Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
8 marzo 2013 5 08 /03 /marzo /2013 17:04

Mi accade, talvolta, di formulare un pensiero, un interrogativo, magari di scarso interesse, che poi scava un piccola nicchia in qualche angolino tranquillo della memoria, vi si annida e rimane lì, quieto ed inoffensivo ospite, a lievitare come un seme depositato nell’esiguo pugno di terra di un vaso da fiori. A volte appassisce e muore per manifesto disinteresse successivo, in altre occasioni attecchisce e lentamente si irrobustisce, fino a sovrastare prepotentemente ogni altro pensiero. Negli ultimi giorni si è verificata proprio un’eventualità del secondo tipo. Una domanda ha cominciato a frullarmi nella mente e adesso preme per ottenere una risposta:

chi, e perché, ha stabilito che la razza bianca sia superiore a qualsiasi altra razza nel mondo conosciuto? 

Come è nata questa convinzione e perché si è radicata nel pensare comune fino a diventare, in tanti cervelli apparentemente saldi, un dato di fatto incontestabile, addotto addirittura a giustificazione di inenarrabili nefandezze socio-politiche? Ho cercato di documentarmi adeguatamente sul tema, ma devo mestamente confessare che nessuno scritto mi ha fornito una spiegazione soddisfacente. Sarà sicuramente dipeso dalla mia incapacità di cercare tra le carte giuste. Ho imparato, ad esempio, che si definisce razza ogni raggruppamento di individui costituito in modo empirico – cioè, fondato su dati derivanti dalla pratica e dall’esperienza immediata – partendo dalla base di caratteri somatici esteriori comuni ad un gran numero di persone. E ho anche letto, da qualche parte, che noi bianchi siamo migliori, privilegiati o superiori rispetto alle persone di etnia diversa perché “…nel corso dei secoli abbiamo portato loro la civiltà e il progresso...” Proprio così! Chiunque ne sia l’autore, può vantarsi di aver coniato  un’affermazione talmente idiota da meritare una menzione nel Guinnes dei primati. La cosa più raziocinante da fare sarebbe quella di passare oltre, ma voglio invece divertirmi  a sbirciare nelle pieghe della Storia per ricostruire, ispirandomi ai tanti scritti esistenti sull’argomento, una scena avvenuta con frequenza sulle coste delle Americhe  tra il XV e il XVII secolo. Puntiamo, quindi, la nostra attenzione sulla rena allora  pulita di una spiaggia del Messico. 

Tre galeoni imponenti, panciuti, avanzano alti su un mare sonnacchioso, appena increspato in corrispondenza delle candide creste di onde che ne sembrano rabbrividire. Le vedette hanno già avvistato il tratto di  litorale oltre il quale si allarga una vasta distesa di rena chiarissima, delimitata lungo tutto il suo perimetro da una folta e lussureggiante foresta. L’aria immobile rimanda suoni sconosciuti agli invasori, che spiano i dintorni, tradendo qualche segno di apprensione. Sulle navi la tensione monta lentamente. A circa un miglio dalla riva, le tre gigantesche imbarcazioni gettano le ancore e manovrano in modo che le loro fiancate irte di cannoni siano in condizione di spazzare la spiaggia con il loro micidiale volume di fuoco. Poco dopo, una capace scialuppa, che inalbera le insegne del comandante supremo, viene calata in acqua e si dirige con comprensibile circospezione verso quel  lontano e biancheggiante tratto di costa sabbioso, che appare completamente deserto. I naviganti lanciano occhiate acute in ogni direzione. Giunti all’altezza del bagnasciuga, alcuni di loro balzano in acqua e trascinano il pesante natante all’asciutto, sulla sabbia. Una figura alta, barbuta, completamente ricoperta da una lucente armatura sbarca con movimenti lenti, quasi ieratici, e si inginocchia: è Hernán Cortés, il comandante in capo della spedizione, il duce dei conquistadores. Cortés si fa il segno della croce e, con voce chiara e squillante, pronuncia la formula di rito, l’apriti Sesamo che gli spagnoli hanno artificiosamente coniato per giustificare la ruberia: 

“Io prendo possesso di queste terre in nome di Dio e della graziosa maestà il re di Castiglia”.  

