessi criteri di lavorazione impiegati nella produzione, ad esempio, dello speck o del guanciale. Il prodotto finale è delicato, saporito e si presta a diversi impieghi culinari;

l’ossocollo affumicato si ricava dal collo dell’animale ed è un salume da trattare delicatamente, sia nella fase di lavorazione che in quella di stagionatura, la cui durata può arrivare fino a 90 giorni. Al termine di questo lungo processo, si ottiene  un insaccato sbalorditivo per gusto ed intensità organolettica;

il salame affumicato rappresenta il salume per eccellenza nel quadro della produzione della macelleria in argomento che, essendo ubicata a Timau, ha subìto, come il resto della comunità, l’influenza carinziana  in tante espressioni delle sue tradizioni, degli usi e dei costumi, non ultimo l’ambito gastronomico. Il salame affumicato si presenta di colore rosso con invitante lucentezza, sprigionando un aroma delicato e coinvolgente.

Abbiamo lasciato per ultimo un prodotto diventato negli anni una specie di marchio di fabbrica del sodalizio Flavio/Massimo, un bocconcino esclusivo scaturito dalla fervida fantasia del padre e ulteriormente valorizzato, come tutto il resto, dalle spiccate capacità manageriali del figlio. Ci riferiamo alla schultar affumicata che per tradizione fa la sua comparsa sulla mensa dei timavesi nel giorno di Pasqua, dopo essere stata benedetta in chiesa. La  schultar  è la spalla del maiale affumicata, la cui lavorazione peculiare e rigorosa ne caratterizza l’unicità dei sapori. La spalla deve essere lasciata riposare almeno una giornata prima di trattarla con il sale, il pepe e aromi naturali, rispettando anche in questo caso regole ben precise tramandate dall’esperienza e dalla tradizione. Dopo essere stata sottoposta al primo trattamento, della durata di alcuni giorni, la spalla passa all’affumicatura che può protrarsi per 10/15 giorni, ma non più di due o tre ore per ogni seduta giornaliera. Segue la stagionatura (4/6 mesi), quindi il prodotto, in prossimità della Pasqua, viene bollito in acqua salata per circa 90 minuti ed è pronto per essere degustato,

magari con l’accompagnamento di una focaccia dolce e di un fresco bicchiere di vino prosecco.

Bene, ci siamo ritrovati a parlare tanto diffusamente della ditta “Salumi e sapori di Timau Snc.” (ma noi, come i timavesi, preferiamo continuare a chiamarla “da Flavio”)  da aver confezionato quasi uno spot pubblicitario. Non era nelle intenzioni, davvero: la …colpa è del livello di qualità e di affidabilità raggiunto da certa produzione artigianale di Timau che merita sincero plauso e rispetto.  E i prodotti di Flavio & Massimo Mentil rientrano a pieno diritto nella categoria.

 

Rocco Tedino

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7 marzo 2012 3 07 /03 /marzo /2012 16:59

La figura è seduta su un largo sedile in pietra,  distrutto per una buona metà, e percorre con sguardo assorto la distesa di  rovine che si allungano su un vasto tratto della campagna. I resti di un basso e lungo edificio, poco più in là, indicano che quello era il luogo dove sorgevano le terme, non foss’altro per la presenza di strette piscine ormai piene di terra ricoperta di erbacce. Una lama di luce si insinua in un’apertura del tetto e va a colpire una statua mutilata di marmo  che giace rovesciata su un fianco, grigia per il trascorrere del tempo e  deturpata da chiazze di terriccio e ricami di muschio. Ad un tratto, un rumore riscuote lo sconosciuto dalle meditazioni in cui sembra immerso e lo spinge a voltarsi. Ecco, i visitatori che stava aspettando sono arrivati. Si tratta di un uomo e di una donna, armati di strani apparecchi. Si avvicinano lentamente al loro ospite che li attende immobile e lo osservano con attenzione. Il  lungo mantello che lo ricopre dalla testa ai piedi, fermato all’altezza del collo da una vistosa fibbia d’oro a forma di scarabeo, si è parzialmente aperto e i nuovi arrivati possono vedere che l’altro indossa soltanto  una corta tunica di morbida stoffa bianca, stretta alla vita da una cintura che sembra d’oro come la fibbia. L’abbigliamento è completato da un paio di sandali di cuoio lavorato, fermati a metà polpaccio da legacci dorati. Il misterioso individuo, con gesto improvviso, abbassa il cappuccio che gli copriva la testa, scoprendo un viso rotondo, dal naso piccolo e dalla bocca carnosa. Lunghi riccioli castani, arrotolati con cura, gli scendono sulle spalle, mentre una corta frangetta gli orna la fronte, ombreggiando  occhi vigili e crudeli, che fissano con arrogante sicurezza. Tra i tre non è stata ancora scambiata una parola. Poi, con un sincronismo che sembra concertato, l’enigmatico personaggio torna a sedersi, il giornalista tira fuori da una sacca un registratore corredato di microfono e la sua collaboratrice accende un potentissimo riflettore che illumina di luce cruda ed accecante la scena.

“Per gli dei!” esclama irosamente lo sconosciuto, coprendosi gli occhi con un braccio e rivolgendosi alla donna. “Hai intenzione di accecarmi?”

La donna si affretta a deviare il fascio di luce, ma l’occhiata che rivolge al suo compagno contiene un muto interrogativo:

“Che cosa faccio, adesso? Come posso riprendere senza inquadratura luminosa?”

L’uomo decide allora di rompere gli indugi. Si schiarisce la voce, poi si rivolge con un tono deferente alla persona  che intanto si era mollemente abbandonata su quella specie di rozzo giaciglio, appoggiandosi su un gomito:

“Vogliamo cominciare? Prima però vorrei sapere come devo chiamarti, illustre signore: principe, maestà, divino?”

“Ragazzo, io capisco  il tuo linguaggio moderno e so anche parlarlo, perciò credo che ci intenderemo molto bene. Tu fammi tutte le domande che vuoi e io ti risponderò. In quanto a come chiamarmi, ti potrei dire di scegliere tra Lucio Domizio Enobarbo i miei veri nomi, oppure tra Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, i nomi che scelsi dopo essere stato adottato dall’imperatore Claudio, il secondo marito di mia madre Agrippina. Ma semplifichiamo le cose e rivolgiti a me semplicemente con l’appellativo di Cesare. E tu, donna, spegni pure quella torcia enorme e fastidiosa. Siamo qui per  parlare, non per metterci sotto la luce. Mi avete chiesto un incontro, una…come l’avete chiamata? ah, sì, intervista, ed io sono stato ben felice di accontentarvi perché voglio chiarire una volta per tutte certi avvenimenti successi sotto il mio governo che per secoli e secoli sono stati giudicati in maniera sbagliata ed ingiusta. Oggi ho intenzione di raccontare al mondo chi fu veramente Nerone, sperando di dissipare ombre e sospetti infamanti. Mi hai chiesto se vogliamo cominciare? Ebbene, sì, sono pronto. Cominciamo pure.”

Il giovane armeggia brevemente con la sua attrezzatura, fa cenno alla sua compagna di dirigere il raggio del riflettore al di sopra delle loro teste, in modo che l’illuminazione del posto in cui i tre si trovano risulti più attenuata e meno diretta, poi attacca:

“Cesare, che cosa rappresentano questi luoghi per te?”

Nerone, ormai è chiaro che si tratta di lui, non risponde subito. Abbraccia con un lento sguardo circolare la massa di rovine che li circonda, poi sospira e parla con una voce in cui vibra una nota di profonda malinconia:

“Qui sorgeva la mia casa, la Domus aurea, la casa d’oro, chiamata così dai miei sudditi con una punta di invidia. Fu sempre malvista dai miei detrattori, che la portavano ad esempio della mia megalomania e non  a caso, dopo la mia morte l’imperatore Vespasiano si affrettò a smembrarla. Sulla parte meridionale suo figlio Tito fece costruire delle terme, usando le mura della mia casa come fondamenta, mentre il resto venne distrutto e il terreno restituito al popolo. Già, il popolo, questa bestia senza testa che chiunque con un minimo di cervello e di potere può manovrare a suo piacimento, come ben avevo sperimentato io nei primi anni del mio regno, quando avevo dato di me una bella immagine. E questo non me lo potete negare, qualsiasi cosa sia successa in seguito|”

“No, Cesare, sappiamo tutti che i primi anni del tuo principato furono tra i più pacifici e sereni che Roma avesse vissuto sotto un imperatore. Forse solo Augusto aveva assicurato alla città un periodo altrettanto fortunato e tranquillo. Dipese forse dalla guida e dai consigli di Seneca, il tuo precettore?”

“So che gli storici hanno attribuito a Seneca quasi tutto il merito del mio comportamento tanto degno di lode, ma io avrei qualcosa da dire in proposito” la voce dell’imperatore  suona ferma e decisa. “Io ero un ragazzo quando Seneca – sapete, a proposito, che lo chiamavamo un po’ tutti il filosofo spagnolo? -  riuscì finalmente a tornare a Roma dall’esilio in Corsica, dove lo aveva spedito il mio patrigno Claudio per punirlo di aver partecipato ad una congiura. È vero, quell’episodio non fu mai molto chiaro, ma resta il fatto che Seneca, a quanto pare, non disdegnava di farsi trascinare in certi intrighi pericolosi. Basta ricordare che anche io fui costretto a punirlo, quando venne alla luce il suo coinvolgimento nella congiura di Pisone. Mi dispiacque, lo dico sinceramente, che in quella occasione il mio vecchio precettore si togliesse la vita, ma le prove che mi avevano portato non lasciavano dubbi: Seneca aveva complottato con i miei nemici per togliermi di mezzo. Che cosa avrei dovuto fare? Potevo mai perdonare? Lo avevo già fatto tempo prima, allorchè mia madre Agrippina morì annegata e i miei oppositori riempirono Roma con la diceria che io fossi responsabile della sua morte. Ma dissero  anche che nell’accaduto fosse coinvolto anche  Seneca, ed io allora non volli crederci e respinsi ogni chiacchiera in proposito. Del resto, era stata proprio mia madre a farlo tornare a Roma e ad affidarmi a lui quando ero ancora un ragazzo. La mia genitrice aveva sempre coltivato il sogno di vedermi un giorno seduto sul trono da imperatore e, sposando Claudio, questa possibilità era diventata più che concreta. Ma mi serviva qualcuno che mi aiutasse ad imparare come muovermi a corte, come trattare gli affari di Stato e così via. Seneca le era sembrato la persona adatta e così mi affidò a lui. È vero che nei primi anni del mio regno le cose erano andata bene, ma non crediate che fosse tutto rose e fiori…”

“Cesare, vuoi dire che la realtà fosse diversa da quella raccontata dai libri di scuola e che la collaborazione con Seneca non andò come si è raccontato in seguito?” il giornalista attende un attimo, poi prosegue. “A proposito, ti faccio i miei complimenti per come ti esprimi, sembri uno della mia epoca, non una persona vissuta quasi duemila anni fa. Ma ritorniamo a noi, dicci di Seneca.”

“Grazie per il complimento, ma in gran parte il merito va alle possibilità che noi trapassati abbiamo di trascorrere le giornate vivendo momento per momento la realtà che ci circonda, come spettatori seduti nel loggione di un teatro a guardare dall’alto il mondo, la gente, gli avvenimenti che scorrono e vivono sotto di noi. Ma torniamo a Seneca. No, non voglio dire che fosse un cattivo maestro, tuttavia ci sono delle cose che è meglio precisare.  Nella sua personalità dimostrò difetti e contraddizioni. Qualche esempio? Sostenne con forza la necessità di vivere secondo natura e non fece altro che frequentare in ogni occasione la società mondana; lodò la virtù come base di saper vivere e scese a livelli vergognosi di adulazione pur di tornare dall’esilio; vantò la povertà e si godette un patrimonio di centinaia di milioni di sesterzi: insomma, disse e fece tutto e il contrario di tutto. Da quanto ho appreso in seguito, sembra che il suo pensiero di filosofo stoico presentasse molte affinità con la dottrina cristiana, tanto è vero che egli riscosse ammirazione dai Padri della Chiesa e dai dotti cristiani del medioevo. Altrettanto non si può dire di me…”, ridacchia Nerone con evidente riferimento all’accusa più nota e ricorrente legata al suo nome: la persecuzione dei cristiani. Il giornalista non si lascia scappare l’occasione e commenta:

“Beh, sarebbe veramente dura difenderti, Cesare, di fronte alle accuse della storia: l’incendio di Roma, le uccisioni di cristiani innocenti…”

Il poveretto non riesce neppure a terminare la frase, che un valanga di recriminazioni si rovescia sul suo capo. Nerone sì è tirato su da quella specie di letto conviviale  sul quale era semidisteso e adesso fissa l’uomo con le mani sui fianchi, gli occhi sfavillanti d’ira e la voce dura e sibilante:

“Vogliamo smetterla di diffondere bugie e falsità sul mio conto? È mai possibile che sono passati più o meno diciannove secoli e mezzo, scrittori e giornalisti hanno espresso i loro pareri sulla questione e noi siamo ancora qui a chiederci se è vero  o meno che feci incendiare Roma? Se risponde a verità oppure no che mandai a morte migliaia di cristiani innocenti? Ebbene, una volta per tutte grido forte e chiaro che le cose andarono diversamente da come si è sempre detto: non detti l’ordine di bruciare Roma e non feci massacrare senza motivo tantissimi cristiani. È tanto difficile credermi?”

Il momento è delicato e sussiste il pericolo che l’imperatore, arrabbiato com’è, decida di piantarla lì e mandi l’intervista all’aria. Bisogna che la prossima domanda  sia assolutamente di suo gradimento. Ma che cosa chiedergli? Mentre il giornalista si fruga freneticamente nella mente, si ode la voce della donna, timida eppure limpida:

“Sì, però c’è anche la storia di tua madre e di tua moglie, Cesare…”

Il silenzio che segue pesa come un macigno. Il cronista ha chiuso gli occhi, raccapricciato: addio servizio, pensa amaramente, adesso questo ci caccia malamente e tutto perché una scema non sa tenere la bocca chiusa. Si gira con timore a guardare Nerone e quasi non crede ai suoi occhi poiché questi sta fissando la donna con un sorriso divertito che gli aleggia sulle labbra:

“Guarda guarda, i tempi moderni  permettono anche queste cose: ai tempi miei, una donna che osasse intromettersi in una discussione tra due uomini o era pazza o era stanca di vivere. Ve bene, faccio finta di niente e rispondo. È vero, feci uccidere mia madre Agrippina ed uccisi io stesso mia moglie Poppea, ma ho tante attenuanti.”

Nerone guarda i suoi due interlocutori per vedere come è stata accolta la sua affermazione, poi, rassicurato dal fatto che entrambi lo stanno fissando con attenzione, prosegue:

“Voi avete sentito parlare di ragioni di Stato, suppongo, perciò sapete che a volte chi regna deve prendere delle decisioni che appaiono strane ed incomprensibili agli occhi dei posteri, ma che sono perfettamente comprensibili per i suoi contemporanei, abituati a leggere gli avvenimenti nell’ottica dei tempi che essi stanno vivendo. Mi seguite? Voglio dire che se è vero che per gli storici successivi io sono un matricida, è altrettanto vero che per le persone che mi vivevano accanto durante i quattordici anni del mio comando  quell’atto, che tanto  fa inorridire voi, per loro significava che io avevo soltanto voluto liberarmi da una nemica del mio principato, a prescindere dal fatto che fosse mia madre. E badate bene che così la pensava anche Seneca ”

Nerone si interrompe, scruta per un momento i presenti, poi scuote la testa con impazienza:

“Vedo che non siete convinti e la cosa mi dispiace perché io vi sto dicendo la verità. Mia madre era insopportabile nella sua smania di voler sempre prevalere su tutti, organizzando le vite degli altri come piaceva a lei. Vi ho detto che aveva affidato la mia educazione giovanile a Seneca e di Afranio Burro, il prefetto del pretorio, ricordate? A quel punto, chiunque avrebbe pensato che le cose erano andate a posto e che tutto filasse nella norma. Macché, sarebbe stato troppo bello. In realtà la mia cara mammina Agrippina aveva su di me altre mire e mi considerava soltanto uno strumento per soddisfare la sua avidità di dominio. Lei voleva mettere becco in tutte le questioni dello Stato e non faceva altro che provocare attriti e malumori nella corte per la sua intrigante ingerenza in cose che non la riguardavano minimamente. Io mi sforzavo di uniformare l’azione di governo a criteri di moderazione e rispetto del Senato, restituendo a quest’ultimo parte della pubblica amministrazione e pacificando le frontiere soprattutto per via diplomatica e lei che faceva? Deprecava in pubblico  una  mia presunta debolezza di fronte a quelli che lei definiva nemici interni ed esterni, attirandomi le ironie dei suoi seguaci e mettendomi in cattiva luce con l’aristocrazia che già mi rimproverava, ed anche questa era opera di mia madre, di proteggere troppo il popolo. Io mi sforzavo di giudicare con clemenza ogni caso di giustizia mi venisse sottoposto? Lei saltava su a dire che mi lasciavo distrarre dai sentimenti e che chiunque sapesse fingere bene riusciva invariabilmente a spuntare una sentenza favorevole. Non parliamo poi delle mie frequentazioni con le donne! Un’altra spina nel fianco dei miei rapporti con l’augusta genitrice. Brigando e tramando, mi aveva fatto  sposare Ottavia, la figlia dell’imperatore Claudio e questo successo l’aveva convinta di poter influire a suo piacimento sulle mie scelte sentimentali. Si oppose, pertanto, alla mia relazione con Atte, una bellissima schiava liberata, e si dichiarò assolutamente contraria alla mia decisione di separarmi da Ottavia per sposare Poppea Sabina, una donna come a Roma ce n’erano davvero poche. Tutto questo contrariarmi mi faceva arrabbiare davvero non poco. Quando poi seppi da alcuni informatori che sembrava si stesse sviluppando una congiura per eliminarmi, della quale Agrippina era praticamente la maggiore responsabile, decisi che era arrivato il momento di riprendere in mano la mia vita e così mia madre ci lasciò. Vi sembra crudele,  addirittura snaturato, che io  confessi con tanta apparente tranquillità un peccato così orrendo?”, il viso di Nerone era impassibile, ma al giornalista pare di cogliere nel suo tono di voce  un leggero accento ironico. “Non nego che ordinare di uccidere la propria madre sia azione della quale vergognarsi per il resto della vita, ma credo di avervi dimostrato che ormai Agrippina era diventata un elemento disgregante del mio regno, addirittura un pericolo per la mia incolumità personale. Non potevo più permettere che la sua smania di protagonismo, lo smodato desiderio di dominio che la divorava si frapponessero fra me e un comando basato sulla moderazione ed il rispetto delle istituzioni, come, ad esempio, il senato.”

Nerone si arresta per riordinare i suoi pensieri e stavolta è la donna a parlare:

“Cosa puoi dirci di Poppea, Cesare?”

“Che fu solo un incidente determinato dalla rabbia del momento. Per la verità, già dopo i primi mesi di matrimonio avevo capito che lei era diversa dalla donna conosciuta all’inizio, una donna apparentemente tenera, leale e sinceramente innamorata di me. In realtà era  astuta e calcolatrice, capace di dissimulare i suoi reali sentimenti. I nostri screzi iniziarono ben presto e raggiunsero l’acme in quel certo giorno di maggio, quando una semplice discussione per motivi veramente futili si trasformò prima in un alterco, poi in una furibonda lite culminata in un gesto sicuramente riprovevole da parte mia: in preda all’ira, le sferrai un calcio all’addome che ebbe esiti tragici. Poppea, infatti, morì il giorno dopo, in preda ad atroci dolori, e con lei perì anche il bambino, mio figlio, che portava in grembo. Mi pentii subito del gesto, credetemi, tanto è vero che la feci divinizzare, ma ormai indietro non  potevo certo tornare. Povera Poppea, la sua ambizione fu anche la causa della sua perdizione!”

E su questa riflessione, Nerone china il capo e si immerge in un silenzio che dura abbastanza, prima che il giornalista si arrischi a romperlo:

“Cesare, da come racconti le cose, sembra che tu sia stato l’uomo più sfortunato della storia: le cose ti sono andate tutte storte, ma non certo per tua colpa. Ci dici allora qualcosa delle due colpe più grandi che ti sono state accollate, cioè l’incendio di Roma e il massacro dei cristiani?”

Nerone continua a fissare il suolo, sembra che non abbia neppure inteso la domanda, poi improvvisamente comincia a parlare con voce grave e paziente:

“Ero ad Anzio, quella notte di luglio. A Roma faceva un gran caldo ed io mi ero ritirato per qualche giorno nella mia villa sul mare, con l’intenzione di riposarmi dalle fatiche del regno. Passeggiavo sulla grande terrazza che si affacciava sul mare, attorniato dal mio seguito, quando vidi arrivare a spron battuto un cavaliere coperto di polvere, il quale, giunto all’altezza del corpo di guardia, si buttò letteralmente giù dal cavallo e si mise a parlare concitatamente con il comandante. Il vento ci portò qualche parola, ma non riuscivamo a capire quanto si dicessero, finché il graduato, correndo, non ci raggiunse e lo udimmo urlare incredulo «Roma brucia, Roma brucia». Alcuni lo attorniarono, tempestandolo di domande, e poco dopo il capo della guardia pretoriana venne a farmi rapporto: interi quartieri di Roma erano in fiamme a causa di un violentissimo incendio che li stava devastando. La situazione era molto grave ed allora decisi di ritornare immediatamente in città. Partimmo tutti e, a mano a mano che ci avvicinavamo alle mura, vedemmo nuvole gonfie di fumo nero e puzzolente stendersi su buona parte di Roma, mentre i bagliori dell’incendio, nella serata incipiente, avevano riflessi sinistri.”

Nerone si interrompe. Evidentemente, i ricordi bussano con forza alle porte della sua memoria, rievocando le sensazioni di quelle incredibili giornate. I suoi due interlocutori rispettano le sue esigenze e tacciono, attendendo. Poco dopo, l’imperatore ricomincia a parlare a stavolta la sua voce si percepisce netta e vigorosa, come se Nerone volesse sottolineare la veridicità delle sue affermazioni:

“Una vasta area di Roma vicino al Circo Massimo, tra il Celio e il Palatino, era in preda di fiamme furiose, alimentate da un vento fortissimo. Le alte abitazioni, per lo più di legno, addossate l’una all’altra sui due lati di viuzze strette e di vicoli in cui era difficile muoversi anche in tempi normali, i magazzini pieni di olio, bruciavano come torce con una facilità impressionante. La gente correva da tutte le parti, tra urli, invocazioni di aiuto, scrosci di crolli e ruggiti spaventosi del fuoco che ingoiava senza posa uomini e cose. Io mi resi subito conto che c’era solo una cosa da fare: abbattere le case ancora in piedi per creare uno spazio vuoto attorno al fuoco che avanzava inarrestabile e procurare una via di fuga alle migliaia di persone che premevano verso le zone alte della città, dove si trovavano le ville dei patrizi. Detti perciò ordine di aprire i miei giardini alle enorme moltitudine che premeva contro i cancelli, fronteggiata dai miei pretoriani, e pretesi che il prefetto del pretorio mi aggiornasse continuamente sugli sviluppi dell’incendio. Più di questo non potevo fare…anzi no, dimenticavo: feci anche sequestrare ingenti quantità di grano e di farina che ordinai di distribuire al popolo affamato, attirandomi l’odio dei nobili i quali erano stati costretti a fornire tutti quei viveri.”

“Cesare, ammettiamo pure che tu non fossi responsabile dell’incendio. Ma allora chi lo appiccò e perché? Che cosa c’entravano i cristiani in tutta la faccenda?”

Anche stavolta, l’imperatore attende qualche momento prima di rispondere. Dà l’impressione che stia ripassando mentalmente la risposta da fornire e invece le sue prime parole fugano questa ipotesi, spiazzando il giornalista con una domanda inaspettata:

“Tu leggi molto, vero?”, e prosegue senza attendere la replica. “Allora avrai letto un saggio di Dimitri Landeschi, in cui l’autore sostiene che l’incendio fu appiccato da certi fanatici appartenenti alla frangia più estremista della comunità cristiana, istigati da alcuni rappresentanti dell’aristocrazia che erano miei nemici acerrimi e avrebbero fatto di tutto per danneggiarmi. Furono loro a mettere in giro la voce che io, mentre Roma bruciava, fossi salito sulla “torre di Mecenate” e mi fossi messi a cantare brani di un poema che celebrava l’incendio di Troia. Ma per favore, non diciamo sciocchezze! È vero, invece, che io per nove giorni, il tempo in cui l’incendio imperversò, mi detti da fare non poco per aiutare il popolo di Roma. Fui io ad incitare gli addetti agli incendi, voi oggi li chiamate pompieri, a non risparmiarsi nell’opera di spegnimento delle fiamme e fui io ad ordinare che la gente in fuga potesse trovare rifugio nei miei giardini imperiali, come ho già detto…”

Il giovane, che non sta perdendo una parola delle dichiarazioni di Nerone, interviene con una punta di impazienza:

“Sì, Cesare, tutto bello, ma che ci dici delle persecuzioni cui facesti sottoporre i cristiani? Ti divertisti molto nel vederli sbranare dalle bestie feroci nel circo oppure nel vederli bruciare come torce, appesi a dei pali e cosparsi di pece? È vero, comunque, che i cristiani sapessero morire senza urlare e senza lamentarsi, quasi deludendo la tua brama di crudeltà?”

“Ragazzo, io non me ne vado perché ho promesso di concederti un’intervista e un imperatore non viene meno alla parola data, ma meriteresti davvero che ti piantassi in asso.” Adesso il defunto Cesare si è incupito, una smorfia di rabbia contrae il suo volto. “ Tu stai ripetendo sul mio conto tutti i luoghi comuni, tutti gli stereotipi che hanno accompagnato la mia figura per tanti secoli. Ci sono stati altri imperatori che hanno fatto stragi di cristiani, ma la gente si ricorda solo di Nerone. Chi ordinava di bruciare vivi i cristiani e intanto si divertiva a correre con il cocchio tra i pali che li sostenevano? Ma Nerone, che diamine! Chi rideva e se la spassava nel vedere come gli animali feroci dilaniavano le membra di uomini, donne e bambini nel circo? Ma Nerone, che domande! Pensa che c’è ancora chi crede che io veramente avessi gradito lo spettacolo di una fanciulla legata nuda alle corna di un toro, mentre un gigante tentava di liberarla! Ma quelle sono cose da romanzo, sono tutte invenzioni contenute in un film prodotto dagli americani e tratto da quel libro, in cui io vengo presentato come uno psicopatico in preda a momenti di pazzia pura. L’attore che mi impersonava era molto bravo, ma fornì di me un ritratto assolutamente non veritiero. Si può mai credere, ad esempio, che io versassi le mie lacrime in una specie di ampolla allo scopo di conservarle? E quell’altra storia che io esclamassi, tra l’indispettito e l’incredulo,  una frase come “Ma stanno cantando!”, riferendomi ai cristiani che innalzavano preghiere al loro Dio mentre pativano le peggiori torture, non è affatto vera: vi pare possibile che la gente cantasse mentre bruciava viva?  Non guardarmi così”, l’imperatore si rivolge alla donna che lo fissa con un’espressione di orrore impressa sul volto. “È vero, perseguitai i cristiani e ne feci uccidere molti in maniera anche barbara, ma anche qui ho delle attenuanti. Mi credereste se vi dicessi che lo storico di cui parlavamo prima ha ragione? Mi riferisco a Landeschi, non certo a Tacito o a Svetonio, gli storici di poco a me successivi, che pur di presentarmi sotto una cattiva luce mi avrebbero accusato di qualsiasi cosa, magari di  aver ammazzato con le mie mani Giulio Cesare, che era stato pugnalato dai congiurati più di un secolo prima del mio regno. No, parlavo di Landeschi e vi ripeto  che ha ragione quando dice che furono dei fanatici cristiani, aizzati da alcuni nobili, a dare fuoco a Roma. Io tutto questo lo avevo già scoperto grazie alle indagini svolte dal mio  prefetto del pretorio, un certo Tigellino, che più tardi si dimostrò un autentico verme, tradendomi spudoratamente. Dovete, infatti, sapere che alcuni esaltati appartenenti alla setta venuta dalla Giudea si scagliavano contro la dissolutezza dei costumi, esaltavano  il sacrificio estremo della vita e  preannunciavano la  fine del mondo, ormai vicina. E sapete come sarebbe finito il mondo, secondo loro? Divorato da un immenso incendio! Appena spento l’incendio, io pensavo soltanto a come ricostruire la parte distrutta della città, ma quando a corte i miei consiglieri cominciarono a farmi notare che il popolo si attendeva la scoperta e la punizione dei colpevoli, che se non mi fossi mosso in tal senso si sarebbe potuto che fossi complice degli incendiari per motivi miei personali e così via, io fui costretto ad ordinare un’inchiesta che portasse all’identificazione dei responsabili del vile gesto. Fu allora che Tigellino mi fece notare che a Roma agiva liberamente un’associazione di persone che si facevano chiamare cristiane, dal nome del figlio di un falegname crocifisso in Giudea per offese alla religione del posto. Questi cristiani se ne andavano appunto in giro a predicare la purificazione e l’ascesa al cielo, accanto al loro Dio, attraverso il sacrificio terreno e la morte. Dicevano anche che tutti gli uomini erano uguali agli occhi di Dio, che bisognava perdonare i propri nemici e tante altre cose che adesso sinceramente mi sfuggono, ma che di certo non approvavo. Ve l’immaginate, ad esempio, che io potessi sentirmi uguale ad un mendicante della Suburra, oppure che riuscissi a perdonare chi mi recava ingiuria?” e a questo punto Nerone assume un’aria tanto comicamente buffa da strappare un sorriso ai suoi due ospiti. L’imperatore lascia vagare lo sguardo sul panorama circostante, poi di botto riprende a parlare, con chiari accenti di sfida nella voce;

“Sì, seguii i suggerimenti di Tigellino e detti ordine di arrestare i cristiani e di giustiziarli: erano nemici dello Stato e colpevoli di aver tentato di distruggere col fuoco tutta Roma. Ci furono eccessi, crudeltà, barbarie innominabili, voi dite? Ebbene, guardatevi indietro solo di poco e chiedetevi quanti orrori hanno macchiato le vostre guerre appena combattute. Voi che mi giudicate uno spietato assassino, sapreste dirmi che differenza passa tra me, rappresentante di un’epoca in cui vigeva la legge del più forte, e certi vostri rappresentanti dei tempi moderni che hanno dimenticato ogni traccia di civiltà e di misericordia, compiendo atti che disonorano per l’eternità il genere umano? Non rispondete? E già, a Nerone l’incendiario, a Nerone il matricida, a Nerone lo sterminatore non si può dare soddisfazione! Ma sapete che cosa vi dico? Io non ho bisogno né della vostra approvazione, né della vostra assoluzione. Io fui figlio dei miei tempi e non me ne vergogno affatto.”

Ciò detto, il terribile personaggio incrocia le braccia sul mantello e fissa i due, fiero e corrucciato. Il giornalista teme che questa nuova impasse  possa pregiudicare il buon esito dell’incontro e corre subito ai ripari, cambiando discorso:

“Cesare, è vero che la casa che ti facesti costruire sulle rovine dell’incendio, la famosa Domus aurea, la “casa d’oro”, era enorme, smisurata, proprio come appare ai giorni nostri grazie ai lavori di disseppellimento che ne hanno riportato alla luce una certa parte?”

“La Domus aurea, la mia casa dorata!” Qui il tono di Nerone si fa nostalgico, lontano. Dà l’impressione di rivedere palmo per palmo la smisurata dimora, di ripercorrerne l’intrico di saloni, corridoi e cubicoli. “La mia prima casa era andata distrutta durante l’incendio e così decisi di farmene costruire un’altra che rendesse onore alla mia importanza. Convocai a corte gli architetti più famosi dell’epoca e decidemmo che la mia nuova residenza fosse formata da una serie di edifici sorti in un panorama fintamente campestre, attorno ad un lago artificiale. L’area su cui sarebbero sorti i fabbricati, molto grande davvero, avrebbe compreso il Palatino, le pendici dell’Esquilino e parte del Celio. Nella zona divisa tra il Palatino e l’Esquilino  furono costruiti un anfiteatro, un mercato, un complesso di palestre e una distesa di bagni serviti da un acquedotto. Disposi che la collina del Celio fosse, invece, piena di giardini, boschetti e parchi con bestie libere di correre. Le stanze del palazzo erano dipinte con suggestive scene di vita quotidiana e decorate con pietre preziose. C’era una stanza in cui stelle e pianeti erano stati dipinti sul soffitto circolare che ruotava grazie ad un ingegnoso meccanismo ed imitava i movimenti degli astri. Per gli dei, quante statue, grotte, portici dipinti e cascate d’acqua si potevano trovare ad ogni passo! Il lago artificiale era circondato da boschetti e finti villaggi di marinai e pescatori ed era tanto grande che sul suo specchio potevano manovrare addirittura delle grosse imbarcazioni. Sapete che cosa fu costruito sull’area del lago, dopo la mia morte? L’Anfiteatro Flavio, sì, proprio quel monumento conosciuto in tutto il mondo col nome di Colosseo, fatto costruire da Vespasiano, un uomo avido che divenne imperatore qualche anno dopo di me. A proposito del Colosseo, adesso vi racconto da dove deriva quel nome. All’entrata della Domus aurea io avevo fatto piazzare una statua di bronzo che mi ritraeva. La statua era alta 36 metri e voleva imitare  il Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo antico. Il Colosso, intendo, non la mia statua”, precisa Nerone, con una smorfia divertita, anche se non è chiaro se stia scherzando o davvero voglia sottintendere che la vera meraviglia era la sua statua. “Dopo la mia morte, quando la mia residenza fu smembrata, abbattuta e trasformata in parte nelle fondamenta delle terme di Tito, il Colosso subì un curioso destino: lo spostavano accanto alla casa dell’imperatore in carica, poi scolpivano nel bronzo la testa di quest’ultimo e la fissavano sulla statua in sostituzione della precedente. Finché Adriano, che salì al trono una cinquantina d’anni dopo di me, non decise di far sistemare definitivamente il Colosso nei pressi dell’Anfiteatro Flavio: fu così che nel corso dei secoli la monumentale arena voluta da Vespasiano fu identificata col nome della statua e diventò il Colosseo. Questo non lo sapevate, vero?”, ridacchia Nerone, ingenuamente felice di aver rivelato un particolare che ritiene  sconosciuto. L’atmosfera è distesa, colloquiale, ma sotto sotto si avverte un po’ d’impaccio perché resta soltanto da toccare l’ultimo tasto, quello più dolente: le circostanze legate alla sua morte. Come si fa a chiedere tranquillamente: allora, Cesare, è vero che ti facesti uccidere da uno schiavo perché non avevi il coraggio di farlo da solo e che un attimo prima che il pugnale ti trafiggesse la gola, tu esclamassi “Ah, quale grande artista muore con me”? Ma è lo stesso Nerone che, a questo punto, risolve la questione, forse intuendo l’imbarazzo del giornalista:

“Bene, amici, penso che ci siamo detti tutto. Vi ho raccontato gran parte della mia vita e credo che gli ultimi anni della mia vita, tra spettacoli teatrali, congiure e declino della mia popolarità, è giusto che lo riconosca, non interessano a nessuno. Quelli che hanno studiato storia romana a scuola ricorderanno che ci fu una sollevazione di truppe contro il mio regno e che io mi trovai a dover far fronte a nemici forti ed agguerriti che non mi lasciarono scampo. Il Senato, sempre pronto a saltare sul carro dei vincitori, mi dichiarò nemico pubblico, dimenticando tutti gli onori di cui lo avevo gratificato nel corso degli anni, ed io mi trovai costretto a fuggire, e quindi ad uccidermi, per non cadere nelle mani dei miei avversari politici. Regnai su Roma quattordici anni e lasciai un ricordo contrastante. Purtroppo, prevalse il punto di vista di chi mi ricordava soltanto come un essere crudele e sanguinario e così le tante cose buone che pure avevo compiuto furono dimenticate. Pazienza, le prevenzioni sono dure da sradicare. Vuol dire che continuerò a farmene una ragione, se c’è una cosa che non mi manca è il tempo. Addio, io torno nel mio mondo e sinceramente non invidio voi, costretti a restare nel vostro, che non è certo il massimo della vita.”

Così dicendo, Lucio Domizio Enobarbo, meglio conosciuto come Nerone, si alza dal suo sedile e si avvia verso l’aperta campagna. Curiosamente, non lascia orme sulla polvere che copre il suolo. I due reporter hanno appena il tempo di spegnere le luci e di fermare il registratore che l’enigmatica figura  è scomparsa, ingoiata da una dimensione sconosciuta ai viventi.

Ave, Cesare!

 

 

Rocco Tedino        

                  

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3 marzo 2012 6 03 /03 /marzo /2012 15:10

Nel dicembre del 2007 il “Messaggero veneto”, con felice intuizione, lanciava un concorso, dal titolo “Friuli a tavola”, invitando i lettori del quotidiano, come chiunque fosse venuto a conoscenza dell’iniziativa, a segnalare il proprio ristorante preferito sulla base di un giudizio complessivo che abbracciasse abilità professionale, qualità di servizio e doti di simpatia. Le segnalazioni offrivano ai partecipanti al gioco anche la possibilità di aggiudicarsi interessanti premi attraverso estrazioni a sorte svoltesi presso la sede del giornale con cadenza settimanale. Il successo del concorso è andato oltre ogni più rosea previsione e i voti del pubblico hanno permesso di stilare una graduatoria finale che ha interessato addirittura un migliaio di locali.

Giovedì 24 gennaio 2008 presso la Camera di Commercio di Udine -sponsor della competizione insieme con la Federazione delle Banche di Credito Cooperativo- il concorso si era chiuso con la proclamazione del vincitore (per la cronaca, “Là di Moret” di Udine) e con la premiazione degli altri ristoranti  classificatisi a ridosso del trionfatore della manifestazione.

Quella che interessa più da vicino Timau, però, è la notizia che tra i ristoranti segnalati dai lettori era comparso anche l’albergo-ristorante “Da Otto”, il cui piazzamento finale -ripetiamo: tra oltre mille concorrenti- era stato di assoluto prestigio. Il locale gestito da Diego e Antonietta, infatti, si era aggiudicata la 48° piazza assoluta, primo fra tutti gli esercizi di ristorazione dell’Alta Carnia!

Ce n’è d’avanzo per tributare un meritato applauso ai nostri due valorosi dispensatori di delizie enogastronomiche (non dimenticando, ovviamente, tutto i loro preziosi collaboratori) e noi  lo facciamo più che volentieri, sicuri di interpretare le intenzioni di tutto il paese. Del resto, la fama del ristorante ha da tempo valicato gli angusti confini locali: ne fanno testimonianza le citazioni stabilmente riportate nelle più importanti pubblicazioni del settore. A titolo esemplificativo, riportiamo il giudizio comparso sulla prestigiosa guida “L’Italia del Gambero Rosso -Friuli Venezia Giulia-“ del 2008:

 

”Tradizionale trattoria di montagna, nell’ultimo “avamposto” italiano prima del confine austriaco. Il servizio è cortese come si addice ad un locale autenticamente familiare, la cucina è fortemente radicata nella tradizione, con grande attenzione alla scelta dei prodotti e delle materie prime, soprattutto erbe selvatiche. Provate i tipici formaggi delle varie malghe della Carnia e i salumi, anche di selvaggina, che si accompagnano ai funghi sott’olio o al famoso radicchio di montagna. Tipici i cjalsons di Timau, i ravioli di asparagi e mimosa, le crespelle alla birra con semolino e formaggio salato, il capretto al forno, lo stinchetto d’agnello al timo, il capriolo in salmì con polenta o l’immancabile frico. Dolci casalinghi e buoni come il classico strudel di mele e uvetta. Chiudete con grappe aromatizzate alle erbe o alla frutta. Da bere vini regionali di qualità.”

 

Chissà quanti, leggendo l’elencazione di queste golosità, hanno buttato nel fuoco le tabelle della dieta…specialmente se l’occhio è caduto sul seguito della lista: minestre,  polenta,  crauti,  pesce,  verdure,  marmellate, sciroppi, miele…per terminare con  i cjalsòns, i mitici cjarsòns che ormai navigano in un’orbita culinaria tutta loro, prestigiose icone della cucina  carnica di cui ogni vallata, ogni paese rivendica una personalissima e gelosa tradizione di preparazione a base di ingredienti che variano, si può dire, da borgata a borgata, da massaia a massaia. Sapori semplici e naturalmente veri tratti dalle tradizioni di una zona di montagna speciale. Profumi e gusti intensi di piatti schietti e genuini offerti in un’atmosfera di cordialità ch incanta.

Avrebbero mai pensato Giacomo Matiz e Maria Apollonio che il ristorante da loro aperto addirittura nel 1870 si sarebbe negli anni evoluto al punto da ricevere citazioni d’onore da parte di prestigiose riviste specializzate nel settore della gastronomia? Certo, il locale che i due decisero di condurre circa centoquaranta anni fa era una piccola locanda in cui sostare per mandare giù un boccone e magari stendersi durante la notte su un pagliericcio al piano superiore dell’immobile. Ma Giacomo e Maria avevano volontà e grinta da vendere e la loro creazione lentamente si affermò, si sviluppò, crebbe in importanza e spazio, confermando le speranze di riuscita artefici dell’iniziativa. Permetteteci una breve digressione intesa a far comprendere di quale materia fosse intrecciata Maria. Lei aveva due figli, Ottavio e Gaetano, entrambi infilati in una divisa durante la Grande Guerra e mandati a morire l’uno, Gaetano, nel 1916 e l’altro, Ottavio, nel 1917 sull’altopiano carsico a sud di Gorizia. Alla fine della guerra, Maria partì da Timau su un carro che trasportava due bare, raggiunse il cimitero di guerra dove riposavano le spoglie dei suoi ragazzi, le riesumò, le raccolse nei due cofani mortuari e ritornò a Timau. Qui i resti mortali dei due fratelli trovarono requie ne locale cimitero, dal quale in seguito furono traslati nel Tempio Ossario del paese e inumate nel medesimo loculo. Da notare che al momento della morte di  Ottavio, sua moglie attendeva un bimbo che nacque  nel luglio del 1917, già orfano di padre. Gli fu imposto il nome del suo sventurato papà, Ottavio, e da grande continuò a gestire il ristorante aperto dai nonni Giacomo e Maria, tramandando la sua passione particolarmente al figlio Diego che ne l’attuale gestore.    

Diego Matiz e la sua insuperabile sposa Antonietta ci accolgono sorridenti nella cucina del loro ristorante “Da Otto” (denominazione con cui il locale è comunemente conosciuto), il “sancta santorum” in cui Antonietta elabora i suoi sostanziosi eppure raffinati piatti, coadiuvata da Stefano che incarna anche nel fisico possente l’iconografia del cuoco tradizionale. Oggi non è giornata di cjarsòns, ma l’ampio locale profuma dell’incrocio di cento odori che salgono dalle sfrigolanti padelle e dalle pentole gorgoglianti di irresistibili manicaretti. Su tutti, delizia l’olfatto l’aroma diffuso da un miscuglio di carne, salsiccia affumicata e cipolla tritata messe a rosolare perché meglio si amalgamino col resto degli ingredienti che concorrono alla creazione di quello squisito piatto, geniale intuizione di Antonietta, conosciuto col nome di “pasticcio alla carnica”. E visto che ormai ci siamo insediati nella cucina, vediamo quali altre prelibatezze vengono preparate per i fortunati clienti. Detto dei cestini di frico (una manciata di grana posta a scaldare in un pentolino per un tempo brevissimo e poi sagomata a cestino da riempire a piacere) lasciamoci tentare da una mousse di formaggio Frant:  mettere nel mixer 50 gr. di formaggio Frant ed emulsionare con 100 gr. di panna fresca che, una volta divenuta cremosa, va spalmata su un crostino non salato, punteggiata da un tocchetto di marmellata di mirtilli. E che dire del maestoso sformato alle erbe di montagna? Per capire quanto è ricco questo piatto, basta dare un’occhiata agli ingredienti per 4 persone, iniziando dalle crespelle: 4 uova,  5 dl di latte, 300 gr. di farina, sale e olio; la besciamella richiede 1 lt. di latte, 100 gr. di burro, 100 gr. di farina, sale; per il ripieno occorrono 400 gr. di erbe spontanee (radicchio di montagna, silene, buon Enrico, tarassaco ecc.) ed ecco che Antonietta è pronta per preparare una pietanza da favola. Lo Spatzle ai mirtilli,  con ragù di selvaggina, prevede che i mirtilli vengano frullati con uova e acqua; aggiungere la farina ed il sale e passare il tutto nell’acqua bollente e salata. L’impasto lavorato nell’apposito strumento va quindi condito con un ragù di carne scelta di selvaggina. E, tra i primi, siamo giunti al piatto-principe della cucina carnica:  i cjalsons, la cui ricetta viene tramandata di generazione in generazione, al punto che anche le quantità degli ingredienti variano di famiglia in famiglia.