Subito dopo, si materializza un frate missionario, per solito un domenicano, il quale benedice le armi spagnole e garantisce ad ogni comportamento successivo l’automatica  assoluzione da qualsiasi peccato mediante il semplice espediente di presentare l’intera operazione militare come espressione della volontà di Nostro Signore: tutto, cioè, si pone in opera ad majorem Dei gloriam. Chissà  come si sentivano protetti e giustificati nel loro agire i fomentatori di disordini di ogni genere, potendo vantare, a loro dire,  uno sponsor di tale importanza e potenza… (A proposito, avete notato che le imprese militari più gloriose e cruente della storia dell’umanità sono state quasi sempre intraprese, a sentire i loro patrocinatori, per la maggior gloria della grandezza di Dio? L’ultimo, eclatante esempio è venuto dalle SS hitleriane che ostentavano sulla fibbia dei loro cinturoni l’estremo oltraggio “Gott mit uns”…). 

Torniamo a Cortés e ai suoi portatori di pace, progresso e civiltà nel nome di Dio. Preso possesso della spiaggia con quella inequivocabile dichiarazione, i terrificanti stranieri sciamano verso l’interno, allungano le loro rapaci mani su sterminati territori, eliminano senza alcuno scrupolo i nativi, razziano tutto il possibile in oro, gioielli e oggetti preziosi,  dopodiché ritornano, dopo anni di angherie innominabili, alle loro case in Europa. Ma chi erano i conquistadores? Bernal Diaz del Castillo, cronista della spedizione di Hernán Cortés del 1519, nella sua opera “Historia verdadera de la conquista de la Nueva España” spiega che il termine conquistadores era usato per riferirsi ai soldati, agli esploratori ed agli avventurieri che portarono gran parte delle Americhe sotto il controllo dell’impero coloniale spagnolo tra il XV e il XVII secolo (la medesima azione fu svolta dai portoghesi prevalentemente in Sud America). 

«Siamo venuti per servire Dio e il re…ed anche per diventare ricchi». Così il citato Bernal Diaz maliziosamente riassumeva la filosofia di vita dei conquistadores che non erano davvero i conquistatori che volevano far credere. Essi agivano per conto del Regno di Castiglia, si davano un sacco di arie da gran signori, ma si trattava pur sempre di spiantati, di nobili decaduti, di figli cadetti arruolatisi nell’esercito in quanto le prospettive di successo e di ricchezza, nella Spagna successiva alla scoperta dell’America erano estremamente limitate. Molti di loro - non si sa quanto spinti da radicate convinzioni personali oppure, molto più probabilmente, influenzati dalle infiammate prediche di ecclesiastici di bassa forza – consideravano la conquista del Nuovo Mondo come una crociata contro i «pagani» non ancora convertiti al cattolicesimo e, perciò, votati a subire qualsiasi misura i nuovi arrivati intendessero adottare allo scopo di riportare quei reprobi sulla salvifica via che essi stessi indicavano, sempre nel nome di Dio. E pazienza se ogni tanto i salvatori di tante anime perse si vedevano costretti a far intendere ragione a quelle teste dure spaccandone qualcuna…Del resto, il loro grido di battaglia era estremamente significativo: prima di scagliarsi contro i nativi americani invocavano «Santiago Matamoros», cioè San Giacomo l’uccisore dei Mori. Nei primi decenni del 1500, gli indigeni delle Americhe dovettero dunque sopportare la catastrofica presenza di soldati-esploratori, di avventurieri privi di ogni scrupolo morale, di frati che si dedicavano all’evangelizzazione sull’esempio di quel campione di moderazione e di carità cristiana che fu il loro grande inquisitore Tomás de Torquemada. Era fatale che alla fine gli invasori prevalessero, poiché potevano mettere in campo armi (i famigerati archibugi) che terrorizzavano i nativi, i quali mai avevano avuto a che fare con quegli strani arnesi: li vedevano sbuffare improvvise ondate di fumo puzzolente, li sentivano emettere fragorosi botti ed ecco che un loro compagno crollava a terra morto, senza che nessun nemico si notasse nelle vicinanze! E da dove uscivano quegli spaventosi  animali che formavano un mostruoso gruppo unico con le facce bianche venute dal mare e volavano sul terreno con le loro quattro lunghe zampe, producendo un impressionante rumore di tuono? La storiografia moderna, però, è orientata a trovare in un fattore ben preciso, e probabilmente definitivo, la vera causa della conquista e della sottomissione degli imperi dell’America latina da parte degli europei, un fattore molto diverso dalle letali nuove armi e dagli sconosciuti cavalli: la diffusione di malattie e infezioni contro le quali gli indigeni non possedevano le difese immunitarie adatte a contrastarle. La divulgazione nelle Americhe di quei tipi di patologia furono la principale causa di una terrificante catastrofe demografica. Malattie come il vaiolo e la peste sterminarono le popolazioni, poiché l’organismo di queste ultime non possedeva difese immunitarie in grado di organizzare un’efficace risposta all’attacco di elementi di natura batterica e virale. Alcuni ricercatori americani hanno dichiarato che quando Cortés sbarcò in Messico, la popolazione della regione assommava a 25,2 milioni di persone: cento anni più tardi gli stessi abitanti erano ridotti a meno di un milione! Siamo o non siamo in pieno genocidio?