Per avere un’idea dei cjalsons, vogliamo parlare del ripieno? Occorrono patate lesse e schiacciate, carrube, fichi, uvetta, cannella, cacao amaro, sale e pepe, scorza di limone, burro insaporito con la cipolla, mentuccia. Tutta questa roba viene amalgamata e modellata in tante palline poi posizionate sui dischetti in cui è stata tagliata la pasta precedentemente preparata. I dischetti vengono chiusi a forma di mezzaluna e, dopo la cottura in acqua salata, conditi con burro fuso e ricotta affumicata. Dal vasto repertorio di secondi piatti, una speciale menzione meritano il capretto al forno e il frico con polenta, mentre tra i dolci si fanno prediligere lo strudel di mele o la crostata di pere e noci che la solita, valorosa Antonietta prepara con le sue mani. Onestamente, varrebbe o no la pena di fare un salto da Diego Matiz e gustare un saporito pranzetto nel vasto e luminoso salone da pranzo (una capienza di circa 100 posti)  del suo ristorante “Da Otto”, forse l’esercizio commerciale timavese più conosciuto in provincia? Oppure permettersi una settimana di ferie nell’incantevole cornice dell’Alta Carnia, nella valle del Bût, soggiornando in una delle dieci accoglienti camere dell’albergo a quattro stelle che si trovano sopra il ristorante? Timau ci metterebbe il sole, l’aria fresca e pulita e un reticolo di sentieri che conducono su qualsiasi cima o rifugio alpino della zona; Diego, Antonietta e il loro staff sfornerebbero tesori culinari degni di una cucina di alto livello, conquistandovi con la magia di sapori indimenticabili: messa così, non si fatica davvero a riconoscere che la tentazione di venire a Timau, avendone voglia e possibilità, è davvero grande.

 

 

Rocco Tedino

 

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25 febbraio 2012 6 25 /02 /febbraio /2012 15:33

La prima impressione, entrando nella mansarda della loro bella ed accogliente casa nel Moscardo, è di profondo stupore: Josette e Gina, la moglie e la figlia di Amato Matiz - colui che per la gente vicina e lontana della Carnia è sempre stato, e sempre sarà, soltanto Pakai - sono riuscite a stipare quello che una volta era il vecchio “salâr” di una miriade di oggetti, testimonianze e ricordi del loro indimenticabile congiunto. Le due donne più importanti della vita di Pakai hanno trasformato  il locale, con pazienza e fantasia, in un  piccolo museo rigurgitante di roba, eppure così ordinato e così ben strutturato da permettere un’agevole visione di tutto il materiale esposto sulle pareti, sulle mensole, sui panchetti, sopra un divano antico, nelle vetrinette…insomma dovunque fosse disponibile lo spazio adatto, pur lasciando al visitatore piena facoltà di muoversi in piena libertà in mezzo al mare di fotografie, attestati, strumenti musicali, articoli di stampa, manufatti dozzinali o di squisita fattura, dischi, musicassette, quadretti e tanto altro presente nella stanza. Tutti quegli oggetti rappresentano un frammento della vita artistica di Amato e dei suoi carissimi amici, quasi dei fratelli, che con lui hanno scritto una pagina importante, e purtroppo assai breve, nel panorama musicale del folklore locale e nazionale, una pagina intessuta di allegria, di simpatia, di gioia di vivere e di suonare. Amato, la più grande fisarmonica friulana di sempre, il mitico Genesio Puntel col suo inarrivabile contrabbasso, l’insostituibile Paolo Morocutti, il virtuoso della chitarra, e Stefano Paletti, l’espressiva voce solista dalle limpide sonorità, sono andati per il mondo a regalare emozioni avvolte in un involucro scanzonato, frizzante, effervescente, una sorta di marchio di fabbrica del “Trio”, il frutto di una filosofia e di uno stile che affondavano robustissime radici nella musica folkloristica del passato, plasmata ed elaborata con sapiente sensibilità artistica nel gusto nuovo dei tempi nostri. Non inganni il modo di fare musica di Pakai e dei suoi,  facile e disimpegnato  solo in apparenza: in realtà i nostri “musicanti” (detto nel senso più nobile del termine) curavano accuratamente ogni particolare delle loro “performances”. E se accadeva, durante le esibizioni, che si divertissero ad improvvisare con variazioni estemporanee sul tema musicale di base, ciò era dovuto alle loro straordinarie doti di artisti eclettici e completi,  la cui tecnica rifletteva i benefici del costante lavoro basato sulla serietà, sulla passione e sull’entusiasmo. Tutto ciò è ravvisabile nell’ascolto di uno qualsiasi dei loro brani: tre strumenti che si fondono in un amalgama perfetto, tre voci che dialogano, si intrecciano, si rincorrono in un equilibrio armonico pieno, intenso, ricco di atmosfere che giungono direttamente al cuore.

Siamo dunque qui, fermi al centro di quello straordinario “luogo della memoria”, e sotto i nostri occhi sfila un caleidoscopio di immagini, in una successione rapida di pensieri e di sentimenti. Da quelle foto, da quegli oggetti, scaturisce incredibilmente una sottile magia, una lieve suggestione che avvolge, che trasporta, che forza delicatamente la coscienza fino a calarla in una dimensione fantastica, in cui il mondo di Pakai sembra lentamente riprendere vita attraverso il materializzarsi dei tantissimi avvenimenti raccontati da quell’ingente quantità di reperti esposti alla riverente ammirazione del pubblico. C’è da stupirsi, perciò, se improvvisamente nell’aria immobile di arcana attesa si immagina salire cristallina la voce di una fisarmonica? I tasti percorsi da mani invisibili sprigionano faville di note ora gioiose e trascinanti, ora tristi e malinconiche e struggenti, ma sempre nobilitate dal tocco inconfondibile del genio musicale di Pakai, e la musica si spande intorno, fluttua attraverso i lucernari spalancati, vola a posarsi sui prati e sui boschi circostanti, ascende alle cime dei monti e si affida al vento che la porterà negli spazi infiniti per riconsegnarla, perché no!, al suo interprete. Lasciamoci governare da queste innocenti illusioni e saliamo sul treno delle rivisitazioni: ogni “pezzo” della collezione rappresenterà una stazione in cui sostare per sentirsi raccontare una tappa della meravigliosa avventura umana ed artistica vissuta da Pakai, da Genesio, da Paolo e da Stefano, i quattro moschettieri del pentagramma che seppero elevare a dignità d’arte un genere di musica, quello popolare, prima di loro considerato figlio di un dio minore nell’universo della melodia.

Partiamo allora dalla nascita del “Trio”, ma prima voglio precisare che la scelta degli argomenti in trattazione dipenderà dagli agganci che la narrazione ci fornirà di volta in volta, dal momento che la nostra scorribanda nei tredici anni di attività del complesso seguirà percorsi dettati dalla casualità, assolutamente affrancati dalle rigide regole della cronologia. Avverto, inoltre, il grato obbligo di ringraziare le persone che si sono cortesemente prestate ad aiutarmi nella raccolta delle informazioni che sfruttato per tratteggiare, con sincera umiltà, la straordinaria esperienza umana e professionale vissuta  dal Trio Pakai : innanzitutto la signore Josette e Gina, sempre estremamente disponibili e cortesi; poi Genesio e Paolo, comprensivi e pazienti oltre qualsiasi aspettativa di fronte alla mia capillare…spremitura della loro memoria; ed infine Celestino Vezzi, autore del bel libro intitolato “Pakai, un om e la sô armoniche”, rivelatosi a più riprese una preziosa fonte di notizie e curiosità.

 

Il “Trio Pakai” vede ufficialmente la luce sul finire dell’anno 1972, ma Amato e Genesio avevano iniziato assieme la loro carriera di musicisti ben prima di quella data. Benché li dividessero ben sette anni d’età (Pakai, più giovane, era nato nel 1931), i due sono inseparabili: certo, li unisce strettamente un vincolo forte di amicizia, ma è soprattutto la passione per la musica che ne cementa l’intesa. Sotto questo aspetto, i due erano in sostanza degli autodidatti, oltre che dei formidabili orecchianti: Pakai si ingegnava già da ragazzino a cavare suoni dalla fisarmonica, accompagnando talvolta le esibizioni del vecchio Garibaldi e di Sandrìn, due autentici “padroni” del violino, i quali non tralasciavano occasione per incoraggiare la predisposizione musicale del loro precoce partner; Genesio aveva appreso i primi rudimenti del contrabbasso da suo padre, per poi approfondirne la conoscenza durante il periodo della naja, quando suonava nella fanfara militare (giacché siamo in argomento, anticipiamo che Paolo era andato da giovanissimo ad imparare musica dal maestro Vincenzo Deasini, per poi proseguire da solo nell’apprendimento della chitarra). Torniamo a Genesio e ad Amato e alle loro “uscite”. Partecipano a  qualche sagra, a qualche festa privata, ma obiettivamente è poca roba, giusto l’occasione per fare un po’ di baldoria con gli amici, accompagnati dalla trascinante voce della fisarmonica e dal baritonale accordo del contrabbasso. Le esigenze economiche, però,  che sono solite infischiarsi delle inclinazioni e dei desideri dell’uomo, mettono Pakai di fronte alla triste necessità  di preparare la magra valigia dell’emigrante e di andare a cercare fortuna all’estero,  lasciando della “Piccola Patria” quintali di rimpianti e nostalgia (chi sa se, anni dopo, egli ha composto “Anin varin fortune” avendo in mente proprio quei duri periodi trascorsi in terra straniera…). Nel 1949 lo troviamo in Francia dove lavora prima come camionista, poi addirittura come minatore. Amato resta nei territori d’oltralpe per un paio d’anni, poi si sposta in Lussemburgo, indi torna alle sue terre. Il 16 aprile 1955, nella parrocchiale di Cleulis, il  suo paese natale, conduce all’altare la sua amata Josette. Il Nostro ha ventiquattro anni e una gran voglia di piantare definitivamente le tende nei  cari luoghi che l’hanno visto nascere e crescere, ma quelle benedette necessità di bilancio domestico premono con immutata impellenza alla porta della sua famiglia, che nel giugno del 1956 si è ingrandita con il graditissimo arrivo di Gina, e così Pakai riparte per il Lussemburgo. A complicare maggiormente la situazione, in quel periodo Amato si ammala piuttosto seriamente e questa dura tegola lo costringe a ritornare con una certa urgenza a casa. Ma non basta: a causa delle sue condizioni di salute, egli è impossibilitato a svolgere ogni attività che comporti impegno fisico, compreso l’uso della sua adorata fisarmonica. Come Dio vuole, anche queste nuvole nere si diradano e Pakai risale lentamente la china della guarigione, fino a riguadagnare in pieno  il suo vigore e le sue capacità. Quei due anni scarsi di forzata inattività, comunque, gli sono serviti per riflettere su come impostare il suo futuro.

 “Basta con le trasferte all’estero – sembra dirsi – devo trovarmi un lavoro qui a casa, tra la mia gente e i miei monti, dov’é la mia vera vita!” Detto fatto, l’intraprendente giovanotto allestisce un servizio di autopubblica che agisce a Cleulis e nei paesi limitrofi. I risultati sembrano dargli ragione, il suo taxi lavora con soddisfacente frequenza e Pakai ormai libero dall’incubo dell’emigrazione, può finalmente dare concretezza al secondo scopo della sua esistenza, dopo la preoccupazione per il benessere della sua famiglia: suonare, suonare e suonare ogni qualvolta sia possibile, liberando la voglia di amicizia e di sana compagnia sul filo del divertimento e della giocondità.

A raccogliere il suo “richiamo della foresta”, accorre naturalmente l’amico del cuore, il compaesano Genesio. Ecco allora ricomporsi la coppia artistica tanto richiesta nelle sagre paesane, nelle feste private e nelle manifestazioni folkloristiche che si svolgono un po’ per ogni dove. In questo periodo, Amato e Genesio letteralmente imperversano, diventando un ghiotto intermezzo in numerosissimi spettacoli organizzati al di qua e al di là del confine. A loro si è frattanto unito Elvio Di Ronco, un chitarrista di Rivo. Si forma un trio che già nel nome tradisce l’inesauribile vena goliardica di Pakai e di Genesio: il nuovo complesso, infatti, si chiama “Das Trepolacs”, nome volutamente storpiato e dalla provenienza incerta, forse mutuato dal toponimo di una località austriaca visitata dai due compagnoni in occasione di alcune loro precedenti esibizioni. Ma il bello sta nel fatto che a chi chiedeva se quel nome significasse qualcosa, Pakai & Company rispondevano che derivava dalle loro origini di figli di polacchi!

E magari qualcuno ci cascava pure….

Il Trio dei…polacchi riscuote un buon successo ed è ovunque apprezzato. Dei tre musicisti carnici colpiscono soprattutto il calore umano e la grande capacità di trasmettere l’essenza musicale della loro terra attraverso le loro interpretazioni. Amato, Genesio ed Elvio portano brio e buonumore ovunque vadano; ci si accorge di loro anche fuori dal Friuli (nel 1966, ad esempio, vanno a suonare a Venezia, nell’ambito di una mostra dell’artigianato carnico) ed addirittura ottengono ospitalità sul secondo canale della Rai. Ma questo legame artistico è destinato a sciogliersi, a causa degli impegni di lavoro di Elvio che gli concedono sempre meno spazio da dedicare alle serate trascorse all’insegna del fare musica. I “Trepolacs” rimangono in due e dovrà trascorrere un anno prima che compaia all’orizzonte Paolo Morocutti, originario di Treppo Carnico, colui che entrerà nella leggenda del Trio Pakai, accanto ad Amato, a Genesio e più tardi a Stefano.

Il lettore più attento (sempre che questa modesta cronaca interessi a qualcuno…) non avrà dimenticato che all’inizio abbiamo indicato nel 1972 la data di nascita del Trio Pakai. E’ quindi giunto il momento di entrare nel vivo del racconto e concentrarci sull’esaltante cavalcata artistica di cui il Trio si rese protagonista nei tredici anni della sua esistenza.

Siamo nel giugno del 1972. Amato, Genesio e Paolo  raggiungono Radio Capodistria con la Corale di Arta Terme, per eseguire insieme il “Valzer popolare”, tema che avrebbe costituito la colonna sonora di un filmato d’intonazione turistica girato a Cabia e a San Pietro di Zuglio. Ad un certo punto, il tecnico del suono chiede di conoscere il nome del complesso. Disorientamento generale, i tre si guardano in faccia interdetti: come ci chiamiamo? Ma l’imbarazzo dura poco perché, dopo una veloce consultazione, il nome del gruppo è bello che coniato: il TRIO PAKAI! Paolo Morocutti ha descritto molto bene questo momento importantissimo della vita del Trio e sarà meglio lasciare la parola direttamente a lui:

 

“ Una domenica pomeriggio sono entrato nell’osteria di Amato per passare come al solito un momento in compagnia. Trovo Genesio e Amato che mi dicono: “Domani verresti con noi a fare una capatina a Capodistria?”. Non immaginavo di cosa si trattasse, avevo impegni di lavoro, ero stato colto un po’ di sorpresa…”Va bene, va bene andiamo.” Così l’indomani siamo partiti. Alle cinque del mattino ero nell’osteria dove Amato e Genesio facevano uno spuntino a base di salsiccia. Avevo però il problema del passaporto. “Già tutto risolto” mi rassicura Amato.

Infatti abbiamo preso la strada dell’Austria impiegando sette ore per arrivare, suonava mezzogiorno che siamo scesi dalla macchina. Non sapevo di preciso cosa andavo a fare. Davanti allo studio ci hanno chiesto “Avete gli strumenti?” In quel momento ho capito che dovevamo registrare. Non avevamo mai suonato assieme, non esisteva un programma, prove inesistenti. Ci hanno divisi e abbiamo cominciato con non poca preoccupazione. Ma la grinta di Amato ci ha coinvolti e abbiamo fatto un figurone. A quel punto bisognava dare i dati del complesso e così di getto è nato il nome del Trio Pakai. Proprio nello studio di Capodistria è avvenuta la svolta della mia vita, posso dire che in questi ultimi quindi anni mi sono pienamente realizzato; nemmeno programmando si riuscirebbe a passare nello stesso modo questi anni di vita.”

 

Ecco, questo era il Trio Pakai, questi erano i musicisti che lo incarnavano, questo era Pakai, l’anima e il motore della formazione musicale che lascerà una luminosa traccia indelebile, e tuttora insuperata, nella storia del folklore carnico.

 

L’esperienza di Capodistria costituisce il trampolino di lancio del Trio verso la notorietà, quella vera e consolidata negli anni. Negli studi di Radio Capodistria, infatti, Pakai e soci incidono anche il loro primo disco a 45 giri, comprendente i brani “Valzer popolare”, “Slovenska Polka”, “La Stajare” e “Mont da Sudri”. L’evento ha qualcosa di straordinario e colpisce profondamente, per adesso soprattutto in Carnia, la fantasia degli ammiratori dei  bravissimi artisti. Pensate: bastava inserire l’apposita monetina in una di quelle scintillanti macchine musicali gonfie di dischi, i famosi juke-box che strillavano canzoni e motivi strumentali a comando, per godersi a  piacimento gli exploits sonori dei propri beniamini! E il Trio Pakai, in una ideale classifica di ascolto, avrebbe stracciato qualsiasi concorrente…

L’accenno al disco ci fornisce l’appiglio per illustrare la produzione discografica del Trio Pakai, così come uscita dalle sale di registrazione. Il complesso musicale, con Stefano, ha inciso nella sua carriera cinque 45 giri, quattro long-playng e quattro musicassette: tutti pezzi in essi contenuti sono stati scritti, musicati e arrangiati dai componenti del Trio. Noi ci limiteremo a citare soltanto i titoli inclusi nei 4 LP, perché sono approssimativamente gli stessi che compaiono nelle altre incisioni.

 Nel 1976, poco prima che il terremoto devastasse il Friuli, viene lanciata sul mercato discografico, a cura della Casa “Anin varin fortune” di Nimis, la prima raccolta intitolata, ironia della sorte, proprio “Allegro Friuli”. Ne fanno parte: Fieste, Valzer popolare, La sunade di Santul Viti, Sul puint di Braulins, Mont da Sûdri, Come une volte, Slovenska polka, Allegro Friuli, Al tramont, La stajare, Fantasia slovena, Valzer di Pakai, Gioventût, Shueplatten. Il secondo LP, parimenti prodotto dalla Casa discografica di Nimis, esce nel 1977, sull’onda del grande successo ottenuto dal primo che risulta largamente venduto nonostante la gente avesse altro per la testa. La musica del Trio Pakai, evidentemente, costituisce un lenimento alle ferite fisiche e morali  di un popolo in ginocchio e trasmette un messaggio di speranza e di fiducia nel futuro che illustra al di là di mille parole quanto i suoi componenti sappiano toccare le corde del cuore di chi ascolta. Si trovano in questa seconda raccolta: Cence pinsîrs, Serenade dal pastôr, Anin varin fortune, Primavera in Carnia, La vous da mée valade, Gnocis, L’emigrant, La pesarina, Ricuars, La polke da mée int, Sul puint di Braulins e Sâgre in paîs. Il terzo 33 giri viene inciso nel 1979, sempre a Nimis e sempre sotto al competente guida tecnica di Eddy Croatto, ed esce con una copertina che è tutto un programma: sullo sfondo delle alte cime carniche un placido sanbernardo, che poi è il cane di Pakai, posa accosciato al centro di un prato, con una fisarmonica appesa al collo al posto della tradizionale botticella piena d’alcol! Questo LP propone: Fantastico Gaithal, Di matine, In chê dì da las mês nocios, Baronadis, Lignan, Ajar di fieste, Sere d’estât, Clâr di lune, Barbe Giuan, Amico valzer. L’ultimo LP, dal titolo “Gotis di ligrie”, viene prodotto nel 1982, questa volta negli studi d’incisione della Casa discografica “Promodisc” di Tarcento, e contiene: La paesane, Ce biele lune, Ligrie, L’âgo di Ludario, Ricuart di Parigi, Ultime serenade, Melodia slovena, Quatri rôsis, Storie di paîs, Cîl turchin. 