E non è che andasse meglio col colonialismo in Africa. Nella seconda metà del XIX secolo si assistette ad una vera e propria spartizione del cosiddetto “Continente nero” da parte di Francia e Gran Bretagna seguite, in misura minore, da Germania, Portogallo, Italia, Belgio e Spagna. Le potenze coloniali che organizzavano quelle spedizioni, dirette a coinvolgere i popoli arretrati stanziati oltre il deserto del Sahara, le chiamavano “missioni civilizzatrici”, altisonante definizione che nascondeva il solito, squallido scopo di sempre: sfruttare le riserve naturali del continente, arricchirsi a spese di quella povera gente vessata in ogni modo, riempire le stive delle navi con oro, pelli, avorio, legni pregiati, caffè, pietre preziose e via rapinando. La vendita sui mercati europei di tutto quel ben di Dio avrebbe gonfiato sensibilmente le tasche di questo altro tipo di benefattori dell’umanità. Sì, perché le tanto virtuose e tanto sbandierate “missioni civilizzatrici” abbinano il colonialismo commerciale con il ributtante traffico di schiavi. Tra il XV e il XVIII secolo, un gran numero di indigeni (circa 11 milioni) viene rastrellato con incursioni nelle tribù africane da parte dei mercanti di schiavi europei, i famigerati negrieri. Quegli sventurati, imbarcati in condizioni disumane sulle navi che solcano l’Atlantico, vengono sbarcati sulle coste americane come schiavi adibiti alla coltura delle piantagioni di cotone e di tabacco. L’abominevole traffico procura introiti notevolissimi ai suoi criminali praticanti, ma produce anche nefaste conseguenze sullo sviluppo dell’Africa a causa dell’intervento dei bianchi: impoverimento dei popoli neri delle colonie, sia in termini economici che culturali; distruzione della cultura, dello stile di vita, delle tradizioni e delle credenze religiose delle popolazioni indigene; sfruttamento selvaggio ed intensivo delle ricche risorse naturali, fino all’esaurimento. Inoltre, la  soggezione politica  imposta dai bianchi colonizzatori ai neri ha impedito per lunghissimi periodi a questi ultimi di sviluppare una coscienza politica nazionale e di sapersi governare autonomamente.