Quei tre buontemponi in camicia bianca e fiocco di pompon che sbuca dal colletto, gilet nero ricamato con motivi floreali, pantaloni neri alla zuava sopra morbidi calzettoni bianchi, sono i “portatori sani” di robuste dosi di allegria e di buonumore che nasce dalle loro esibizioni non di rado insaporite dall’esilarante contorno di trovate umoristiche, a volte ricercate ma più spesso casuali. Ricordate le elaborate scene di Pakai ogni volta che si apprestava ad aprire la fisarmonica, le sue contorsioni dirette a mimare chi sa quale terribile sforzo, quel suo repentino sollevarla ed abbassarla mentre suonava, come se si trovasse fra le mani un giocattolino? E le piroette che Genesio faceva eseguire al suo contrabbasso per divertire gli spettatori? Una volta, a Rauscedo, si sfiorò quasi l’infortunio fisico, a causa di questa gag, cui Genesio ricorreva frequentemente. Dunque, erano lì sul palco che suonavano e Genesio ogni tanto dava un colpetto al contrabbasso e lo faceva roteare, per poi riafferrarlo destramente e continuare l’esecuzione del pezzo senza perdere il filo del discorso musicale. All’ennesimo “virtuosismo”, lo strumento ha uno scarto malandrino e sfugge alla presa dell’aspirante giocoliere, che incespica e perde l’equilibrio.Si innesca  un irresistibile effetto-domino. Il contrabbasso rovina addosso a Pakai, questi cade e travolge Paolo al suo fianco: tutti lunghi distesi sul duro tavolato! Il ballo si blocca, mentre dalla pista decine di occhi sgranati per lo stupore fissano quel groviglio incredibile sul palco. E quei tre? In un istante sono in piedi, riprendono gli strumenti e ricominciano a suonare ridendo come matti, col chiaro intento di dare ad intendere che era stato tutto preordinato per regalare una razione extra di divertimento alla platea. Un’altra volta, nel pieno del concerto, Amato si accorge che Genesio sta suonando in “Fa”, mentre lui e Paolo suonavano in “La”. Senza smettere di far andare la fisarmonica, Pakai intima più volte sottovoce al suo compagno “Và in la, và in la”, riferendosi ovviamente alla nota musicale. Genesio non capisce e, ad ogni esortazione di Pakai, sposta il suo contrabbasso un po’ più in là. Risultato: spostamento dopo spostamento, suonatore e strumento finiscono giù dal palco. La musica si ferma e Genesio, inviperito, urla all’indirizzo di Amato che aveva le lacrime agli occhi per il gran ridere: “Ecco, adesso sarai contento, sono andato abbastanza in là?”.,

Sono soltanto due episodi, estratti a caso dagli scomparti della memoria, che sembrano i soliti  aneddoti simpatici, utili tutt’al più  per rafforzare l’immagine che Pakai, Genesio e Paolo si erano costruiti concerto dopo concerto: quella di consumati attori che recitavano uno spettacolo nello spettacolo; invece dimostrano, alla pari di tante e tante testimonianze del genere, quanto fosse forte l’intesa creatasi, anche sul piano umano, tra Pakai e gli altri del Trio, Stefano compreso. I loro rapporti vibravano di un legame di profondissima stima che era riuscita rapidamente a trasformare la comune passione per la musica in un collante capace di sublimare un sodalizio artistico al più alto livello di fraterna amicizia e affettuoso cameratismo. Non è, del resto, un caso che nel 1979 i quattro simpaticoni ricevano nientemeno che la Laurea honoris causa, loro concessa da un’improbabile “Confraternita delle Capelonghe” con la seguente motivazione: “per particolari meriti acquisiti nell’animazione del Villaggio Europa di Grado”. Bene, così a spanne, quanti lettori ricordano di complessi musicali ai cui componenti era stato conferito il dottorato in…briologia? 

Recuperiamo il filo del discorso strettamente legato alle vicende del complesso e ripartiamo da Radio Capodistria, nell’anno 1972. Qui, come si ricorderà, il neonato Trio Pakai ha registrato il suo primo 45 giri, lasciando un ottima impressione nel direttore artistico dell’Ente, il maestro Silic, il quale rimane tanto colpito dalla bravura, dalla versatilità, dalla carica di simpatia sprigionate dai tre menestrelli del folklore carnico da procurare loro una partecipazione in una importante manifestazione musicale di Isola d’Istria. Ma è in Carnia, nelle loro terre, che Amato, Genesio e Paolo vogliono sfondare, smentendo per una volta il pessimistico assunto del famoso detto evangelico secondo il quale nessuno è profeta in patria. Al ritorno da Capodistria, i nostri valenti strumentisti vengono a saper che la “Excelsior”, la celebre Casa produttrice di fisarmoniche, intende “arruolare” il Trio Pakai nella sua scuderia. Ciò significa che finalmente l’abilità professionale di Amato, Genesio e Paolo ha davvero trovato la giusta consacrazione e, cosa ancora più importante,  che da quel momento in avanti l’Excelsior si occuperà del percorso artistico della formazione,  procurandole scritture e supportandola in ogni fase delle sue esibizioni in Italia e all’estero. Il terzetto è al settimo cielo e sull’onda dell’entusiasmo viene deciso di festeggiare degnamente l’incisione del primo disco. Luogo prescelto per la prevedibile baldoria il bar di Amato, l’esercizio aperto anni prima sulle “Muses” di Cleulis (per inciso, tre anni fa il bar ha cambiato gestione, dopo un lungo periodo di chiusura, ma continua ugualmente a fregiarsi dell’insegna “da Pakai”: potenza della suggestione di un nome mitico!). Quel bar, ai tempi del Trio, era poco per volta diventato il centro d’incontro di giovani melomani di belle speranze, che ogni domenica si ritrovavano fianco a fianco sulle panche di legno del suo arredamento ed improvvisavano suonate di vario genere, traendo accordi dagli strumenti di proprietà oppure chiesti addirittura in prestito al gestore dell’ambiente. E non è a dire che quell’usanza fosse coltivata soltanto da ragazzotti del luogo: al contrario, facevano tappa al bar Pakai studenti di musica provenienti da posti lontani, accompagnati dai loro insegnanti, alcuni anche dai nomi prestigiosi come il professor Dal Cont, illustre concertista e fisarmonicista che tuttora insegna musica e fisarmonica al Conservatorio di Udine.

Verso la fine dell’estate di quello stesso 1972, la Casa Excelsior organizza un’altra festa nel bar di Pakai, con lo scopo di far incontrare il fisarmonicista di Cleulis con Peppino Principe, all’epoca considerato il miglior suonatore di fisarmonica del mondo. L’incontro è naturalmente cordiale e l’atmosfera rilassata e conviviale crea immediatamente un clima di affabilità. In particolare, colpisce la grande semplicità di Peppino Principe il quale, con grande signorilità, manifesta fin da subito la sua sincera stima professionale per Amato. Partendo da queste premesse, è facile pronosticare che tra i due nascerà presto una schietta amicizia che sfocerà qualche mese appresso in un gesto di squisita delicatezza da parte di Principe: egli regalerà a Pakai la sua prima fisarmonica di marca Excelsior e Pakai la conserverà sempre come una reliquia.

Il Trio Pakai si avvia  ormai a diventare la stella polare nel cielo del folk friulano e non meraviglia affatto che la sua presenza sia reclamata da importanti e prestigiosi palcoscenici. Sono gli anni in cui Amato e i suoi due sodali trascorrono, si può dire, più tempo in giro che a casa, con le famiglie. Praticamente, non fanno in tempo a rilassarsi dalle fatiche di una serata che subito un’altra reclama la loro partecipazione, con un ritmo di spostamenti che ha del frenetico. Registrare tutte le loro “uscite” sarebbe impossibile, ovviamente, ed allora ci limiteremo a citarne qualcuna scelta tra le più significative, in Italia e nel mondo, prendendo lo spunto dalle foto e dagli attestati di merito presenti nel museo.

La 6° Sagra della Quaglia, svoltasi nel settembre del 1972 a Santa Maria Nuova (Ancona), annovera il Trio Pakai tra i protagonisti di uno spettacolo di arte varia presentato da Pippo Baudo, che quell’anno aveva spopolato in TV con “Canzonissima”. Esattamente un anno dopo, troviamo i tre concertisti alla Parata Folkloristica Internazionale organizzata a Sacile in occasione della 700° “Sagra dei Osei (1274/1973)”. Nel 1975, il Trio  interviene alla Rassegna del Folklore di Cima Sappada, ospiti di un complesso musicale del posto. Nello stesso anno suona al “Picchio Rosso” di Priola, all’interno di una serata dedicata all’ascolto delle canzoni di Wess, nell’occasione “orfano” di Dori Grezzi. Sempre nel 1975, Amato, Genesio e Paolo forniscono un saggio della loro valentìa artistica a Passariano, nella Villa Manin, invitati in qualità di ospiti d’onore ad un concerto di Peppino Principe: una bellissima foto li ritrae in primo piano avendo alle spalle schierati i “ballerini di Riviere” di Tarcento. L’esibizione fornita al castello di Villalta di Fagagna del 1976 è rimasta impressa perché ogni tanto qualche lieve scossa faceva riaffiorare l’incubo del recente terremoto ed anche per un gustoso fatterello accaduto durante la giornata. Il Trio era stato invitato a suonare in un matrimonio in cui gli intervenuti, dal primo all’ultimo, vestivano i costumi della tradizione friulana. Verso mezzogiorno, quando sembrava che tutti fossero in  attesa di dare il via alla festa, Pakai, alquanto spazientito, si volge ad un signore attempato al suo fianco e gli fa: “Ma questi sposi quando arrivano?”  L’ometto lo fissa sbigottito, poi risponde con voce bassa: “Gli sposi siamo noi”, indicando una donna decisamente più giovane accanto a lui. Credete che Pakai si mostrasse almeno un tantinello imbarazzato? Macché: una risata contagiosa, una pacca sulla spalla dello sconcertato sposino (il quale, come si seppe in seguito, era già al secondo matrimonio) e via con la musica. Nel giro di un minuto tutta la sala sgambettava allegramente sulle note indiavolate di una polka e l’imbarazzante intermezzo era già stato dimenticato.

Il 1977 si apre con la partecipazione del Trio al 5° Festival internazionale della canzone per bambini, superbamente allestito a Cividale del Friuli: anche qui Amato, Genesio, Paolo e Stefano allietano gli spettatori regalando  il fresco sapore del folklore carnico. Nel maggio successivo sono a Villach, in Austria, nell’ambito della settimana gastronomica friulana e a metà estate li troviamo alla “Cà del liscio” di Ravenna, mentre fanno da spalla all’orchestra Casadei con l’altro gruppo folkloristico di Aviano. Nel mese di Novembre, il Trio é impegnato nel Festival della canzone friulana al Palasport di Udine. Nel bel mezzo della manifestazione, uno spirito burlone sale sul palco e lascia una bottiglia di vino accanto a Pakai. Poiché nessuno dei quattro si decideva a stapparla, dal pubblico comincia a salire qualche invito isolato che in breve tempo diventa un ordine collettivo: bevete, bevete! Si poteva restare insensibili all’appassionata supplica di un teatro intero? No, che non si poteva: perciò Amato e Genesio fanno spicciativamente fuori la bottiglia e tanti saluti. Nel maggio del 1979, il “Fogolar furlan” di Cremona conferisce al Trio Pakai il diploma d’onore quale ringraziamento per il costante interessamento a favore dell’Associazione friulana di Cremona. In quella occasione Paolo era assente, e così toccò a Stefano sostituirlo alla chitarra ed intanto cantare.

 Questa scarna elencazione è propedeutica al resoconto, ridotto all’essenziale, dei viaggi all’estero affrontati dal Trio Pakai. Dopo aver detto che esso fece conoscere la sua musica a Parigi (per ben cinque volte), al Teatro del Parlamento di Bruxelles, nel Lussemburgo, a Berna, a Zurigo, a Basilea, a Ginevra, in Jugoslavia e in Germania, gettiamo un’occhiata più approfondita sulle tournées che Amato e i suoi collaboratori effettuarono oltre Atlantico.

Si comincia nel 1974, in Canada. Gli ambasciatori musicali della Carnia volano alla volta dell’immenso Paese nordamericano dietro invito dell’Ente Friuli nel Mondo e fanno tappa iniziale  a Montreal. Da qui raggiungono Ottawa per partecipare al 1° congresso dei “Fogolars furlan”, durante il quale Genesio incontra i parenti americani di Cleulis residenti a Filadelfia: affettuosi convenevoli reciproci e l’invito, naturalmente esteso all’intero gruppo e prontamente accettato, di esibirsi in un immediato futuro nella grande città della Pennsylvania. Da Ottawa il Trio si sposta a Windsor, cittadina canadese posta sulla sponda orientale del fiume Detroit. Sulla sponda opposta, invece, sorge la metropoli statunitense che porta lo stesso nome del fiume ed è lì che i nostri tre viaggiatori approdano per inaugurarvi il locale “Fogolar furlan”, alla presenza del sindaco e dell’ambasciatore italiano. Il giorno dopo partenza per Filadelfia. L’accoglienza è splendida e il Trio se la gode per tre o quattro giorni, dispensando musica ed emozioni ai commossi e nostalgici figli di Carnia infinitamente distanti dai loro amati luoghi natii. L’ultima applauditissima esibizione ha luogo a Toronto, all’Italo Canadian Club, gremito di friulani elettrizzati per l’arrivo dei tanto vantati musicisti loro corregionali. Pakai, Genesio e Stefano ricorrono a tutta la loro bravura e riescono a regalare ai presenti l’incommensurabile illusione di ritrovarsi per un lunghissimo, dolce momento nelle piazze dei loro paesi.

L’anno successivo, siamo quindi nel 1975, è la “Famee Furlane” a sollecitare la loro presenza a Montreal, in occasione di un dibattito intitolato “Friuli folklorame”, incentrato sui molteplici aspetti della realtà friulana, dagli usi ai costumi alla lingua. E naturalmente alla musica, di cui il Trio è interprete eccelso. La serata trascorre piacevolmente, immersa in un’atmosfera che esalta i buoni sentimenti ed invita al divertimento semplice e sano, cullato da un fiume di note che rievocano nei presenti paesaggi lontani e sensazioni credute ormai sopite. Tra i tanti ospiti interessanti, spiccano personalità della cultura come padre David Maria Turoldo, e rappresentanti di etnie ormai quasi rare, come gli indiani discendenti dalla vecchia tribù degli Uroni. Dopo Montreal, il Trio Pakai vola a deliziare con le sue esecuzioni i friulani residenti a Toronto, quindi rivolge…le vele verso i patrii lidi.

Il 1976 segna l’importantissimo ingresso nel gruppo  di Stefano Paletti, conosciuto ed ascoltato durante una serata a Resia. Ci racconta i particolari dell’evento lo stesso Stefano:

“ Una sera il Trio Pakai suonava in una sagra a Resia. Era presente anche un mio amico emigrato a Parigi di nome Stefano, come me, che aveva passione per la fisarmonica. Durante una pausa aveva chiesto di poter eseguire un brano: io stavo ballando e questo Stefano, sapendo della mia passione per il canto, mi chiama sul palco. Non avevo molta voglia di salire sul palco, mi vergognavo anche, non che non mi avesse fatto piacere, ma nutrivo un po’ di riguardo. Paolo, che non era lontano, mi chiede: “Sei capace di cantare? E allora sali senza problemi!” E così è avvenuto. Sarà stata mezzanotte, mezzanotte e mezzo. Amato, che si stava dirigendo verso il chiosco, mi sente cantare e torna sui suoi passi. “Voglio accompagnarlo io”, dice. La musica che doveva finire all’una è proseguita fino oltre le quattro del mattino. Ci siamo incontrati quasi per caso, loro io li conoscevo già di fama, avevano inciso dischi, erano famosi, era un gruppo noto. Non avrei mai pensato di far parte, un giorno, di questo gruppo.

Due mesi dopo Amato e Paolo sono venuti a cercarmi in casa: “Stefano, vuoi venire in Canada?” “Addirittura!”, ho esclamato. Insomma mi pareva una cosa impegnativa, abbiamo fatto qualche prova, abbiamo suonato insieme e così la mia avventura con il Trio Pakai è iniziata in Canada.”

Tutto esatto. Era successo che il comitato organizzatore dei festeggiamenti di fine anno del “Fogolar furlan” di Toronto aveva invitato il Trio Pakai a ritornare in Canada, per allietare con la sua musica la notte di San Silvestro.

 “Non avreste, per caso, da portare con voi anche un cantante?” chiedono a Paolo gli amici canadesi. Paolo ci pensa un po’ su, poi ricorda quel giovanotto di Resia che ha una gran bella voce.

“Proviamo a convincerlo a venire con noi a Toronto?”, si interrogano lui e Amato. Per saperlo non c’è che un modo: andare a chiederglielo direttamente a casa. Detto fatto, Pakai e Paolo partono per Resia, bussano alla porta di Stefano e si trovano ad affrontare le apprensioni di un’allarmata signora, la mamma del futuro cantante, che chiede preoccupata: “Mio figlio non c’é. Siete venuti a portarlo fuori?”. Tacitati gli ingiustificati timori della signora, i due rintracciano  Stefano e riescono a convincerlo ad aggregarsi al Trio. Da quel momento il gruppo, fino ad allora esclusivamente strumentale, acquista l’elemento mancante, cioè un solista canoro, che rafforzerà l’immagine vincente della formazione sul piano della completezza artistica. Con la sua voce piena ed armoniosa, Stefano saprà rivestire di suggestivi suoni le soavi impressioni ricavate dai loro inarrivabili strumenti da Amato, Genesio e Paolo, arricchendo  il Trio di un prezioso valore aggiunto.

Anno 1979 e quarta trasferta in Canada. Questa volta il Trio, con Stefano, si reca a Vancouver, per suonare al congresso dei “Fogolars” che si teneva con cadenza biennale. Terminato il congresso, i quattro infaticabili amici si imbarcano in un’avventura che si adatta perfettamente all’aspetto del loro carattere sempre aperto alle novità: per cinque giorni scorrazzano su e giù per le Montagne Rocciose in compagnia di undici pullman di friulani elettrizzati ed euforici. E non avevano neanche il fastidio di procurarsi  vitto e alloggio, perché ad ogni sosta trovavano una comunità friulana che li colmava di attenzioni e di coccole…

Prima di rientrare in Italia, il Trio porta il saluto della Patria lontana ai corregionali di Toronto, mietendo la consueta messe di caloroso successo.

Il Trio Pakai ritornerà altre due volte in Canada, nel 1989 e nel 1991, ma Amato non sarà con loro: un destino crudele l’ha strappato  qualche anno prima ai suoi cari, ai suoi fraterni amici, alla sterminata massa di ammiratori che hanno imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo ascoltando la sua caratteristica musica.

Ed anche in occasione della tournée in Sud Africa, effettuata nel 1984, Pakai è costretto a dichiarare forfait a causa delle sue cagionevoli condizioni di salute. Il Trio era stato invitato a Johannesburg dal “Fogolar furlan” del posto ed aveva accettato l’invito, confermando la presenza di tutti e quattro, nella fiduciosa convinzione che le notevoli doti di recupero di Amato avrebbero ancora una volta avuto la meglio sulle insidie della malattia, così come era successo l’anno prima. Ma stavolta le speranze vanno deluse e Amato deve malinconicamente accontentarsi di accompagnare i suoi amici solo fino alla stazione di Carnia, da dove li vede partire con le lacrime agli occhi. Lo sostituisce per l’occasione Ezio Teon, un bravo fisarmonicista della zona. Giunto a Johannesburg, il Trio diventa l’attrazione di una serata di gala organizzata all’Hotel Cortina dagli entusiasti friulani residenti nella capitale del Transvaal. Fra gli ospiti di riguardo, c’è anche l’ambasciatore italiano, nativo di Napoli, ed in suo onore Stefano, Genesio, Paolo e Ezio eseguono la canzone partenopea sicuramente più famosa al mondo:  «‘O sole mio». Un tripudio di applausi saluta l’esecuzione di un pezzo non certamente inserito nel repertorio usuale del complesso (più avanti, comunque, scopriremo che il Trio Pakai non era nuovo a “pensate” del genere). Da Johannesburg a Città del Capo con visita ad una grande cimitero della seconda guerra mondiale, poi nella tenuta agricola di Milrast, dove sono stati anche Gianni Agnelli ed il ministro Altissimo (ci sono le firme sul registro degli ospiti) e dove Paolo trova un enologo di Portogruaro che va regolarmente in ferie a Treppo Carnico, il  suo paese. Seguono altre esibizioni a Durbhan e Ugomaz, poi di nuovo a Johannesburg, dove si tolgono la curiosità di visitare le miniere d’oro, scendendo a oltre 1400 metri di profondità. Un concerto d’addio e poi il Trio riparte per l’Italia.

Un’ultima cosa, a proposito delle tournées effettuate all’estero: ma come si facevano capire, Pakai e gli altri, quando accadeva che dovessero comunicare con persone che non comprendevano l’italiano? Genesio ha rivelato un sapido retroscena che svela in gran parte l’arcano:

 

“Per il mondo non sempre ci si capiva con la lingua e spesso per il mangiare era un problema, in quanto ci portavano cose diverse di ciò che pensavamo di aver richiesto.

“Sono stanco di mangiare porcherie!” ho detto un bel giorno.

“Ci penso io” dice Amato.

Così una volta in Canada si è fatto portare una bistecca con un’abbondante  fornitura di patate fritte. Proprio un bel pasto all’italiana. Poi ha preso la Polaroid (che aveva sempre con sé) ed ha fotografato per bene il piatto.

“Ecco fatto! D’ora in poi non moriremo più di fame! Mangeremo sempre all’italiana ovunque andremo”.

E così è avvenuto. Infatti ovunque andassimo faceva vedere la fotografia e ci portavano quanto in esso ritratto.”

 

Non c’è niente da fare, la nostra ingegnosità italiana aiuta sempre (o quasi…).

Dicevamo che in Sud Africa il Trio aveva proposto una riuscita versione di «’O sole mio». Ebbene, non era la prima volta che gli artisti nati in Alta Carnia si cimentavano con il dialetto napoletano. Era già successo in Austria, a Hermagor. I quattro erano andati nella ridente località carinziana ad assistere allo svolgimento di un concorso di musica folkloristica che si teneva nella Sala dei Convegni del municipio. Siamo in un cittadina a pochi chilometri dall’Italia, da Timau e Cleulis, perciò è logico che la loro presenza non passi inosservata: di qui l’invito a suonare qualcosa al termine del concorso, giusto quattro note in allegria tra amici. Senza alcuna preparazione, Amato and friends si esibiscono due pezzi, vanno dagli organizzatori per accomiatarsi, ma si sentono dire, con loro grande sorpresa, che si sono classificati al secondo posto nella gara musicale! A questo punto,  nel rispetto del cerimoniale, dovranno essere  eseguiti altri due motivi. Veloce consultazione e Stefano, d’accordo con Paolo, decide di cantare anche «‘O sole mio». E’ l’apoteosi, scroscia un subisso di applausi da parte degli spettatori tutti in piedi. Ma non è tutto: al termine della manifestazione, mentre i complessi partecipanti si avviano verso l’uscita, gli spettatori iniziano a gran voce a reclamare la presenza sul palco degli “italienish”. I quali non si fanno pregare e, da soli, intrattengono l’uditorio per una mezz’ora almeno, guadagnandosi bordate di battimani da inorgoglire chiunque.

E quella volta che i giapponesi volevano sentire “Funiculì funiculà”? Nel 1984, prima di partire per il Sud Africa, i componenti del Trio Pakai erano stati contattati dal direttore dell’Ente Friuli nel mondo: se la sentivano di recarsi a Osaka, in Giappone, ed esibirsi 4 ore al giorno, per 16 giorni, in un supermercato della città che esponeva prodotti friulani? “Se ne può discutere”, risponde Pakai, e qualche giorno dopo i quattro musicanti incontrano all’aeroporto di Ronchi dei Legionari un emissario giapponese, con il quale stipulano un contratto verbale di massima. Trascorre un mese ed arriva la piccola delusione: niente da fare, tutto cancellato, gli organizzatori della manifestazione  non avevano trovato l’accordo con la Cooperativa fornitrice dei prodotti friulani. A Osaka, tuttavia, avevano ascoltato alcune incisioni del Trio, portate dall’emissario arrivato a Ronchi, e ne erano rimasti entusiasti. Sarebbe  possibile –chiedono i giapponesi-  avere altri dischi o cassette del Trio Pakai, magari comprendenti anche “Funiculì funiculà”? Non sappiamo se il loro desiderio sia stato esaudito, ma ne dubitiamo fortemente.

Abbiamo già detto che i membri del Trio Pakai amavano trasformarsi in estemporanei attori brillanti, ricorrendo spesso a trovate umoristiche che avevano lo scopo di divertire gli spettatori. C’è stata un’occasione, tuttavia, in cui essi hanno recitato da veri attori, in una vera pellicola cinematografica.. E’ successo nel 1980, durante la lavorazione del film “Maria Zef” di Vittorio Cottafavi, recitato interamente in friulano. Il Trio è incaricato di scriverne la colonna sonora. Nasce “Cuatri rôsis”, una bella canzone che i quattro eseguono in una scena del film, seduti davanti ad un “fogolar” che troneggia al centro di una tipica cucina carnica ricostruita sul set di Pavia di Udine. Nella loro breve apparizione, Amato e gli altri hanno un’aria seria e compunta, ma volete sapere quante ne combinarono a riflettori spenti? Ce lo raccontano Paolo e Genesio:

“Nel filmato non è emersa la nostra allegria, il nostro brio. Il copione prevedeva di cantare solo un pezzo della canzone “Quatri rôsis”; noi l’abbiamo musicata e alla fine l’abbiamo proposta intera. Terminate le riprese, è stata organizzata una festicciola. Genesio aveva il compito di mescere il vino: ha preso una grossa damigiana e l’ha portata nel cortile dove avevamo registrato alcune scene. Così è iniziata la festa. Le riprese erano finite alle undici del mattino, alle otto di sera eravamo ancora lì. Siamo giunti a casa alle undici di notte. (…) Per tagliare il formaggio non c’era neppure un coltello e allora Amato ha sistemato per bene la forma su un ceppo e, con un’accetta recuperata nelle vicinanze, l’ha tagliata in quattro parti. Quelli di Trieste non si trattenevano dalle risate, abbiamo suonato a lungo per la troupe del film. Ci hanno poi portato a Pavia di Udine e anche lì abbiamo fatto commedia.”

Nel quadriennio 1982-1985, le partecipazioni del Trio cominciano a privilegiare più la qualità che la quantità, quasi che un oscuro presagio pervadesse confusamente le coscienze di Pakai e dei suoi soci. Alla fine del 1982, la formazione musicale compare, insieme con l’Onoranda Compagnia dei Cantori di Cercivento, nel breve filmato “ Il Nadalìn”, un documentario girato dalla sede RAI regionale sulle tradizioni carniche nel periodo invernale.

Nel giugno del 1983 Amato è colpito da una paresi che lo confina a letto per un lungo periodo e gli impedisce di prendere in mano la fisarmonica. Seguono mesi terribili, penosi, di scoramento totale. I suoi fraterni amici tentano di mascherare in tutte le maniere la loro afflizione e fanno sentire come meglio non si potrebbe la loro affettuosa vicinanza al caro compagno in angustie fisiche e morali: si affannano a fingere che in fondo non è successo nulla di irrimediabile, che si tratta soltanto di un momento transitorio di difficoltà, che presto Amato tornerà alla sua vita di sempre, gagliardo ed infaticabile come non mai….insomma, non tralasciano nulla per donare un po’ di sollievo al loro valoroso condottiero ancora una volta bersagliato dalla sfortuna. Se Pakai, però, deve soggiacere alla triste condizione di infermo, non per questo il mito del Trio si appanna. Prova ne sia il prestigioso riconoscimento del “Moret d’aur” assegnato in dicembre al formidabile complesso dalla stampa friulana perché esso rappresenta la “genuina espressione del folklore carnico”. Amato non si dà per vinto, non vuole cedere alla malattia, soprattutto non intende rinunciare per sempre a sentire sotto il tocco delle dita i tasti della sua adorata fisarmonica. Lotta, si allena con caparbietà al limite dell’autolesionismo, profonde tutte le sue energie nello sforzo di riacquistare un minimo di manualità e così nel 1985 sembra che il miracolo, o perlomeno un mezzo miracolo, si sia verificato. Nel mese maggio interviene con il suo Trio alla trasmissione “Caric e briscule”, condotta su Telefriuli da Dario Zampa.

Nello stesso periodo suona al Mulin di Marchet, nell’ambito di una manifestazione patrocinata da Radio  Onde Furlane. A giugno, nel cinema Daniel di Paluzza, i giovani del gruppo “Chei di chenti” consegnano ai quattro artefici del Trio Pakai un pubblico riconoscimento per la loro encomiabile carriera. Certo, in queste esecuzioni si nota che Amato non é al meglio della sua forma, ma la luce della fierezza e della soddisfazione che traspare dai suoi occhi relegano in un angolino buio e lontano tutte le riserve che si potrebbero avanzare sulla bontà artistica delle prove fornite. Il 5 agosto Pakai partecipa alla tradizionale sagra dei “cjarsons” di Cleulis, il 31 agosto  improvvisa con Genesio un duetto nel suo bar: la speranza in una prodigiosa ripresa fisica comincia a balenare…ma l’inflessibile ruota del destino ha già iniziato il suo ultimo giro.

Il 20 settembre 1985 Amato Matiz, il grande ed indimenticabile Pakai, prende la sua fisarmonica e se ne va a rallegrare le giornate fatte d’eternità delle folte schiere di friulani che lo accolgono a braccia ed ali aperte in un mondo certamente migliore del nostro.

Genesio, Paolo e Stefano, orfani del loro faro, tenteranno in seguito di  mantenere vivo un gruppo musicale ormai circonfuso in un alone di leggenda, ma si renderanno ben presto conto che senza Pakai il Trio non è la stessa cosa. Manca quel pizzico di polvere magica che rendeva speciale  ogni serata, ogni incisione, ogni esibizione.

Parafrasando Orwell, possiamo concludere affermando che tutti i rappresentanti del Trio Pakai furono uguali, ma che Pakai fu più uguale degli altri.

 

La nostra modesta fatica termina qui. Abbiamo sbirciato nei tredici anni d’oro del Trio Pakai e ne abbiamo fissato le tappe principali sulla carta. Nel farlo, ci siamo lasciati portare dal flusso della narrazione senza rispettare la progressione temporale degli avvenimenti citati, saltabeccando da un anno all’altro, anticipando alcune situazioni e riportandoci su altre toccate in precedenza e temporaneamente accantonate, per svilupparle con maggiore approfondimento. Forse il paragone potrebbe suonare irriverente, ma in qualche modo ci siamo uniformati a quegli schiribizzi di sana “pazzia” che coglievano ogni tanto Pakai e gli altri esecutori del Trio, quando estraevano dai loro strumenti musica in libertà, seguendo l’estro del momento in maniera soggettiva, sciolta e gioiosa, da artisti veri e felici di esserlo.    

 

 

 

Rocco Tedino  

 

 

 

 

  

 

 

      

 

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20 febbraio 2012 1 20 /02 /febbraio /2012 09:26

L’alba grigia accompagna un triste corteo in marcia su una strada sterrata in mezzo ai campi. Il silenzio profondo, denso di attesa, quasi presago della tragedia che sta per consumarsi, è rotto soltanto dal risuonare sordo dei passi pesanti di un ufficiale e di un plotone di soldati che scortano quattro alpini dallo sguardo smarrito, incredulo. Li segue un sacerdote assorto nel suo sommesso salmodiare. Poi, le azioni si sveltiscono. I quattro si allineano davanti ad un muro. Di fronte, a breve distanza, i loro colleghi si dispongono su due file, di cui la prima in ginocchio. L’aria è frustata da un ordine cui risponde l’eco metallico di dodici otturatori che scattano ad inserire una pallottola nel fucile. Un pausa breve quanto il soffio di un sospiro doloroso  e un secondo ordine risuona rauco, immediatamente seguito dal fragore di una scarica. Quando il fracasso si spegne nella campagna immobile, quattro corpi giacciono a terra, irrigiditi nella morte.  

Gaetano Silvio Ortis, Basilio Matiz, Giovanni Battista Coradazzi, Angelo Massaro: il 1° luglio del 1916 furono falciati da un plotone di esecuzione in un prato adiacente il cimitero  di Cercivento.. La loro colpa? Essersi rifiutati, insieme con altri settantasei loro commilitoni della 109° Compagnia -Battaglione “Monte Arvenis”- di andare all’assalto, il precedente 23 giugno,  di una munitissima postazione austriaca dello Zellonkofel (ovvero: Monte Cellon, Creta di Collinetta, Frischnkofel) perché, a loro parere, l’attacco, così come concepito dall’ufficiale comandante, era destinato al completo insuccesso, con conseguente, inevitabile massacro degli incursori. I quattro, e lo stesso dicasi la maggior parte dei loro colleghi, conoscevano a menadito la zona di operazioni. Avevano fatto presente al comandante che il piano di combattimento elaborato a tavolino equivaleva a sicuro suicidio e loro non se la sentivano di buttarsi allo sbaraglio, senza praticamente alcuna possibilità di riportare a casa la pelle intatta. Che si studiasse un’altra strategia e nessuno si sarebbe tirato indietro, al momento di uscire dalle proprie trincee per catapultarsi contro il nemico.

Tutto quello che ottennero gli ottanta “ammutinati”, invece, fu l’immediata traduzione di fronte al Tribunale straordinario di guerra il quale, in capo a circa due giorni di dibattito, condannò gli imputati a pene di vario genere: ventinove di loro avrebbero dovuto scontare periodi differenti di detenzione in  un carcere militare; i quattro alpini citati in apertura, eletti a capri espiatori, furono passati per le armi a sentenza ancora “calda”. I rimanenti quarantasette, degli ottanta perseguiti, furono assolti per non aver commesso il fatto.

Negli anni ’70, ad opera di un congiunto di Ortis, fu posto in atto un primo tentativo mirato ad ottenere la revisione del processo. L’intento, però, fu frustrato dall’esistenza di un articolo nel Codice penale militare. Esso stabiliva che il ricorso contro una sentenza emessa dai giudici in divisa poteva essere discusso soltanto se detto ricorso fosse stato presentato dal condannato. Uniformandosi al dispositivo di questa norma, la richiesta di revisione del processo fu respinta, con la motivazione che non era stata avanzata personalmente dal caporale Ortis Silvio  (ma ci fu  qualcuno, tra i giudici dell’epoca, in grado di percepire la tragica comicità di una situazione che definire paradossale era altamente riduttivo?). I quattro fucilati di Cercivento, dunque, continuarono a sopportare il macigno di un’accusa infamante.

E’ vero, essi avevano rifiutato di eseguire l’ordine impartito da un superiore (e poco contava, agli effetti del Codice Penale militare, che quell’ordine fosse folle e criminale nel suo disprezzo per la vita umana, poiché in nessun esercito, massimamente in tempo di guerra, i subordinati  possono permettersi eseguire soltanto gli ordini che essi ritengono sensati), ma non era questo l’aspetto che si voleva prevalente nella richiesta di revisione del processo. Il promotore dell’iniziativa sperava che il nuovo dibattimento dimostrasse oltre ogni dubbio che i quattro sventurati erano stati mossi, nella loro ribellione, da un sincero desiderio di limitare le perdite tra gli attaccanti e ciò sarebbe stato possibile solo modificando il piano d’assalto. Non viltà, quindi, né vituperevole atto di bieca insubordinazione avevano indotto i rivoltosi a rifiutarsi di andare quasi sicuramente a morire per assecondare i vaneggiamenti strategici di un ufficiale incompetente: Ortis, Matiz, Coradazzi e Massaro avevano tentato di convincere il comandante a seguire i loro suggerimenti perché la conoscenza che avevano di quelle montagne avrebbe permesso loro di poter indicare un percorso diverso da quello prescelto. Questa  variazione apportata al piano originario  avrebbe contribuito a salvare un numero rilevante di militari: non valeva dunque la pena di ascoltare i suggerimenti avanzati? Ed invece la generosa iniziativa dei quattro alpini fu considerata, nell’ottica miope del rispetto a tutti i costi del codice militare, un tentativo di scansare le conseguenze di un assalto che si prevedeva altamente cruento. Non dimentichiamo, del resto, in quanto poco conto gli alti Comandi, a cominciare dal generale comandante in capo, tenessero la vita degli uomini loro affidati, considerato che decimazioni e le fucilazioni, anche per futili motivi, si susseguivano con sconvolgente frequenza. Gli sventurati alpini non riuscirono a far valere i veri motivi del loro “ammutinamento”  e pagarono con la vita quel nobile sforzo inteso a porre al servizio del buonsenso e del cameratismo le loro profonde conoscenze dei luoghi teatro dell’imminente azione bellica.

Dall’intenzione  di riabilitare il nome di quei militari era sicuramente animato l’on. Ignazio La Russa, il ministro della Difesa dell’epoca, allorché  aveva presentato, alla Corte militare d’appello, istanza di revisione del vecchio processo, secondo una notizia contenuta in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” a firma di Alberto Melloni. Ma il “pezzo” giornalistico aveva anche rivelato che la richiesta di revisione era stata rigettata dai giudici della Corte d’appello, in quanto, a loro dire,

 “...non erano state proposte nuove prove, sopravvenute alla condanna che sole, o unite a quelle già valutate, dimostrassero che i condannati dovevano essere prosciolti...”.

Gaetano Silvio Ortis, Basilio Matiz, Giovanni Battista Coradazzi, Angelo Massaro: quattro uomini responsabili, quattro soldati uccisi dall’insensatezza di certe regole e dalla nefasta presunzione di comandanti inadeguati alle tremende responsabilità loro affidate.   All’indomani della loro esecuzione, giunse la grazia concessa dalla Regina. Ma loro erano già morti: i giudici, cui interessava soltanto di “dare l’esempio”, non avevano ritenuto opportuno attendere l’esito di un’iniziativa che avrebbe potuto salvare i condannati, come difatti avvenne. E così si consumò l’ennesimo atto di giustizia iniqua ed ingiusta di cui son piene le cronache di quell’orrendo carnaio che fu la prima guerra mondiale.

Addio, ragazzi. I testimoni oculari del vostro martirio raccontarono poi che non tremaste di fronte alla morte.. Sapeste morire da uomini forti, così come da uomini forti eravate vissuti.

Riposate in pace.

 

Rocco Tedino

 

      

 

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16 febbraio 2012 4 16 /02 /febbraio /2012 17:05

 

2011-12-24 19.08.00

 

Il sole del mattino tenta con impegno di riscaldare le case del paese, strette l’una all’altra per proteggersi più efficacemente dal freddo invernale, ed intanto buca la leggera foschia stesa nell’aria, sfilacciandola col progressivo vigore dei suoi raggi. Le lampade accese all’interno di un bar attraggono un avventore che ha appena ritirato un giornale dal mucchio posato davanti all’edicola ancora chiusa, una finestra sbadiglia spalancandosi sulla piazza silenziosa, un furgoncino raccoglie due operai infreddoliti che lo stavano attendendo sotto le arcate del Municipio. L’eco di un latrato svanisce nel rombo di una macchina che passa veloce, i rumori della vita che riprende si fanno sempre più distinti: inizia un’altra giornata di lavoro per Paluzza e i suoi mattinieri abitanti. Novembre si accinge ad accomiatarsi col suo repertorio di corte giornate grigie e di paesaggi spogli. Si avvicina a grandi passi dicembre, vestito di luci e di magia del Natale, e la "Buteghe da Coperative", al pari di qualsiasi altra attività commerciale del paese, vive giornate intense e a tratti frenetiche, tutte dedicate alla ricerca di idee originali che mettano in evidenza i prodotti destinati alla vendita, il cui quantitativo da sistemare con effetto allettante negli scaffali e nelle vetrine si moltiplica in prossimità delle feste. La giornata che sta per iniziare richiederà un impegno supplementare perché è previsto l’arrivo di due camion dei fornitori settimanali e ciò significa che Mauro Unfer e il suo stato maggiore di leggiadre collaboratrici avranno pochi momenti per tirare il fiato.

Lo abbiamo appena nominato ed eccolo qui, Mauro, che apre il negozio, precedendo di circa mezz’ora l’entrata in azione delle signore addette a far marciare la complessa macchina del supermarket, oliandola con la grazia del comportamento e la competenza professionale. Mauro accende le luci, avvia i computer, stabilisce il collegamento con la cassa, poi si dedica alla preparazione degli ordini più urgenti. I suoi movimenti denotano la meccanica disinvoltura della lunga pratica, ma l’attenzione, soprattutto al momento di ripristinare i collegamenti tra cassa e computer, è sempre vigile perché un passaggio sbagliato, anche se di relativa gravità, potrebbe costare tempo prezioso da dedicare al ripristino delle procedure esatte.

A questo punto diamoci un tantinello di arie e ricorriamo al "flash-back", come talora fanno gli sceneggiatori del cinema o della televisione.

Mauro Unfer nasce nel 1959 e a diciannove anni, al termine degli studi superiori sostenuti a Pordenone, si diploma perito chimico specializzato in impianti industriali. La sua media d’esame è molto lusinghiera, tanto che l’Agip, da sempre attenta ad adocchiare giovani promesse in possesso di promettenti requisiti nel campo della ricerca, inserisce il suo nome in una lista di giovani diplomati da inviare nel Golfo del Messico per lavorare sulle piattaforme petrolifere. In alternativa, Mauro può decidere di frequentare la facoltà di ingegneria nucleare presso l’Università di Padova. Quanti ragazzi, fermi sulla soglia della vita da adulto per raccogliere le idee e programmare il futuro, non vorrebbero trovarsi di fronte ad una facoltà di scelta così allettante? Meglio puntare sul sicuro e fregiarsi alla fine del prestigioso titolo di ingegnere, oppure avventurarsi nello stimolante mondo della ricerca industriale in siti lontani, gomito a gomito con persone provenienti da realtà nuove e culturalmente affascinanti? Le titubanze di Mauro durano il tempo che occorre per imboccare, senza alcun tentennamento, una terza via: far domanda di assunzione nella sede centrale della Cooperativa Carnica! Grazie all’esperienza accumulata nelle tante estati trascorse a "far la stagione" in alcuni negozi di alimentari di Lignano Sabbiadoro, egli è assunto con la qualifica di commesso "volante" (con questa fantasiosa definizione si indicavano i dipendenti della Coopca che avevano le mansioni di sostituire colleghi delle varie filiali assentatisi per causa di ferie o di malattia). La decisione di Mauro può apparire per certi versi sconcertante, ma solo se non si tiene conto del suo grande desiderio di trovare un lavoro che gli permetta di abitare a Timau, dove vivono i suoi più cari affetti, e di raggiungere al contempo l’indipendenza economica. E’ vero che fare il "commesso volante" comporta frequenti spostamenti di sede di lavoro, anche in posti disagiati, perché non sempre si è così fortunati di essere chiamati a Tolmezzo o a Paluzza, ma Mauro raramente recrimina sulla lontananza o sulle incomodità delle destinazioni assegnategli, dal momento che questi inconvenienti erano ampiamente noti, e quindi accettati, all’atto di iniziare la collaborazione con la Coop.

Ben presto Mauro recupera il tempo trascorso lontano dal suo paese d’origine, durante i lunghi anni passati in collegio a Pordenone, e comincia a cimentarsi nei primi scritti che riguardano Timau, il suo dialetto, le sue tradizioni. Con altri amici altrettanto appassionati della storia socio-culturale del paese, il dinamico giovanotto partecipa attivamente alla costituzione di Gruppi e Circoli che trattino di Timau e dei suoi grandi tesori storici, arrivando meritatamente a ricoprire cariche di indiscusso rilievo al loro interno. Le sue energie migliori vengono comunque profuse nell’espletamento dei suoi compiti di commesso, L’incarico si protrae fino al 1986, allorché egli è posto di fronte al primo dei due dilemmi che decideranno il suo percorso di vita e di lavoro nei quadri della Cooperativa carnica.

In quell’anno, il Direttore della Società gli chiede di scegliere tra le mansioni di direttore di supermercato o di gestore dello spaccio nr. 29 di Paluzza.

E’ obiettivamente una proposta che lusinga ed impensierisce allo stesso tempo, poiché contiene non pochi pro e contro, dei quali conviene eseguire un’attenta analisi. Dopo qualche giorno di riflessioni, Mauro matura la consapevolezza che la decisione finale non dipende da considerazioni di carattere venale o carrieristico, bensì dalla sua capacità di resistere nel tempo ad un profondo mutamento delle sue abitudini e delle sue priorità affettive. Infatti, la nomina a direttore di supermercato è prestigiosa, promette un adeguamento economico di tutto rispetto, ma è subordinata al cambio di sede ogni quattro-cinque anni; gestire la filiale di Paluzza, invece, comporta un’accettazione di responsabilità nettamente maggiori, non è altrettanto remunerativa della precedente, però consente di continuare a vivere a Timau, in casa propria ed a stretto contatto con i tanti amici e compagni di escursioni nel mondo della cultura e dell’informazione. Ritornando con la memoria alle motivazioni che avevano determinato nel 1978 la scelta di vita di Mauro, è quasi superfluo specificare che anche stavolta le ragioni del cuore hanno la meglio su quelle della razionalità, confermando il saggio aforisma di Pascal: spesso il cuore ha ragioni che la ragione non conosce…..