Abbiamo, dunque, stabilito abbastanza chiaramente che noi bianchi non abbiamo fatto proprio niente a favore di tanti altri popoli, che hanno la pelle di colore diverso dalla nostra, per arrogarci il diritto di crederci superiori a loro. Il degradante fenomeno della schiavitù praticata su larga scala, in supremo dispregio delle leggi umane e divine, è stato ormai debellato sin dalla metà dell’800, quando la sua pratica subì un fierissimo colpo dalla guerra civile americana, quella famosa combattuta tra i nordisti e i sudisti di tanti epici film.  Ė vero che il colonialismo commerciale continuò per altro tempo ancora (ricordate quella innominabile parodia di “impero tornato sui colli fatali di Roma”, come recitavano gli ossessionanti slogan del regime fascista che nel contempo spingeva gli italiani ad occupare sollecitamente il loro posto al sole in Africa?), poi l’epilogo della seconda guerra mondiale spazzò via gli ultimi rimasugli di megalomanie coloniali ed anche gli imperi, veri o fittizi che fossero, scoppiarono come palloncini tra le mani di chi già si vedeva percorrerli in lungo e in largo con una corona d’alloro sulla testa, alla moda dei Cesari…Ma intanto aveva preso piede un altro tipo di razzismo, più subdolo e strisciante del precedente. I visi pallidi, annientati gli indiani in America, in Africa ed in Asia (l’India degli inglesi e di Gandhi), avevano scoperto che in Europa allignavano torbidi progenie di individui altamente nocivi per la purezza di una razza, quella ariana, che fino ad allora aveva galleggiato nell’anonimato. A scoprire siffatta sconvolgente realtà furono persone profondamente versate nello studio della genetica, quali Adolf Hitler e i suoi nazisti E non scoprirono solo questo. Appurarono anche che tra i maggiori responsabili di questa inammissibile contaminazione si contavano gli ebrei, gli appartenenti alle etnie slave e centinaia di  migliaia di altri sventurati, afflitti da anomalie fisiche o psichiche. Urgeva intervenire immediatamente, e senza debolezze, imponendo con ogni mezzo il mito della superiorità del tipo ariano, un individuo appartenente ad una razza che si era estesa dall’Europa centro-settentrionale fino all’Asia. L’ariano vantava una preminenza culturale e biologica  innegabile  su qualsiasi altra razza, vaneggiavano i nazisti, soprattutto su quella ebrea, che doveva essere cancellata dalla faccia della terra. Nessuno ebbe il coraggio di far chiaramente presente al capo dei tedeschi che il concetto di razza è privo di qualsiasi fondamento che lo colleghi alla genetica, cioè a quella parte della biologia che studia le basi morfologiche e chimiche della trasmissione dei caratteri ereditari degli esseri viventi. In parole molto più semplici, non esistono razze superiori o inferiori perché qualsiasi classificazione del genere non poggia su basi scientifiche. Non è un caso, del resto, che ai tempi nostri il termine razza è sempre più spesso sostituito da quello più appropriato di etnia. Dicevamo che nessuno, in Germania, ebbe il coraggio di avvertire Hitler che la sua era una scusa smaccata per perseguitare milioni di persone a lui invise per motivi che nulla avevano a che fare con le origini etniche e così tante zone dell’Europa occupata da quei tristi figuri con la svastica sul braccio si popolarono di orribili luoghi di torture, negazione della dignità umana e morte: i campi di sterminio. Ė giusto ricordare che, quando qui da noi, nel 1938, furono promulgate le “leggi razziali” ad opera dei fascisti genuflessi davanti ai nazisti, il popolo italiano dimostrò, nel suo complesso, di non essere razzista, fatta ovvia eccezione per quelli dei suoi che lo stesso Mussolini definì “utili idioti”:  servi del potere che si riscaldano al sole riflesso del capo, del quale sostengono acriticamente ogni iniziativa, divulgano ogni cialtroneria, giustificano ogni presa di posizione.

Oggi, purtroppo,  le cronache registrano sempre più frequentemente episodi che la logica, e il codice penale, classificano alla voce “insulti razziali”. Si va dai cori offensivi e dai “buuu” di dileggio indirizzati in uno stadio al calciatore di colore, allo sferzante epiteto “vai via, sporco negro” sibilato all’indirizzo dell’extracomunitario che chiede un piccolo aiuto economico, al gesto di violenza fisica compiuto ai danni di una ragazza sola ed indifesa, mentre divertiti spettatori sghignazzano ed incitano a caricare la dose, magari riprendendo essere in tanti contro uno e assicurarsi che ci sia una via di scampo, nel caso le cose si mettessero così male da costringere quei vigliacchi a sottrarsi con la fuga alle conseguenze  della loro mascalzonata. Non è una tattica inedita, è la linea di condotta adottata abitualmente da certe persone violente che si riuniscono in uno di quei gruppi  tristemente noti col nome di branco. Qual è, a conti fatti, la teoria che orienta ogni mossa di quegli ignobili individui che si sentono forti soltanto quando si avventano in frotta  su una preda indifesa? Semplice: la ricerca di un nemico da inserire in una categoria particolare e la sua “bestializzazione” (M. Hewstone: «Teoria dell’attribuzione»). L’individuazione del nemico permette la coesione di gruppo, sposta all’esterno i conflitti interni al gruppo, canalizza l’aggressività e quindi la protesta. Il “nemico” è tutto ciò che è altro, è il “diverso” preferibilmente individuato per il colore della pelle, per i tratti somatici e la religione. Sembra di leggere il manuale del perfetto nazifascista…

Ecco, oggi si incita all’odio razziale in base a questi principi. Neanche queste aberranti enunciazioni, tuttavia, spiegano perché la razza bianca debba sentirsi superiore a tutte le altre. Mi viene un dubbio: non sarà che non si trovano motivazioni a sostegno di questa tesi perché questa non è la verità?

A questo punto chiediamo aiuto alla poesia per scacciare il cattivo gusto che lasciano in bocca certe bassezze morali e godiamoci il dolente, vibrante sfogo di Shylock, il “Mercante di Venezia”, eccelsamente cesellato dall’arte inarrivabile di Shakespeare:

“…Egli m’ha vilipeso in tutti i modi (…), ha mostrato di spregiar la mia razza, ha stornato da me i miei buoni amici, così come ha aizzati e provocati i miei nemici. E tutto questo per quale ragione? Perché sono ebreo. E che dunque? non ha forse occhi un ebreo? non  ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? non viene ferito forse dalle stesse armi? non è soggetto alle sue stesse malattie? non è curato e guarito dagli stessi rimedi? e non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? se ci pungete non versiam sangue, forse? se ci avvelenate non veniamo a morte?...” 

Parole bellissime, sulle quali troppa gente dovrebbe meditare!

 

Rocco Tedino      

Condividi post
Repost0
10 febbraio 2013 7 10 /02 /febbraio /2013 17:33

I rintocchi della campana, che chiamava i fedeli alla messa di metà mattinata, si diffusero nell’aria gelida che aveva trasformato il villaggio di Tarrascona in un deserto. I loro echi metallici si perdevano giù per i dirupi scavati sulle pendici dell’imponente catena montuosa che chiudeva da tre lati la fertile Valle d’Aran attraversata da un tumultuoso fiume, gonfio delle acque scese dalle cime innevate. Sotto il timido sole invernale, gruppi di uomini, donne e bambini si diressero verso la chiesa e ristettero davanti all’alta porta chiusa, in attesa che il sacrestano la spalancasse. Il massiccio edificio, di pietra grezza e senza ornamenti, era costituito da un unico complesso rettangolare, le cui scarne linee erano interrotte dalla grossolana torre campanaria che si innalzava su uno dei lati della costruzione. La piazza lì davanti si affacciava sulle intricate gole che scendevano a valle dal Picco d’Estats, la grandiosa cima dei Pirenei catalani. In direzione  dei monti, invece, salivano sinuosamente vicoli e stradelle fiancheggiati da grappoli di case sulle cui facciate, imbiancate a calce, occhieggiavano piccole finestre. Tutte le abitazioni di Tarrascona  erano coperte da tetti a terrazzo, invasi da comignoli tondi e, nella bella stagione, da distese di peperoni, fichi ed uva messi ad essiccare al sole.

Beandosi al calore delle scoppiettanti fiamme che  si contorcevano nel caminetto del bar che si trovava in un angolo della piazza, a poca distanza dalla chiesa, il señor Arthur Coimbra stava mescolando lo zucchero nella tazzina di caffè, che il cameriere gli aveva appena consegnato, e la puntigliosa meticolosità  con cui compiva l’operazione era segno palese di angustia profonda. Un pensiero, in particolare, agitava i pensieri di quell’austero burocrate:  l’indomani avrebbe dovuto inviare alla Sede Centrale delle Poste di Barcellona la sua istanza di congedo dalla carica di funzionario delle Poste Reali. La pratica avrebbe concluso il suo iter  burocratico dopo circa un mese e da quel momento un altro impiegato si sarebbe seduto ogni mattina, dalle otto alle sedici, alla scrivania del minuscolo ufficio, posto che Coimbra aveva occupato per ben quarantasette anni del suo stato di dipendente statale.  Ma gli anni di servizio, condotto sempre in maniera seria e scrupolosa, si erano accumulati uno sull’altro in punta di piedi ed infine era arrivato il tanto temuto momento di dover affrontare la triste realtà. Come recitava un paragrafo dell’ampollosa lettera  pervenuta all’indirizzo di Coimbra una quindicina di giorni addietro:

“… Il Direttore di prima classe dell’ufficio postale di Tarrascona, signor Arthur Coimbra, viene posto in congedo illimitato per raggiunti limiti d’età. La data di cessazione delle prestazioni di lavoro alle dipendenze delle Poste decorre a far luogo dal primo giorno del mese di dicembre. Entro la seconda metà del mese di novembre, il Direttore signor Coimbra è pregato di inoltrare alla Sede Centrale del capoluogo distrettuale la sua istanza  di congedo, come da prassi statutaria interna …”

Quella asettica e protocollare missiva riposava adesso nella tasca interna della sua finanziera e Coimbra poteva seguire i contorni della spessa busta passandovi sopra i polpastrelli. Poi lo stesso gesto veniva dedicato ai bottoni di quella giubba nera a doppio petto, lunga fino a metà coscia, che il regolamento delle Poste e Telegrafi imponeva ai suoi impiegati e che Coimbra considerava da tempo come la sua divisa ufficiale. Esibirla in pubblico gli procurava un intimo appagamento, secondo soltanto al  piacere che gli derivava dall’essere chiamato “señor telegrafo”,come usava fare, ormai da lunghi anni, la maggior parte degli abitanti del villaggio, esprimendo con quel curioso appellativo non già  un irriguardoso dileggio, bensì un rispetto totale e sincero nei confronti dell’autorità. Perché tale era considerato, dai suoi compaesani, il direttore della posta di Tarrascona: un’autorità, cui rivolgersi per chiedere consigli e pareri anche non concernenti la sua attività specifica.

Mentre questi pensieri frullavano nella sua mente come passeri evoluenti in voli disordinati, Coimbra sospirò al pensiero che presto avrebbe dovuto riconsegnare ad un ignoto sostituto venuto da Barcellona la sua divisa, le chiavi dell’ufficio,  i registri…in definitiva,  tutto il materiale in mezzo al quale egli era vissuto per quasi metà secolo e che aveva finito per considerare il suo mondo. Tra meno di un mese, il “señor telegrafo” sarebbe un giorno apparso al Bar Fuentes vestito dei semplici panni indossati da quasi tutti gli altri paesani e, come gli altri, avrebbe dovuto far  la fila presso l’unico sportello dell’ufficio postale nel giorno di ritiro della pensione. Nessuno, inoltre,  l’avrebbe più salutato con un deferente e scherzoso…

“Buona giornata, señor telegrafo!”.

Coimbra si voltò di scatto, confuso e turbato: che la sua immaginazione gli avesse fatto uno scherzo da gag cinematografica,  rivestendo di effetti sonori un pensiero che sarebbe dovuto rimanere inespresso nella sua mente? Niente di tutto ciò. Nel bar erano entrati Jorge Marquez e Ramon Barreto, due giovani che Coimbra conosceva molto bene e che  gli erano sempre sembrati particolarmente affiatati, in cerca di continue opportunità per raggranellare qualche soldino e accomunati dallo stesso anelito di andarsene  da Tarrascona, senza esservi mai riuscirvi, almeno fino a quel giorno..

L’impiegato postale ricambiò svogliatamente il saluto dei nuovi entrati e tornò alle sue tristezze, mentre i due giovani si sedevano ad un tavolino. Al cameriere, subito accorso, ordinarono due bicchieri di ratafìa, liquore tipico del territorio della Catalogna, elaborato con noci fresche e piante aromatiche. Quando furono serviti, ingollarono un robusto sorso della fragrante bevanda, poi si adagiarono contro lo schienale della sedia e appuntarono lo sguardo sulla piazza, oltre l’ampia vetrata che sostituiva un bel tratto di parete, osservando alquanto distrattamente lo sciamare di tutte quelle persone dirette verso la chiesa.

“Guarda quanta gente va ad ascoltare la messa”.