Mauro decide dunque di rilevare la gestione dello spaccio di Paluzza e mette immediatamente mano ad alcuni cambiamenti, sia strutturali che di miglioramento delle attrezzature, a suo giudizio necessari per incrementare le vendite. La mossa si rivela azzeccata, la clientela aumenta in maniera esponenziale e traina il giro d’affari verso livelli ragguardevoli.

La gestione dello spaccio di Paluzza si protrae per diciotto, costruttivi anni, con soddisfazione reciproca.

Intanto Mauro, nel 1994, ha condotto all’altare Antonella, la dolce donna della sua vita, che nel 1997 lo rende felice padre di una splendida bimba, Valentina, la futura talentuosa stella del cross e dell'orienteering regionale, mentre l’altro tesoro di casa Unfer, l‘irresistibile cucciolo Simone, nasce nel 2002.

Nel 2004 il destino mette Mauro di fronte ad un’altra dilaniante alternativa. Succede che la Direzione generale della Cooperativa, perseguendo la politica di gestire direttamente soltanto i grandi supermercati (mentre i piccoli vengono offerti ai dipendenti a qualsiasi titolo che accettino di assumersene la responsabilità diretta -equiparandosi in tal modo a dei privati diventati gestori ed unici responsabili dell’esercizio commerciale-) interpelli anche il suo rappresentante di Paluzza, chiedendogli se abbia qualche interesse a rilevare e ad amministrare in proprio, con tutti i rischi economici annessi e connessi, la sede di cui egli è da tanto tempo il curatore. Questa volta Mauro non deve interrogare soltanto se stesso circa la scelta da operare; ha una famiglia a cui pensare e perciò non è facile lanciarsi in una nuova sfida senza prima aver minuziosamente vagliato gli aspetti positivi e quelli negativi presenti nella proposta. Certo, la concreta logica paesana consiglierebbe di continuare a fare il dipendente con lo stipendio sicuro, ma Mauro pensa in grande ed è seriamente tentato di intraprendere quella nuova, intrigante avventura. Mi butto, non mi butto…in capo ad una tonnellata circa di ragionamenti, Mauro, coraggiosamente spalleggiato da Antonella che ha tanta fiducia nelle capacità imprenditoriali del marito da rivelarsi convinta assertrice dell’opportunità di tentare il gran salto, rompe gli indugi e diventa proprietario della Cooperativa di Paluzza, costituendo una ditta individuale ed esponendosi in maniera piuttosto robusta anche dal lato economico. Con l’assunzione del nuovo "status" arriva anche il momento di rifare il belletto al negozio: sarà incrementato il corredo delle attrezzature in modo essenziale e mirato, verrà ampliato l’assortimento dei prodotti e i prezzi al consumo subiranno un abbattimento del 5% medio. Viene perciò rinnovata la dotazione di frigoriferi, congelatori, bilance, affettatrici, scaffalature e si dota la cassa di uno scanner, un dispositivo indispensabile nel commercio moderno; il complesso degli articoli di merce posti a disposizione del pubblico viene robustamente potenziato, privilegiando prodotti tipici della terra di Carnia (qualche esempio: miele, grappe, biscotti, marmellate, succhi di mela, liquori assortiti, pane fornito da ben quattro panifici, grissini, formaggi freschi e stagionati, insaccati affumicati tra i quali spiccano quelli di Flavio Mentil, il norcino di Timau, e così via) e della regione austriaca della Carinzia; vengono, come detto, diminuiti i prezzi anche del 5%, sempre mantenendo, è pacifico, una linea di assoluta correttezza gestionale nel campo della concorrenza. Il ricorso a queste misure, l’abilità di gestore di Mauro formatasi sul campo a partire dal 1979, la congiuntura economica favorevole, permettono al nuovo, intraprendente imprenditore di navigare ben presto col favore del vento, al punto dover assumere tre nuove impiegate, in aggiunta a quella già presente.

La breve incursione nel passato termina qui, riprendiamo a parlare dell’oggi. Le ore otto sono scoccate da qualche secondo e troviamo le impiegate già affaccendate nel disbrigo delle loro incombenze specifiche. La nuova giornata di lavoro è di fatto iniziata.

Mara, la pacata, cortese cassiera sempre sorridente, che possiede il raro dono di far sentire amici di famiglia i clienti abituali e caldamente benvenuti quelli occasionali, si è già assisa dietro il registratore di cassa. I suoi movimenti sono sobri e precisi: del resto non potrebbe essere altrimenti, dal momento che vanta un’anzianità di servizio ultratrentennale nella Cooperativa (è doveroso precisare che il termine "anzianità" ha rapporto esclusivamente con gli anni di lavoro della signora, non con il suo aspetto estremamente giovanile). Mara lancia un veloce sguardo agli scaffali posizionati in prossimità della sua postazione e mentalmente anticipa l’arrivo, l’indomani, del rappresentante di detersivi, profumi, lacche, dentifrici e prodotti similari: a quel punto, lei, aiutata da Francesca, dovrà preoccuparsi di sistemare velocemente al posto giusto la merce ordinata, badando nel contempo alla cassa. Ma ecco arrivare il primo cliente che ha già fatto la spesa e adesso deve pagare. Mara allontana il pensiero del fornitore, sfoggia il suo caratteristico sorriso dolce e pigia veloce sui tasti del registratore, occupandosi anche di riporre ordinatamente nell’apposita borsa di plastica i generi acquistati. Da un angolo alla sua destra fa capolino un viso dall’espressione aperta e simpatica, sul quale si apre un contagioso sorriso a volte tenero, a volte sbarazzino, quasi fanciullesco: è Francesca, la flessuosa Francesca, che sta ultimando le pulizie del negozio. Subito dopo dovrà controllare che lo scaffale delle bibite sia colmo in ogni settore ed eventualmente provvedere al rimpiazzo delle bevande mancanti. Intanto davanti al banco dei salumi due signore, puntuali all’apertura del supermercato come due pendole svizzere, si scambiano confidenze a mezza voce, attendendo che Brunella finisca di tagliare fette sottili dal grosso involucro di prosciutto crudo da loro prescelto. Brunella è una vivace ragazza mora (che l’abbiano chiamata così, papà e mamma, per celebrare il colore dei suoi capelli?), gentile e cordiale, con due occhi grandi ed oltremodo espressivi. Ha già preparato il suo banco, togliendo le pellicole che coprono i vari tagli e asportando la prima fetta che durante la notte si è ossidata. Preparato l’involto con il prosciutto, è passata ad affettare un invitante salame affumicato e le sue mani corrono leste perché deve ancora terminare di controllare le date di scadenza dei latticini, del latte e dei suoi derivati e degli altri prodotti caseari allineati nel loro banco frigo, compito interrotto dall’arrivo delle clienti. Accanto a lei, la sua collega Rita, una giovane donna tranquilla e misurata, dal sorriso dolcissimo che le illumina il viso incorniciato, come Mara, da lisci capelli biondi, ha appena finito di distribuire le varie forme di pane negli appositi scomparti e di liberare dalla loro pellicola protettiva i vasti assortimenti di formaggi e prodotti di gastronomia. Stamattina, al banco dei salumi lavora anche Diego, un personaggio unico nel suo genere, un concentrato di simpatia e competenza frutto di una vita trascorsa a servire clienti nella Cooperativa Carnica. Abbiamo specificato "stamattina" perché Diego arriva a Paluzza da Ampezzo nei periodi di maggiore affluenza degli acquirenti in "buteghe", periodi fra i quali rientra ovviamente quello dell’imminente Natale.

Mauro, frattanto, destreggiandosi nel suo minuscolo "ufficio" incuneato fra lo scaffale della verdura e la parete di fondo del negozio, ha già sbrigato un paio di noiose pratiche burocratiche e si accinge a tracciare il programma della giornata. L’affluenza dei clienti si è fatta più sostenuta. Qualcuno, dopo essersi soffermato a prelevare una confezione di yogurth, un cartone di latte, un panetto di burro oppure qualche latticino nel capace banco-frigo vicino all’ingresso, risale lentamente il corridoio che separa due scaffali colmi di dolciumi, torte, biscotti, merendine ed altri preparati per colazione o merende; un signore curvo in avanti , gli occhi quasi incollati al ripiano, sta esaminando il campionario dei liquori bottiglia per bottiglia (e prezzo per prezzo), ma è indeciso in quanto alla scelta e sul suo viso passano come nuvole veloci il desiderio e il dubbio; dietro di lui, un’ anziana nonnina aspetta pazientemente di passare con il carrello, poi finalmente si fa coraggio e mormora una parola di scusa, passa, afferra svelta due confezioni di carne per cani e si dirige risoluta verso lo scaffale dei succhi di frutta; un giovanotto e la sua ragazza (si parlano tanto teneramente…) stanno decidendo cosa mettere in tavola per pranzo tra le offerte che propone la vetrina delle pietanze surgelate; una piccola folla si è radunata davanti al banco del pane e dei formaggi, spostandosi ad ondate progressive, dopo essere stata servita, verso l’angolo dei salumi e dei prosciutti, per approdare infine davanti allo scaffale della verdura. Lentamente si forma una coda alla cassa, dove Mara ha una riposta ed un commento scherzoso per tutti, mentre registra gli acquisti, incassa, corrisponde il resto e sistema la roba nei sacchetti. Ecco che una mamma con bambino le chiede se per favore può confezionare un pacco-regalo di un dopobarba: Mara sollecitamente si mette all’opera, sostituita alla cassa da Francesca materializzatasi all’improvviso come per magia, quasi avesse spiato il momento giusto per comparire. Ed invece Francesca aveva appena terminato di congelarsi le mani riponendo nella vetrina di competenza circa quaranta confezioni di prodotti surgelati scaricati poco prima dal furgone del trasportatore, poi si era fatta un giro per tutto il negozio, controllando le date di scadenza dei prodotti non di pertinenza delle colleghe ed accertandosi che non ci fossero "buchi" negli scaffali e nelle vetrine di esposizione, compilando infine un accurato resoconto dei controlli effettuati, da consegnare a Mauro. Quest’ultimo getta un’occhiata veloce alla lista compilata dalla sua collaboratrice e poi la ripone nella cartella "Evidenza": la riprenderà al momento di compilare gli ordini da passare ai fornitori, cioè al rientro dal suo giro di consegne giornaliere a domicilio. Questa incombenza, che Mauro si è volontariamente assunto per favorire i clienti anziani disagiati di Timau, Paluzza, Rivo, Naunina, Treppo e Tausia, non si limita al semplice recapito dei generi alimentari richiesti, ma spesso comprende anche l’acquisto di giornali o di medicinali.

Scherzosamente si potrebbe dire, parafrasando Orwell, che tutti i clienti sono uguali, ma che alcuni sono più uguali degli altri….

Il banco dei salumi è temporaneamente sgombro di acquirenti, cosa abbastanza inusuale, e Brunella ne approfitta per passare un ordine ad un rappresentante appena giunto, lasciando il solo Diego ad affrontare gli eventi. Ecco che arrivano due clienti e l’uomo è pronto a servirli. Ne arrivano altri due, ma stavolta Brunella ha fatto in tempo a riguadagnare la sua postazione dietro il banco e così i nuovi arrivati non fanno neanche un secondo di attesa. In quel preciso istante, con stupefacente sincronismo, Rita e Francesca si dirigono verso l’esterno del negozio. Neanche si fossero dati appuntamento, sono arrivati contemporaneamente il camion della Coopca ed il furgone di frutta e verdura. In base alle rispettive incombenze, Francesca si occuperà dello scarico delle merci arrivate dai vari fornitori collegati con la Cooperativa carnica, mentre Rita, temporaneamente sostituita al suo banco da Brunella, provvederà a ritirare gli attesi prodotti ortofrutticoli. Senza voler assolutamente stabilire graduatorie di maggiore o minore onerosità dei compiti individuali, è giusto sottolineare che Francesca, in rapporto a Rita, ha indubbiamente la mansione più impegnativa, se non altro per il fatto che il camion della Cooperativa, proprio perché trasporta articoli di commercio inviati da vari fornitori, è molto più stivato dell’automezzo inviato dal grossista di frutta e verdura, per cui "Franci", ogni volta, tira giù dai dieci ai quindici "roll" (gli alti carrelli di maglie di ferro, muniti di ruote). Ma intanto le due zelanti fanciulle non hanno perso tempo e stanno abilmente svuotando i due automezzi del loro contenuto. Con encomiabile sveltezza, Rita ha scaricato tutto il quantitativo di frutta e verdura e lo trasporta all’interno del supermercato, per esporlo nello scaffale. Francesca impiega logicamente più tempo per scaricare la merce arrivata dalla Coopca, poi finalmente anche il suo camion può ripartire. Ma questa è soltanto la prima parte dell’intera operazione: adesso Francesca trasporta i roll in magazzino e li svuota, disponendo gli articoli in maniera da avere subito ben chiara la giacenza a disposizione, necessaria precauzione in vista del successivo ordine. Rita, che ha portato a termine il suo impegno, è già ritornata dietro la sua sezione di bancone e sta rispondendo alle compite domande di un’attempata coppia molto interessata alla preparazione delle olive ascolane e al tipo di ingredienti utilizzati. L’interessante esposizione è interrotta dall’arrivo di Klaus, il bravo panificatore-pasticciere della confinante Mauthen, che rifornisce periodicamente la "Buteghe" di Paluzza di pane nero, caratteristiche torte, pasticceria al minuto ecc. Rita ritira il pane e le allettanti creazioni dolciarie, che vengono esposte in bella vista nella vetrina appropriata. Mauro, frattanto, è da poco rientrato dal suo giro di consegne, ha preparato gli ordini per il giorno seguente e adesso sta parlando rapidamente al telefono con un giornalista suo amico della prossima uscita del nono volume dei "Quaderni timavesi", un’impegnativa raccolta di notizie storiche, sociologiche e culturali sulla Timau di ogni tempo.

Abbiamo velocemente descritto come si comportano le ragazze quando arrivano i camion dei fornitori: è il momento adatto per dare un’occhiata forzatamente parziale, data la mole dei rifornimenti, al calendario della ricezione merci in uso presso la "Buteghe da Coperative" di Paluzza.

Lunedì:

latte Carnia;

Caseificio Sutrio;

Garlatti (carta, sacchetti, vaschette ecc.);

Rugo (latticini);

Macellerie riunite;

Martinelli (frutta e verdura);

Ferrero (cioccolatini, merendine, dolciumi vari ecc.);

Vismara (salumi);

Venfri (gastronomia, tortellini, yogurth ecc.);

 

Martedì:

Caseificio Sutrio;

Galbani (latticini);

Martinelli (frutta e verdura);

Tomini (biscotti, sughi, pelati, scatolame legumi ecc.);

Foschiani (formaggi e salumi);

Reginato (detersivi);

Barilla (pasta);

De Marchi (biscotti locali, strudel torte ecc.);

 

Mercoledì:

latte Carnia;

Caseificio Sutrio;

Surgelati;

Danone (yogurth);

Zanini (salumi, formaggi);

Camion Coopca (con tanta roba);

 

Giovedì:

Venfri (gastronomia: insalata di mare, nervetti, olive ascolane, baccalà, sgombro, crocchette di patate, frittura marinata ed altre prelibatezze);

Martinelli (frutta e verdura);

Reginato (detersivi, profumi);

 

Venerdì:

latte Carnia;

Caseificio Sutrio;

Galbani;

Martinelli;

Cucina nostrana (gastronomia);

Vismara (salumi);

Reginato (profumi, lacche, dentifrici);

camion Cooperativa carnica.

 

Chiediamo scusa ai lettori eventualmente infastiditi dalla lunghezza dell’elenco, ma crediamo che parlare, anche se per sommi capi, della Cooperativa di Paluzza significhi accennare a tutte le sfaccettature della sua realtà.

Si sono fatte le 12.30, è ora di staccare per il pranzo. Gli ultimi tre clienti sono appena usciti. Brunella, Diego e Rita sistemano il loro banco, Mara chiude la cassa e Francesca dà un’ultima ripassata al magazzino. E’ tutto pronto per la pausa pomeridiana e le cinque colonne portanti del negozio escono tra un coro di saluti, lasciando Mauro a districarsi tra assegni, fatture, rendiconti bancari e ordinativi, tutta roba burocratica che egli odia cordialmente. Più tardi andrà a casa anche lui.

Alle 16.00 si riapre. Nel pomeriggio in negozio sono presenti soltanto Mara e Brunella, perché Rita, Diego e Francesca lavorano part-time, salvo particolari periodi (agosto o imminenza delle grandi festività) in cui la loro presenza è necessaria per l’intera giornata. Mara si accomoda sul suo sgabello dietro la cassa, effettua le usuali operazioni di riaccensione dell’impianto, poi passa a controllare se si è aperto qualche "buco" nello scaffale degli articoli da toilette maschili e femminili alloggiato alle sue spalle. Brunella, dal canto suo, ha già preso possesso dell’intero bancone adibito allo smercio di pane, formaggi, salumi e gastronomia: praticamente è lei la padrona di casa di metà supermercato, quando mancano Rita e Francesca. Prende nota con occhio infallibile delle quantità dei formaggi e dei salumi venduti in mattinata e procede a ricostituirne la giusta dotazione in vetrina, ultimando il suo lavoro in coincidenza con l’arrivo del primo cliente, cui seguono altri, uomini e donne, con frequenza da ritmi bassi, cosicché Mara e Brunella non devono dannarsi l’anima per evitare fastidiose lungaggini ai visitatori. Mauro sta facendo la spola tra il magazzino e il computer, verosimilmente impegnato nella compilazione di ordini vari da diramare ai fornitori. Ogni tanto interrompe la sua attività per rispondere al telefono ed osservandolo attentamente, anche da lontano, è possibile capire dalla mutevolezza delle sue espressioni l’indice di gradimento riservato alle chiamate ricevute. Fuori le prime ombre della sera si sono incupite in una oscurità profonda e la gente inizia a rincasare. Il traffico, al contrario, sembra improvvisamente infittirsi, ma si tratta di una fiammata breve, legata all’arrivo di residenti che tornano a casa dai paesi vicini al termine del lavoro. La "Buteghe" adesso è quasi vuota, sono rimaste solo tre persone che passano tra gli scaffali in cerca dei prodotti desiderati. Alla cassa un cliente non proprio di primo pelo, evidentemente convinto di essere un irresistibile simpaticone, sta sciorinando tutto un repertorio di battute insulse, in qualche caso addirittura sconvenienti, accompagnandole con delle risatine pateticamente compiaciute. Forse crede, così facendo, di suscitare l’interesse, qualsiasi esso sia, di Mara la quale, al contrario, non lo degna della minima attenzione: passa sul lettore dei prezzi i prodotti acquistati, batte il totale e solo allora solleva uno sguardo completamente inespressivo, da navigata giocatrice di poker, sul viso del cialtrone, sillabando la cifra da incassare. Smontato da quella voce che arriva direttamente dalla banchisa polare, l’ometto farfuglia qualcosa, paga, insacca la sua roba nel sacchetto e se ne va senza neanche guardarsi intorno. Sono episodi, per fortuna rari, che tutto sommato non rivestono una particolare importanza; praticamente estemporanee manifestazioni di stupidità che Mara liquida con signorile compostezza.

Adesso il negozio è davvero deserto. Mancano cinque minuti scarsi alle 19.30, orario di chiusura serale dell’esercizio. Brunella ha iniziato a rivestire le estremità aperte dei salumi con la pellicola salvafreschezza, poi si dedicherà a porre in condizioni di esatta conservazione i formaggi e i prodotti di gastronomia. In ultimo rassetterà il banco, riservando una particolare cura alla pulizia dei coltelli e dell’affettatrice. Mara, sicura per lunga esperienza che ormai è da scartare l’eventualità che all’ultimissimo secondo arrivi il classico cliente ritardatario, ha già avviato le operazioni di riscontro tra il totale degli incassi indicati dalla macchina e i contanti presenti in cassa. L’attenzione è totalmente puntata sui conteggi, effettuati ogni volta col fastidioso timore che alla fine si evidenzino discrepanze tra quello che c’è e quello che dovrebbe esserci, ovviamente in termini di denaro. Finalmente un sospiro di sollievo: anche stasera i conti tornano, non ci sono stati pasticci. Per la verità non ce ne sono mai, ma come si dice: fidarsi è bene…

E’ davvero giunta l’ora di andare a casa. Le due ragazze scambiano qualche battuta con Mauro, in totale e piacevole rilassatezza. Ascoltandoli, si capisce che nella "Buteghe" si lavora sodo, ma il clima di serenità e di collaborazione che vi regna dimezza praticamente la fatica. Diego, Mara, Rita, Francesca e Brunella non buttano via un minuto del loro tempo, riuscendo magnificamente a conciliare le esigenze organizzative con gli obblighi di cortesia e di sollecita assistenza che rappresentano l’ovvio segreto per offrire ai clienti il meglio che essi possano desiderare. Si aggiunga alla loro grande professionalità il non trascurabile particolare che si distinguono anche sotto l’aspetto estetico ed ecco spiegato, in buona parte, il favore che incontra la "Buteghe da Coperative" di Paluzza. Non defraudiamo, però, del suo giusto merito chi ha seminato tanto e bene per giungere a questo risultato. Parliamo di Mauro Unfer, il proprietario, e lo facciamo comparire al proscenio, a godersi gli applausi degli estimatori, come il regista di uno spettacolo teatrale, cioè per ultimo, dopo tutti gli attori del suo cast artistico. Sei anni fa Mauro ha avuto il coraggio di mettere in gioco quello che si era faticosamente guadagnato fino a quel momento, anche sotto l’aspetto economico, lanciandosi in un’avventura che avrebbe scoraggiato dal tentarla più di un uomo, soprattutto se, come Mauro, sposato e con due figli in famiglia. Mauro ha rischiato, potendo contare, lo ribadiamo, sull’inestimabile appoggio di sua moglie Antonella e fino ad oggi i fatti gli hanno dato sostanzialmente ragione. Grazie alle sue doti di amministratore oculato, di lavoratore infaticabile e di attento conoscitore delle moderne concezioni di mercato, Mauro è riuscito, con il prezioso aiuto di eccellenti collaboratrici (ma saper mettere in campo una squadra altamente competitiva rappresenta ulteriore titolo di merito per il dirigente responsabile…), a tramutare in esaltante realtà quella che nel 2004 poteva apparire per molti versi un’azzardata scommessa. E’ vero che anche la "Buteghe" si trova ogni tanto a dover respingere gli assalti della recessione, in questi tempi di preoccupante crisi economica nazionale ed internazionale. Se bastasse la volontà di abbattere ogni ostacolo con la forza del sacrificio e della dedizione al lavoro, Mauro e la sua minuscola task-force privata non avrebbero problemi a spazzar via dalla loro strada le preoccupazioni; ma non è così semplice, purtroppo, perché in ogni azione umana gioca un ruolo rilevante la fortuna. Ma la fortuna, si sa, bisogna sapersela meritare, bisogna andarla a scovare dove meno te lo aspetti, intraprendendo iniziative che sul momento possono anche sembrare azzardate. Ci riferiamo al passo che Mauro ha deciso di fare ultimamente: dal gennaio di quest’anno, 2012, si è affiliato con l’organizzazione "Amico" di Coopca. Lo slogan scelto, originale e pertinente, è tutto un programma: "con la "buteghe" ora hai un "amico" in più" e vuole significare il desiderio da parte dei gestori di dar vita, in collaborazione con i migliori e più affidabili fornitori, alla linea "Selezione qualità" che offre un’ampia scelta di prodotti locali il più possibile naturali, genuini e freschi. In altre parole: qualità e convenienza sulla porta di casa, il to tornacont su la puarte di cjase. E allora andiamo ad esaminare, in maniera particolareggiata, alcune delle nuove offerte proposte dalla "buteghe da coperative" di Paluzza, specificato che qualsiasi notizia relativa all’esercizio commerciale si può trovare on-line, sul sito www. labuteghe.it

In attesa dell'attivazione della sezione e-commerce di questo sito, è possibile ottenere i prodotti preferiti inviando un ordine: via e-mail (info@labuteghe.it), oppure telefonando al numero0433 775166, che esplica anche le funzioni di fax.