L’osservazione era venuta da Jorge e svelava una buona dose di sarcasmo. Il giovanotto, infatti, amava assumere sovente artefatte pose di mangiapreti, specialmente da quando si era abbonato ad una rivista di Barcellona che sventolava protervamente la bandiera dell’anticlericalismo, facendo sufficienti proseliti per proclamare con orgoglio che il dominio della Chiesa si avviava al termine. Jorge era un bel ragazzo, disinvolto e spigliato. Il suo modo di fare affascinava le donne, non meno del suo modo di vestire, controllato fin nei minimi particolari con una cura addirittura maniacale. Un tempo, la sua famiglia, di discendenze aristocratiche, era stata ricca ed influente, grazie quasi esclusivamente alla lungimiranza ed al buon governo della mamma. Alla morte di costei, Jorge, ancora adolescente, era entrato nell’orbita affettiva del padre, piuttosto tiepido fino a quel momento.  Questi aveva saputo  insegnare al figlio un’unica cosa: un soldo in mano è un soldo da spendere. Jorge aveva iniziato a vivere nel completo rispetto di tale edificante insegnamento, imitando il genitore nello spendere senza misura né criterio, ma il destino si era incaricato di dimostrare al ragazzo che l’arte dello scialacquare può portare da un momento all’altro alla rovina. Una mattina, il gaudente signor  Marquez era caduto rovinosamente da cavallo e a Jorge erano rimasti un salato conto da pagare all’impresario delle pompe funebri che si era occupato del funerale, il castello di famiglia, che cominciava a mostrare preoccupanti testimonianze delle ingiurie del tempo e una montagna di debiti più alta della torre più alta del suddetto castello. Nel giro di una dozzina di giorni, tuttavia, i creditori lo liberarono dall’assillo di rimettere in sesto il maniero avito, portandoglielo via per ordine del tribunale, e successivamente si offrirono generosamente di occuparsi anche del governo dei sette cavalli, tra cui tre purosangue, ancora presenti nelle stalle.  In compenso, concessero al giovane la facoltà di ritirarsi a vivere nella dependance del castello, uno scolorito edificio comprendente tre camere e servizi, seppellito nel folto di un bosco a mezzo chilometro dal complesso principale. Jorge, ormai maggiorenne, mise insieme un po’ di soldi, vendendo alcuni oggetti personali di un certo valore, e saltò su un treno diretto nella  capitale con l’intenzione di arruolarsi nella Policia Nacional . Nei suoi ranghi prestò onorato servizio per dieci anni, congedandosi al termine di una carriera alquanto avara di soddisfazioni altisonanti. Tornato al villaggio a bordo di una vistosa automobile,  vinta ad un collega nel corso di una memorabile partita a poker, Jorge trascorse qualche mese ad esibire il suo elegante guardaroba e le sue squisite maniere di raffinato viveur, assolutamente irresistibili in un  villaggio all’antica come Tarrascona. Una sera, mezzo ubriaco, rischiò di attaccare briga con un gendarme nell’osteria di mamma Consuelo e fu Ramon a trascinarlo fuori prima che l’imbufalito difensore della legge lo sbattesse in una buia e sudicia cella delle locali prigioni. Da quella volta, Jorge trascorse sempre più tempo con il suo nuovo amico, raggiungendolo spesso nella sua fattoria, che sopravviveva soprattutto grazie all’allevamento dei maiali. Non che Ramon fosse ricco oppure che l’attribuzione di “fattoria” applicata alla sua cascina piccola e trascurata la trasformasse d’incanto in una azienda agricola composta da più poderi e da un complesso di fabbricati all’avanguardia. Ramon, oltretutto, non si sarebbe mai aggiudicato il primo posto in una classifica ideale stilata per premiare il più contadino più laborioso del reame: non era affatto tagliato per fare l’agricoltore e avrebbe venduto tutto senza stare lì a pensarci sopra, se avesse trovato uno straccio di acquirente.

No, a Jorge la fattoria interessava perché egli aveva maturato un certo progettino già nella prima occasione in cui aveva messo piede a “Las Palmas”, il pretenzioso nome imposto non si sa da chi alla casa colonica, per via di due sparuti alberi di palma piazzati ai due lati del portone d’ingresso, come due monumenti alla macilenza. Quel giorno Jorge decise di mettere a parte il suo amico del proposito che gli frullava in mente da qualche tempo. Distolse lo sguardo dalla piazza ormai deserta, dopo che i rintocchi imperiosi dell’ultima campana avevano spinto i ritardatari  ad accelerare il passo per raggiungere il sacro edificio, e lo piantò negli occhi di Ramon, che intanto stava osservando con malcelato interesse una bella ragazza del paese entrata a concertare con il padrone del bar l’orario migliore in cui iniziare le pulizie nel locale dopo la chiusura serale.

“Nella tua fattoria c’è uno stagno, Ramon” – esordì il giovanotto, con il tono risolutivo di chi divulga informazioni della massima segretezza.