Alla "buteghe da coperative" di Paluzza si possono trovare:

  •  

  • carne fresca di qualità confezionata in vaschette e conservata in ATP (atmosfera protettiva controllata)
  •  

     

  • frutta e verdura
  •  

     

  • prodotti tipici di Carnia & Carinzia
  •  

     

  • pane dei panifici di Timau, Paluzza e Treppo
  •  

     

  • pane nero al cumino, segala, zucca, girasole, sesamo, finocchio, del panificio Klaus di Mauthen, che propone anche gli squisiti dolci della tradizione austriaca come torta sacher, alla ricotta, alle noci, ai frutti di bosco
  •  

     

  • salumi, formaggi, ricotta, burro, yogurt tipici della Carnia
  •  

     

  • succo di mela, biscotti, strudel, marmellate, sciroppi, miele, frico, farina da polenta della Carnia
  •  

     

  • - vasto assortimento dei tradizionali distillati ed elisir dell'antica distilleria Casato dei Capitani di Cabia, dal classico sliwowiz di prugne al distillato di pere fino agli elisir di more, lamponi, frutti di bosco, mirtilli e cumino.
  •  

     

  • bombole Liquigas da 10, 15, 20, 25 Kg.
  •  

     

  • tronchetti per stufe e caminetti.
  •  

In più, ogni settimana la "buteghe" propone interessanti offerte speciali, oltre alla disponibilità di vari prodotti discount. E’ anche funzionante, a richiesta dei clienti, il servizio di consegne a domicilio.

 

Ecco, la breve storia di una giornata in cooperativa è terminata. Adesso nel locale è tutto buio, ad eccezione delle lucine dei banchi-frigo che sembrano tante lucciole. Domani sarà nuovamente tutto un fervore di attività. Mauro e i suoi collaboratori si ritroveranno per un nuovo giorno lavorativo e si rinnoverà la loro intesa umana e professionale, condizione essenziale perché la "buteghe da coperative" navighi sempre in acque tranquille.



Rocco Tedino

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11 febbraio 2012 6 11 /02 /febbraio /2012 15:48

Una spaziosa porta a vetri rinforzata da eleganti aste di alluminio, distanziata dalla strada da tre bassi gradini,  introduce all’ampio locale attrezzato a bar: un massiccio bancone -dietro il quale si allineano bicchieri e bottiglie, disposti ordinatamente sulle caratteristiche mensole, con l’immancabile macchina per il caffè-  fronteggia un’ordinata successione di tavoli, corredati da lunghe panche, che coprono gran parte della parete opposta e costituiscono una provvidenziale sistemazione per avventori capitati in un momento di particolare affollamento della sala superiore, la pizzeria propriamente detta, alla quale si accede salendo una pregiata scala di lucido rovere.

Ci troviamo nella pizzeria “Al Bunker”, il regno di Innocente, il valente “pizzaiolo” che a memoria d’uomo non ha mai rimandato deluso un cliente. Lo sguardo si allarga su un salone accogliente, sobrio e dai colori caldi, peculiari del legno che qui è stato impiegato in quantità considerevole, come si conviene ad un ambiente di montagna.  Le ondate di calore espirate a tratti dal largo forno a legna che troneggia nell’angolo di fondo, un po’ defilato alla vista, avvolgono piacevolmente i clienti che occupano i tavoli disseminati nella sala con calcolata simmetria. Il soffitto è perlinato alla moda alpina, un’intera parete è traforata nella parte superiore da quattro  finestroni affacciati sulla strada, esattamente disposti come i loro gemelli che, al di sotto, permettono alla luce naturale di illuminare il bar. Quadri, stampe, oggetti eterogenei in uso fino a non molto tempo addietro nei lavori agricoli o edili della comunità timavese, vecchie paia di sci, foto….c’è di tutto, appeso alle pareti o sistemato sopra  il basamento di un bellissimo “fogolar” perennemente spento.

Abbiamo accennato agli sci, alle foto, ed ecco farsi più vivido, più luminoso il ricordo di Daniele Mentil, il papà di Innocente, e della sua adorata consorte Marisa.

Daniele è stato per Timau un regalo della sorte, un uomo che ha saputo coagulare attorno alla sua figura stima ed affetto, apprezzamento e rispetto. Non si creda di leggere le solite frasi fatte che la pietà umana dedica a coloro che hanno abbandonato questa vita e dei quali “nihil nisi bonum”, come dicevano i latini. Daniele è stato davvero un personaggio che si è legittimamente guadagnato l’ammirazione e la considerazione di tutte le persone che hanno avuto il privilegio di conoscerlo. Sin dalla più giovane età, egli era entrato come lavorante nel panificio gestito da Graziano Silverio, rimanendovi per anni ed imparando tutti i segreti che trasformano un pezzo di pane qualsiasi in una quasi opera d’arte. Nel frattempo, egli coltivava anche le sue spiccate doti atletiche, impegnandosi con lusinghieri risultati in più d’una disciplina sportiva. Insegnante ed allenatore di sci di fondo, dedicava ai suoi allievi (segnatamente bambini) cure tanto premurose da spingere il suo impegno ad accompagnarli in lunghe ed onerose trasferte di gare da disputare nelle più svariate, e distanti, località alpine dell’Italia settentrionale: Val d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige e via viaggiando (detto per inciso, nel 1972 Daniele assaporerà una doppia gioia nelle vesti di allenatore-papà: sua figlia Lorena vincerà il titolo di campionessa italiana, cat. “Allievi”).

Al calcio, poi, aveva regalato quasi quindici anni di militanza, trascorsi con la gloriosa maglia di terzino sinistro del Timau sulle spalle. Sempre corretto, sempre generoso, un costante punto di riferimento umano e agonistico.

 Nel  1958 Daniele sposa  Marisa Puntel, una dolce ragazza di Cleulis, bella e fidata. La loro unione è allietata dalla nascita prima di Lorena, poi di Innocente ed infine di Michele. Passano gli anni, i due ragazzi più grandi si avviano ad imboccare le strade della vita, sotto la guida attenta di mamma e papà: Lorena studia da maestra, Innocente  è alle medie (poi il lungimirante papà lo manderà a frequentare un corso di pizzaiolo a Udine), mentre Michele, il cucciolo della compagnia, è ancora troppo impegnato con i lavoretti dell’asilo e i giochi con i piccoli amichetti per preoccuparsi seriamente del suo avvenire. Chi si preoccupa, invece, e giustamente, dell’avvenire dei figli sono i genitori. Va bene che il profitto scolastico dei loro ragazzi è garanzia di confortevole riuscita nella ricerca di un impiego futuro, però è sempre meglio cautelarsi ed esplorare anche altre strade che possano assicurare una degna fonte di sostentamento. Ragionando in questa ottica, Daniele e Marisa decidono di lanciarsi in un’avventura che, se portata a buon fine, garantirà davvero un discreto futuro a chiunque di loro ne abbia bisogno.

Nel febbraio del 1978 viene inaugurata a Timau la pizzeria “Al Bunker”, così chiamata perché costruita sopra delle rocce gigantesche e nel puntiglioso rispetto di tutti i criteri antisismici, giusto quanto disposto dal perito Bruno Fumi di Cleulis, progettista e direttore dei lavori.

L’impresa nella quale si sono cacciati i due intrepidi coniugi è di quelle che fanno tremare vene e polsi. Già aprire una pizzeria a Timau, piccolo paese che comincia a mostrare i primi segni di una contrazione demografica che avrà una drammatica conferma negli anni a venire, sembra azzardo grosso; se a ciò si aggiunge la circostanza che, per reperire i soldi necessari ad avviare la loro attività, Daniele e Marisa avevano dovuto dar fondo a tutto il credito che riscuotevano presso banche e privati, divenendo debitori di somme davvero ragguardevoli, beh,  se qualcuno allora avesse pensato che l’iniziativa dei due temerari era stata  suggerita da un raptus di  follia allo stato puro, non avrebbe avuto  tutti i torti!

E invece, guarda come vanno a volte le cose del mondo!, la pizzeria incontra sin da subito il favore della clientela che cresce a vista d’occhio, ingrossata com’è da buongustai austriaci che si sobbarcano di buon grado la fatica di affrontare i due versanti di passo Monte Croce pur di gustare una pizza che sembra ammannita da un pizzaiolo di Napoli, notoriamente la capitale morale di quel saporito alimento. Un vento favorevole, dunque, gonfia le vele della navicella appena varata e sembra sospingerla in acque sempre più azzurre, allorchè il destino vibra un colpo di inaudita violenza sulle speranze presenti e future dell’operosa famigliola.

 In un maledetto pomeriggio di lunedì 25 giugno del 1979, Daniele e Marisa incappano in uno spaventoso incidente stradale. Lei decede quasi subito, lui sopravvive tre giorni, poi la morte lo ricongiunge alla sua sventurata moglie. Avevano solo quarant’anni.

Timau è letteralmente “choccata” dall’avvenimento. Al sincero, profondo cordoglio per la tragica dipartita di due persone così buone e laboriose, si aggiunge lo sgomento per la terribile situazione in cui di colpo sono venuti a trovarsi i tre giovanissimi orfani, improvvisamente catapultati in una dimensione da incubo. Come si presenterà il loro avvenire? Che cosa sarà della pizzeria, un’attività che i loro previdenti genitori avevano immaginato come una sorta di polizza  stipulata a salvaguardia del futuro economico di ciascuno dei figli? In quei giorni di stordita incredulità, i timavesi, ma proprio tutti i timavesi presenti in paese o sparpagliati per il mondo a lavorare, scrivono la pagina forse più bella del loro già ricco curriculum di persone generose ed altruiste. Si assiste ad una gara di solidarietà cui sembra persino impossibile credere. Aiuti in denaro confluiscono su un conto aperto in paese a favore dei tre ragazzi, le banche confermano il credito, un gruppo di amici dall’animo nobile si occupa di mettere ordine nei conti della pizzeria, garantendo personalmente una eventuale esposizione economica…insomma accade qualcosa di eccezionale, di toccante che alla fine sfocia nell’epilogo da tutti auspicato: la pizzeria è salva, adesso tocca ai tre fratelli uscire alla ribalta e continuare nell’opera avviata dal loro papà e dalla loro mamma.

 E così é. Lorena, Innocente e Michele ricacciano indietro le lacrime e stringono i denti: i timavesi si accorgeranno ben presto che le loro amorevoli cure non sono state sprecate per dei pulcini bagnati. La pizzeria andrà avanti.

Si vede allora Lorena, diciannovenne, alternare i suoi impegni di insegnante scolastica (si era brillantemente diplomata maestra l’anno prima) al lavoro nel locale, affrontando mansioni che vanno dalla ragazza “tuttofare” in sala all’esperta in faccende di amministrazione (a proposito, è da sottolineare il prezioso apporto fornito in tal senso da  Adriano Mentil); Innocente, diciotto anni, pizzaiolo dalla prima ora, si supera nell’applicazione degli insostituibili ammaestramenti di papà Daniele in fatto di preparazione e cottura delle pizze; Michele, appena dieci anni!, suscita profonda tenerezza mentre si ingegna a fare da barman e cassiere (quante volte sono gli stessi clienti ad aiutarlo a mescere le bevande richieste, oppure a contare i soldi del resto…).

Sant’Agostino afferma che il Signore non manda mai una croce più pesante di quella che si riesca a sopportare: sarà per questo, sarà per chissà cosa, ma lentamente i tre sventurati si riprendono e, sempre discretamente seguiti dal buon cuore di tante persone, portano la pizzeria ad imboccare nuovamente la strada della speranza, grazie a immani sacrifici affrontati con un coraggio incredibile in ragazzi agli albori dell’esistenza.

 Lorena si è nel frattempo sposata e parte da Timau per seguire il marito. Innocente, nel 1981, si sposa a sua volta con Bettina, una donna seria ed assennata che gli regala Mirko e si prende anche cura di Michele, undicenne costretto a diventare adulto nel soffio di un amen. Finalmente anche per la nostra devastata famiglia torna una parvenza di sereno. I giorni dell’acerbo dolore sono gelosamente custoditi in quell’angolo di cuore che serba, incancellabile, il dolce sorriso di chi ci ha lasciati per crudele capriccio del destino. Lorena, Innocente e Michele sono ormai in grado di decidere da soli delle loro scelte.

 Di Lorena, insegnante, e di Innocente, re del “Bunker”, abbiamo detto: cosa ne è stato di Michele, la figura più commovente di tutti? Ebbene, anche il cucciolo si è fatto adulto. Nel 1993, Michele sposa Michela (maggiore identità di gusti una coppia non potrebbe mostrare…) e con lei apre sul lago di Cavazzo la pizzeria “Bunker 2”, esplicito omaggio all’indimenticato papà, e la bruschetteria “Bunker 3”. Dopo qualche anno, la “Bunker 2” viene eliminata, mentre la “Bunker 3”, spostata in nuovi e più ampi locali a Trasaghis, é trasformata in pizzeria-ristorante, rinomata e ben frequentata, e resta l’unico locale gestito dalla coppia, alla quale si è aggiunto, in qualità di valido aiutante,  il baldo figliolo Alessio.

E siamo ai giorni nostri, reduci da un veloce viaggio che ha preso le mosse oltre trent’anni fa. Dedichiamo ancora qualche minuto al “Bunker” di Timau.

Innocente continua a deliziare gli avventori che ne scoprono ogni tanto gli umori creativi attraverso la degustazione di pizze nuove e dai gusti innovativi. Qualche esempio? Partiamo dalla pizza “Guido”, già presente in menù dagli anni ’80: su un soffice  cuscino di pasta sapientemente lavorata riposa, circondato da un croccante bordo rialzato,  uno stuzzicante impasto di prosciutto, funghi, gorgonzola, salamino, würstel e cipolla. Assaggiamo la “Valentina”? Ecco in tavola un raffinato connubio di gusti per palati scelti: gorgonzola, mais, salamino, cipolla e rucola. Reclamando a sua volta un minimo di attenzione, ci tira per la giacca “Simona”, con i suoi sapori forti e robusti, ingentiliti da un velo di formaggio di vaglia: prosciutto, funghi, gorgonzola, salamino, cipolla e capperi. Non si può, poi, ignorare un prodotto dell’estro di Innocente che, non a caso, ha voluto intitolare “Chef” una delle sue composizioni più riuscite a base di salamino, larghe e sottili fette di prosciutto S. Daniele, una rugiada di rucola, pomodorini e mozzarelline.

Basta, l’esercizio della descrizione senza degustazione comincia a diventare una sofferenza. Però, non è permesso abbandonare l’argomento senza rendere i dovuti onori alla pizza regina, quella battezzata addirittura con il nome del locale, la “Bunker”: prosciutto, funghi, carciofi, peperoni, würstel e salamino. Quelle citate sono solo alcune delle specialità che Innocente “sforna” (è letteralmente il termine giusto) a delizia delle papille gustative dei suoi clienti e comunque la loro particolareggiata presentazione dovrebbe bastare a spiegare il grande successo che riscuote al di qua e al di là delle Alpi la pizzeria “Al Bunker”. Per i più golosi aggiungiamo che Dania e Francesca, le brave e belle collaboratrici dello chef, possono all’occorrenza servire raffinati dolci (tiramisù, panna cotta, tartufi e affogati al caffè o al whisky). Va da sé che sono inoltre a disposizione vini comuni e  di marca, bibite, birre, amari e grappe.

Credo di aver detto abbastanza; se non altro, ho tentato di raccontare la parte più significativa della travagliata storia della pizzeria di Timau. Io ci vado più che volentieri, sapendo che ne uscirò invariabilmente soddisfatto. Beh, quasi soddisfatto, se devo essere del tutto sincero, perché ogni volta che varco la soglia del bar provo un istintivo moto di fastidio dovuto al fatto che in cima al banco sono esposti  trofei e sciarpe la cui vista,  almeno ai miei occhi di milanista, è paragonabile  alla comparsa improvvisa di un mal di denti:  si tratta di cimeli interisti!

Vi assicuro, comunque, che Innocente prepara delle pizze così buone che non smetterò mai di andare a mangiarle, neanche se me ne presentasse qualcuna con la farcitura

 nerazzurra…

 

Rocco Tedino

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4 febbraio 2012 6 04 /02 /febbraio /2012 10:20

Lo sconosciuto norvegese, che quasi centoquindici anni fa ebbe l’idea di vivacizzare le corroboranti escursioni all’aria aperta trasformandole in coinvolgenti exploit atletici con tanto di bussole e cartine tematiche al seguito, non avrebbe mai pensato che la sua intuizione si sarebbe sviluppata fino ad acquisire dignità di sport, il citato Orienteering, e dimensioni planetarie, dal momento che gli Stati affiliati alla International Orienteering Federation (l’Organismo che si occupa di diffondere l’Orientamento nel mondo) sono rappresentativi di tutti e cinque i continenti. Da noi questo sport ha avuto il suo battesimo in Trentino, nel 1974, e si é progressivamente diffuso in quasi tutte le regioni della Penisola, sotto l’egida della Federazione Italiana Sport Orientamento. Scopriamone le caratteristiche peculiari, attingendo abbondantemente dalle notizie pubblicate sull’interessante opuscolo intitolato “Lo sport dei boschi...e molto di più!” edito dalla Federazione appena citata.

L’Orienteering é chiamato anche lo “sport dei boschi” perché il suo campo di gara ideale é il bosco; é possibile praticarlo, tuttavia, anche in altri ambienti quali centri storici, specialmente quelli particolarmente intricati di molte città, parchi pubblici, campagne ecc. L’Orienteering si può praticare tutto l’anno, sempre all’aperto. I concorrenti hanno la possibilità di cimentarsi in quattro categorie suddivise per sesso, per età e per grado di difficoltà. Questo sport  favorisce l’aggregazione tra singoli individui e famiglie intere, che partecipano alle manifestazioni perseguendo il proprio obiettivo personale. Le modalità di partecipazione alle gare sono piuttosto semplici e richiedono poche formalità, a partire dall’equipaggiamento: abbigliamento specifico e una bussola per gli agonisti, mentre i principianti non hanno alcun obbligo particolare, ove si eccettui l’irrinunciabile dotazione della bussola. Al momento dell’iscrizione, all’atleta viene consegnato il pettorale col numero di gara ed un cartellino sul quale registrare le punzonature previste lungo il percorso. I concorrenti partono ad intervalli di alcuni minuti l’uno dall’altro. A ciascuno di loro viene consegnata una carta sulla quale é illustrato minuziosamente il percorso di gara: segni convenzionali, codificati un tutto il mondo, indicano il punto di partenza (un triangolo), i punti di controllo lungo il percorso (cerchietti) e così via. I partecipanti devono passare dai punti di controlli nella stessa sequenza in cui sono numerati sulla carta. Ciascun punto é individuabile dalla presenza di un segnale bianco-arancio, detto “lanterna”: qui l’atleta trova un punzone con cui marcare il proprio passaggio sul cartellino-testimone personale. Al traguardo, i giudici  rilevano il tempo impiegato dal concorrente nel coprire il percorso e controllano che il cartellino riporti le punzonature regolamentari. Dal confronto di questi elementi esce il vincitore della prova: colui, cioé, che ha effettuato in un tempo inferiore a quello di tutti gli altri un percorso “netto” da irregolarità. Torniamo un momento alle quattro categorie in cui é possibile gareggiare.

Partiamo dalla “corsa orientamento”. L’ambiente in cui questa si svolge é principalmente quello naturale, dei boschi, ed é una prova contro il tempo in cui il concorrente, con l’ausilio di una bussola e di una carta molto particolareggiata, deve raggiungere nel minor tempo possibile il traguardo, transitando per una serie di punti di controllo che vanno toccati nella sequenza stabilita. La scelta di percorso da un punto di controllo all’altro é libera. Conta moltissimo, peraltro, la capacità dell’atleta di leggere la carta topografica in maniera veloce e precisa, pur nella tensione della gara.

 “Sci orientamento”. L’attrezzatura e la tecnica sono quelle dello sci di fondo. Per poter avere le mani libere e leggere la carta mentre si scia, il concorrente dispone di un leggio girevole che porta fissato al petto con delle bretelle. Il concorrente, dopo aver scelto il percorso di gara ritenuto più congeniale alle proprie caratteristiche, deve toccare nel minor tempo possibile i punti di controllo collocati lungo la pista. La difficoltà principale della gara consiste nel fatto che le piste preparate sul terreno sono numerose, cosicché l’atleta si trova spesso a doversi districare in una vera e propria ragnatela di percorsi, tutti comunque rigorosamente disegnati sulla carta.

“Mountain bike orientamento”. La caratteristica fondamentale di questa disciplina risiede nell’obbligo per il partecipante di percorrere, pena la squalifica, esclusivamente le strade e i sentieri indicati sulla carta, evitando tagli o scorciatoie. Onde evitare al concorrente la pericolosa incombenza  di  staccare le mani dal manubrio per consultare la carta del percorso, quest’ultima viene bloccata su un leggio girevole fissato al manubrio stesso. Le doti che un bike-orientista deve possedere sono una buona padronanza del mezzo meccanico e la capacità di interpretare con precisione e velocità le varie soluzioni che il tracciato propone per raggiungere i diversi punti di controllo.

“Orientamento di precisione”. Viene chiamato anche Trail Orientamento e richiede al concorrente doti di preciso conosce della cartografia. Si tratta di una disciplina che utilizza carta e bussola e stila la classifica in base al punteggio acquisito e non al tempo impiegato nel portare a termine il percorso. Per questo motivo si adatta molto bene alla pratica di questo tipo di competizione anche chi ha difficoltà di movimento, in quanto le strade e i sentieri che costituiscono il percorso di gara sono facilmente percorribili anche da carrozzine a rotelle a spinta o a motore. Fermandosi nelle  piazzole di osservazione dislocate sul percorso, il concorrente deve riconoscere correttamente il punto esatto in cui si trovano le “lanterne” sul terreno rispetto alla carta in dotazione ed indicarle sul proprio cartellino di gara. Il punteggio finale viene dato dal numero di lanterne riconosciute correttamente.

Queste sono, dunque, le quattro categorie in cui i concorrenti possono mettere alla prova le proprie capacità atletiche, di orientamento e di osservazione. Nelle scuole, poi, l’Orienteering si propone come una pratica formativa, attraverso la quale l’alunno impara a conoscere se stesso, a confrontarsi con i propri limiti  e le proprie potenzialità, muovendosi, insieme con gli insegnanti e i compagni, in ambienti salubri, a contatto con la natura.

L’Orienteering ha “contagiato” anche il Friuli, compresa ovviamente la Carnia, un teatro naturale che offre una preziosa varietà di caratteristiche ideali del terreno per rendere sempre più interessanti le gare.  In un arco di tempo lungo poco più di un anno, si sono svolte  tre gare – in gergo “fasi” – che hanno interessato molto da vicino le ragazze e i ragazzi  che frequentano la scuola media “A. Matiz” di Paluzza.  

Il 12 novembre 2010, i giovanissimi atleti  si sono ritrovati all’ora stabilita nel campo sportivo di Cercivento, dove sono giunti a piedi da Paluzza, approfittando del sensibile ”accorciamento” della distanza tra le due località, reso possibile dall’apertura del nuovo ponte sul Bût che congiunge il territorio due Comuni. Prima di dare ufficialmente il via alla competizione, che chiameremo correttamente «Fase di istituto», gli organizzatori hanno voluto rendersi conto del grado di preparazione dei concorrenti, con particolare riferimento alle capacità di interpretare la cartina topografica in dotazione. Le perplessità nascevano dalla consapevolezza che i ragazzi, in definitiva, avevano preso confidenza col nuovo tipo di disciplina grazie unicamente a  prove effettuate nel cortile della scuola; ben lontani, quindi, dal severo esame cui vengono sottoposti gli atleti impegnati in una corsa tra i boschi. Ma, con lo svolgersi della gara, ogni timore é ben presto rientrato: quasi tutti i partecipanti alla manifestazione hanno chiuso la loro prova nei tempi stabiliti, confortando così le aspettative di insegnanti ed allenatori, ai quali é andato il ringraziamento della scuola e della Società “Aldo Moro” di Paluzza, che ha collaborato alla riuscita dell’evento . Va anche aggiunto che  sinceri complimenti, per aver tanto bene preparato i ragazzi, sono stati indirizzati alla professoressa Paola Della Pietra e a  tutti i suoi valenti collaboratori,  accomunati in una citazione globale di merito.

Scorrendo le classifiche finali, salta all’occhio il primo posto assoluto conquistato da Valentina Unfer nella categoria “Cadette”. Senza volere assolutamente minimizzare i brillanti risultati conseguiti dagli altri ragazzi e ragazze, che affrontano questa impegnativa disciplina con entusiasmo e grande volontà (e solo per questo meritano un applauso maiuscolo), non posso nascondere che nutro una particolare simpatia per le imprese sportive di Valentina, nata sin dalle sue prime esibizioni ai tempi non lontani della corsa in montagna. Ricordo ancora come il suo timido e lievemente imbarazzato sorriso illuminasse i suoi occhi mentre la spingevo a rievocare per il giornale del paese  la sua prima vittoria in un cross del 2007 e, soprattutto, la conquista, l’anno successivo, del titolo di campionessa nella categoria “Esordienti femminili” della provincia di Udine, traguardo mai toccato da un rappresentante della Polisportiva Timau-Cleulis! In questi ultimi due anni, il suo rendimento agonistico si é attestato su livelli complessivamente medio-alti, ma senza registrare exploit di rilievo particolare. Adesso, questa nuova disciplina da lei praticata promette di rinverdire fasti appena appena appannati. Dopo la vittoria di Cercivento, infatti, arriva la “fase” numero due, la fase provinciale.

Il 15 aprile 2011, centodieci studenti appartenenti a 14 Istituti scolastici della provincia di Udine, suddivisi tra scuole medie inferiori e superiori, si ritrovano presso il campo sportivo di Branco di Tavagnacco, sulle sponde del fiume Cormor, per cimentarsi nella conquista dei titoli provinciali dei GSS Studenteschi di Udine a cura dell’Ufficio scolastico di Educazione fisica. Su un tracciato perfettamente preparato, i giovani concorrenti hanno profuso tutte le loro energie nel corso di una gara vibrante e alla fine per la Carnia, presente con 4 Istituti, sono arrivate le notizie liete: al suo esordio, la Scuola Media Statale di Paluzza, grazie ai ragazzi preparati dalla professoressa Paola Della Pietra, centra la qualificazione alla “fase regionale” nelle categorie cadetti e cadette. Ancora una volta, Valentina Unfer si dimostra la punta di diamante della squadra, giungendo seconda nella sua gara, a soli quindici secondi dalla vincitrice. Davvero niente male, per una ragazza che dimostra un’eccezionale predisposizione verso questo tipo di sport, per lei relativamente inedito!

La “fase regionale” va in scena il 6 maggio 2011 presso i Laghetti di Timau, dove si radunano, sotto un sole luminoso e beneaugurante, circa 160 ragazzi delle province friulane. Le finali regionali del GSS di orienteering si svolgono, quindi, in casa della Scuola media di Paluzza che, come vedremo, si dimostrerà trionfalmente profeta in patria. In palio, un traguardo particolarmente allettante: la partecipazione alle finali nazionali di Policoro, in Basilicata, dal 6 al 10 giugno. I tracciati dei Laghetti sono molto belli, con le difficoltà, sia di orientamento che di dispendio fisico, ben distribuite lungo il percorso, che i concorrenti  affrontano senza lesinare impegno. Al termine della gara, in cima alla classifica delle Cadette si issa nuovamente lei, sì, avete indovinato: Valentina Unfer, che prende per mano la sua squadra e la fa salire sull’aereo per Policoro. Le lodi, peraltro, vanno doverosamente estese alle sue compagne di compagine, e cioè Laura Di Centa (figlia di Giorgio Di Centa, il noto campione olimpionico e mondiale di sci di fondo), classificatasi terza, e Sara Puntel, che si aggiudica la settima piazza: sono loro tre che rappresenteranno l’Istituto  “A. Matiz” di Paluzza anche nelle finali nazionali. Nella gara di Timau Valentina vince il titolo, il tesseramento gratuito presso una società regionale di suo gradimento nonché, insieme con le sue compagne e tutte le scuole presenti sul podio, la partecipazione ad un raduno federale di orienteering.

Lasciatasi alle spalle la giornata  dei Laghetti,  la carovana di partecipanti ed appassionati dell’orienteering si dà appuntamento a Policoro, una bella località in provincia di Matera. Qui, dal 6 al 10 giugno 2011, ragazzi e ragazze si contenderanno gli ambiti titoli di campioni nazionali della varie categorie. La rappresentativa di Paluzza si imbarca su un aereo della nostra Compagnia di bandiera e, dopo uno scalo a Roma, giunge a Policoro nel pomeriggio di lunedì 6 giugno. Sistemazione presso il locale Circolo Velico Lucano, ricognizione del percorso, quindi cerimonia di apertura, cena, riunione tecnica e meritato riposo. Il giorno dopo iniziano le gare. Martedì 7 e mercoledì 8 giugno le prove di finale nazionale GSS (individuale e staffetta) si svolgono in località Bosco Pantano, mentre la corsa mista “dell’amicizia e dell’Unità d’Italia” di giovedì 9 viene effettuata nell’incantevole cornice della collina di Heraclea-Policoro. Seguono le premiazioni e alle 19.00 la cerimonia di chiusura della manifestazione. Il giorno dopo, 10 giugno, le rappresentative ripartono per le loro sedi di residenza. Nella classificata finale, le Cadette di Paluzza occupano il decimo posto. Nessuno, neppure per un momento, ipotizzi uno stato di delusione da parte della comitiva paluzzana perché un atteggiamento simile cozzerebbe con la logica. In Carnia, l’orienteering  è ancora una disciplina di nicchia, non certo diffusa come il cross o lo sci di fondo, e riuscire a piazzarsi al decimo posto in una competizione di respiro nazionale,  e per di più al primo tentativo, rappresenta un exploit rimarchevole, di cui andare giustamente fieri. Valentina, Laura e Sara si sono comportate egregiamente sia a Policoro che nel corso delle gare precedenti, lasciando intuire potenzialità molto interessanti che potrebbero riservare lusinghiere sorprese nella futura pratica di questo sport.

Siamo ormai  giunti all’ultima competizione prevista nel calendario regionale di Corsa Orientamento, disputatasi a Ravosa (UD) il 20 novembre 2011 nella festevole cornice di una mite giornata di sole. La gara, articolata su 6 prove e valida per l’assegnazione del titolo regionale di Media Distanza individuale e per il campionato di società, si è disputata su un percorso ricavato nell’ampia zona di colline moreniche site a nordovest del centro abitato e risultato particolarmente impegnativo a causa di una fitta rete di sentieri non sempre riconoscibili, la conformazione nervosa e varia del terreno e un sottobosco costituito da fitti rovi. Volgendo l’attenzione alle cose di casa nostra, ci tocca purtroppo registrare un sesto posto finale di Valentina Unfer assolutamente bugiardo rispetto alle capacità della giovanissima atleta, che per l’occasione difendeva i colori della “Aldo Moro” di Paluzza. Per un curioso disguido,  la lanterna nr. 49 era stata segnalata, ma non inserita, in un certo punto del percorso: Valentina, tra le prime a partire, si era attardata a cercarla oltre un ragionevole lasso di tempo, tradendo nell’occasione tutta la sua inesperienza dovuta al limitato numero di gare disputate.  Mentre le atlete scese successivamente in pista, infatti, ben più “scafate” della rappresentante carnica, avevano subito capito che la lanterna lì non c’era assolutamente, proseguendo la gara senza ulteriori perdite di tempo, la ragazza di Paluzza aveva in tal modo pregiudicato la sua esibizione e si era, alla fine, dovuta accontentare di un sesto posto tutt’altro da buttare, per carità, ma che conteneva una buona dose di rimpianto.

Il 2 dicembre 2011, nella sala consiliare della Provincia di Udine, sono state infine effettuate le premiazioni dei vincitori delle fasi provinciali e dei finalisti delle fasi nazionali. Accolti dai calorosi applausi dei presenti, sono sfilati gli istituti scolastici che hanno iscritto il loro nome nei primi posti delle classifiche generali di primo e secondo grado. Tra i festeggiati e premiati finalisti della fase nazionale di primo grado ecco ricomparire Laura, Sara e Valentina, brillanti alfiere della scuola “A. Matiz”. Forza, ragazze,  avete già avuto modo di dimostrare tutta la vostra…valentia (Valentina, mi permetti un raffazzonato gioco di parole?) in questa nuova disciplina  e non è difficile pronosticarvi un futuro di grandi soddisfazioni anche nell’orienteering, così come si è verificato nel cross.

 

Rocco Tedino                

 

  

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30 gennaio 2012 1 30 /01 /gennaio /2012 16:28

“ Nessuno tocchi Caino!” Questa intimazione, mutuata dalla Bibbia, ha da tempo coagulato attorno al suo profondo significato masse sempre più folte di persone categoricamente convinte che la vita umana sia sacra e che nessuno ha il diritto di toglierla ad un suo simile, neppure nei casi un cui si possa andare moralmente assolti dall’applicazione di una legge dello Stato che  preveda la condanna a morte in presenza di reati particolarmente odiosi ed efferati. Nulla da eccepire, per carità. Anche noi siamo assolutamente convinti, da cattolici, che mai su questa terra si debba giungere a privare chicchessia della vita, neanche facendosi scudo di una legge sovrana. L’argomento, del resto, è il più delicato tra quelli sui quali la coscienza sociale e personale è chiamata a pronunciarsi e non si può, né si deve, entrare nel merito delle convinzioni di alcuno.

 “Nessuno tocchi Caino” e va bene. Ma perché non si è ancora avuta notizia di un comitato, di un gruppo, di un movimento, insomma di un po’ di gente che ingiunga altrettanto perentoriamente “Nessuno tocchi Abele”? Sembra di sentire il coro assordante di obiezioni facili e scontate, tutte riconducibili ad un argomento inoppugnabile: chi uccide viene perseguito a termini di legge e sconta la sua colpa con il carcere. Tutto chiaro e limpido come filo d’acqua pura che sgorga da una sorgente montana…se non fosse che anche l’acqua più cristallina può intorbidarsi cammin facendo!

Gli ultimi anni hanno registrato una recrudescenza allarmante di reati contro la persona, per la maggior parte consumati purtroppo nei confronti di donne e bambini. Non ci soffermeremo a citare in dettaglio nomi e circostanze collegati a questo triste fenomeno perché basta prestare occhio o orecchio in qualsiasi momento ai mezzi di informazione per essere investiti da cascate di notizie una più drammatica dell’altra. Vorremmo piuttosto fare una piccola considerazione sulla disparità di trattamento che con il passare dei giorni viene riservata dalla televisione e dalla carta stampata alla vittima ed al  colpevole (il quale dev’essere sempre presunto fino a condanna definitiva: codice penale docet!).

Le Agenzie di stampa battono la notizia di un omicidio, immediatamente parte il tam-tam mediatico e nel giro di qualche ora la gente ne è informata, dapprima con un bel po’ di condizionali (parrebbe, sembrerebbe ecc.) e poi con sempre maggiore quantità di dettagli ed anticipazioni clamorose che in moti casi si sgonfiano miseramente nello spazio di un collegamento. Nella primissima  fase dei servizi, l’umana pietà converge interamente sulla vittima ed ogni commentatore racconta il fatto rispettando una tecnica ampiamente collaudata: sciorinando, cioè,  la fraseologica tipica di queste occasioni che consiste in un campionario di termini grondanti  enfasi e  retorica in quantità industriali. Passa mezza giornata e l’attenzione iniziale si sposta “sull’ampio ventaglio di ipotesi” (locuzione immancabile nelle frettolose battute rilasciate dagli investigatori) formulate nel tentativo di trovare il movente del gesto delittuoso. Di pari passo, vengono espletate le prime indagini e, nonostante gli organi inquirenti cerchino di navigare sottocosta e a luci spente, qualche spiffero ugualmente trapela e i “media” vi si avventano sopra con la famelicità di un qualsiasi conte Ugolino, avanzando supposizioni a raffica. Un bel giorno, i sospetti si appuntano su qualcuno e da quel momento il morto entra nei resoconti giornalistici soltanto nei titoli del delitto di cui si sta parlando, per lasciare il posto alla figura del presunto colpevole. Di costui, le fonti informative fanno rapidamente una star, il suo nome suona familiare quasi quanto quello di un divo dello spettacolo, le sue  azioni  precedenti il delitto vengono analizzate al microscopio, vivisezionate alla luce dei riscontri forniti da vicini di casa, amici e conoscenti (tutti in possesso di particolari succulenti pro o contro l’indagato), scomposte e ricomposte sulla base di voci che si rincorrono come palloncini colorati in balia del vento. E intanto i titoloni imperversano, mentre gli organi investigativi pagherebbero chissà che cosa per poter lavorare in santa pace, senza che le loro  indagini siano ostacolate da mirabolanti “scoop” sparati da cronisti troppo fantasiosi. Dopo una settimana entrano in scena sociologi, psicologi ed opinionisti specializzati nel ramo. Il morto ormai è morto, lasciamolo riposare in pace. E’ il vivo che interessa, è all’autore presunto o acclarato del misfatto che bisogna dedicare  analisi e diagnosi profonde ed istruttive, scoccate quali frecce balenanti a centrare il cuore del problema: Tizio era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali quando sgozzava un bambino guardandolo negli occhi, quando strangolava una donna dopo averla sequestrata e stuprata per ore, quando freddava una coppia di anziani dopo averli seviziati a lungo con inaudita ferocia per scoprire dove si trovavano i preziosi da rubare? E quanto era stata triste e tribolata la sua infanzia, in quale diseducativo ambiente familiare era cresciuto, in quale degrado socio-culturale era stato costretto a muovere i suoi primi passi di candido giglio trascinato a delinquere dall’indifferenza della società cinica ed egoista? Ecco, a questo punto il cerchio si può considerare chiuso: della vittima si perde quasi il ricordo, il presunto colpevole sale agli onori della cronaca ed attorno a lui si scatena la quotidiana caccia al sensazionale, al particolare inedito, all’indizio inspiegabilmente trascurato da chi invece avrebbe dovuto notarlo. Le sue dichiarazioni vengono riportate, amplificate, valutate con maniacale attenzione, nella speranza che aprano uno spiraglio su altri scenari da esaminare, vagliare, esplorare perché contribuiscano a squarciare il velo su ulteriori scenari da investigare, scandagliare, illuminare…. il tutto condizionato dal famoso “dovere dell’informazione giornalistica”  che si avvita su se stesso come una perversa spirale. Se poi il sospettato alla fine confessa il suo delitto, allora è l’apoteosi. Fiumi di inchiostro portano alla luce ogni minima particolarità del carattere dell’imputato, i motivi che lo hanno spinto ad uccidere, i suoi pensieri più occulti. Egli ha l’opportunità di raccontare la sua versione dei fatti -magari smentendola poco tempo dopo con la motivazione che sono state  le forze di polizia ad averlo costretto, con l’inganno se non addirittura con la coercizione fisica, ad ammettere responsabilità non sue- e se ci sa fare riesce anche a dare di sé un ritratto che attiri comprensione e simpatie perché “…poverino, è vero che ha ammazzato quell’altro, ma diciamoci la verità, l’hanno veramente tirato per i capelli! E poi guarda, mi sbaglierò, ma a me sembra tanto un bravo ragazzo…”.

 Il processo si svolge naturalmente sotto l’occhio delle telecamere che catturano ogni battito di ciglia, ogni minima espressione e quindi bisogna stare attenti a come ci si comporta , c’è gente che ha pagato per assistervi e non la si deve deludere. L’avvocato difensore gioca (giustamente) tutte le carte a sua disposizione, non ultima -in molti casi- la canonica lettera di scuse ai familiari della vittima, seguita dall’altrettanto regolamentare richiesta di perdono. Il processo va avanti, le udienze si susseguono e finalmente si arriva alla sentenza che, tenuto conto delle labirintiche disposizioni da rispettare impartite dal codice penale e da quello di procedura, irroga una congrua pena al colpevole del reato.

Il quale colpevole, però, sa che mai e poi mai sconterà interamente e nelle forme previste la pena inflittagli, perché potrà sempre contare su sconti derivanti da buona condotta, eventuali indulti, semilibertà, permessi premio o addirittura, da subito, sul pietoso ombrello protettivo fornito dalla seminfermità mentale che lo ha dichiarato incapace di intendere e di volere al momento di commettere il fatto. Prima e dopo sì, durante no. Anche se immediatamente dopo aver ucciso si era preoccupato con fredda lucidità di creare scenari artificiosi, intesi a depistare le indagini. Come talvolta è successo. Non parliamo  poi del clamore che investe un soggetto  colpevole di strage! Il poveretto corre persino il rischio di farsi fotografare mentre si abbronza pacificamente stravaccato su una sdraio, contando mentalmente i soldi che gli entreranno in tasca dalla partecipazione ad uno spot pubblicitario….

“Nessuno tocchi Caino” siamo tutti d’accordo. Eppure, a costo di provocare smorfie di disgusto tra i perdonatori in servizio permanente effettivo o tra gli “impegnati” che distribuiscono come ridere patenti di qualunquismo a coloro che osano trasgredire il comandamento del “politicamente corretto”, noi insistiamo nel ritenere che chi uccide deve scontare fino in fondo la sua colpa. E’ l’unico modo, il migliore, per rendere veramente giustizia a chi ha subito violenza estrema. Altrimenti Caino continuerà a ridersi della legge degli uomini (quella divina è amministrata da Chi non ha bisogno di suggerimenti) ed Abele continuerà a chiedersi per l’eternità perché qualcuno non  insorga una volta per tutte a gridare forte e chiaro “Nessuno tocchi Abele!”.

 

Rocco Tedino         

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