Il suo amico lo guardò con l’aria perplessa di chi si sente improvvisamente dire che dopo il giorno arriva la notte e rispose con divertita condiscendenza:

“Jorge, fin qui non sei riuscito certo a sbalordirmi. Io sono cresciuto in quella fattoria e so benissimo che sul margine della spianata prospiciente le stalle c’è uno stagno, sebbene io creda che chiamarlo stagno voglia dire fare dello spirito. L’asfittico ruscello che scorre all’interno dei confini, lungo la strada ferrata,  forma una specie di pozza, più una palude che uno stagno vero e proprio. Per di più, tutt’intorno grava un tremendo puzzo di zolfo.”

“Forse in origine era una sorgente minerale…” – sussurrò Jorge, di colpo perso dietro ad un altro affascinante sviluppo della situazione. Ramon scosse la testa come per scacciare un pensiero assurdo e dichiarò:

“Può darsi, ma mi sembra improbabile. Tutto quello che so è che non ho mai visto un uccello posarsi sulle sue rive per bere e che perfino i porci preferiscono mantenersene alla larga.”

“I porci non hanno il senso degli affari e nemmeno la percezione dell’importanza di un miracolo. Noi dobbiamo fare in modo che la gente spenda i suoi soldi intorno al tuo stagno…” Jorge non fece in tempo a completare l’esposizione della sua idea perché Ramon si sporse in avanti e si fermò a dieci centimetri dal suo viso; quindi sillabò con  calma esagerata:

“Di quale accidenti di miracolo stai parlando, si può sapere?”

Jorge non rispose subito. Si rendeva conto che il suo piano correva il rischio di franare in qualsiasi momento, a meno che  egli non riuscisse a fare breccia rapidamente  nella diffidenza dell’amico. Così, tirò un lungo sospiro e si accinse a spiegare con calma e  dettagliatamente il suo progetto.  Ingollò un altro sorso di liquore e cominciò:

“Ascolta, Ramon, a me è venuta un’idea che può aiutarci a fare un mucchio di soldi. Nei dieci anni trascorsi a Barcellona con la divisa della Policia Nacional addosso,  ho visto uomini che campavano facendo schizzare le loro ossa in tutte le direzioni, in dentro e in fuori, come se fossero polli da preparare per mettere in pentola. Alcuni mettevano a frutto le loro deprecabili capacità piazzandosi all’angolo di qualche chiesa e  chiedendo l’elemosina; altri, più avveduti, si offrivano come contorsionisti nei circhi, diventando autentiche attrazioni. Supponiamo, a questo punto, che io mi metta d’accordo con qualcuno di questi fenomeni da baraccone e lo inviti qui a “Las Palmas”. Il finto storpio arriva tutto contorto come un ulivo,  si avvicina allo stagno, respira un po’ di quest’aria mefitica, che egli si affretta a definire  ricca di  inspiegabili effluvi arcani, e si ritrova immerso in una mistica visione che gli ordina di bere un bicchiere d’acqua prelevata dalla pozza. Qualche minuto dopo, simula un leggero mancamento di coscienza dal quale comunque si riprende subito, si guarda intorno con aria smarrita e sconcertata, poi realizza che può mettersi dritto e camminare normalmente e allora scoppia la festa. Salti di gioia, manifestazioni di irrefrenabile incredulità e soprattutto urla entusiastiche che martellano su un concetto unico: c’è stato un miracolo, io sono un miracolato, l’acqua dello stagno ha fatto il miracolo! La voce si sparge, la gente arriva, si convince che qui si è veramente verificato un fatto prodigioso e comincia a lasciare soldi per avere le cose più disparate. Che ne dici?”

Jorge si interruppe, leggermente ansante. La visione di folle disposte a pagare per godere degli influssi di un miracolo, lo aveva trasportato in una dimensione onirica, da sogno colorato del rosa simbolo dell’ottimismo. Ma gli bastò rivolgere un’occhiata alla faccia di Ramon, sulla quale si era allargata un’espressione fortemente dubbiosa…un’espressione che non accordava un atomo  di fiducia al progetto appena esposto…per  gettarlo nello scoramento. Nondimeno, non volle arrendersi e tentò ancora di indagare:

“Che cos’è che non ti convince nel mio piano, Ramon? Parla chiaramente, forse riusciamo a trovare una soluzione insieme.”

L’altro si alzò, fece qualche passo in silenzio, lo sguardo fisso sulle giogaie che svettavano sopra la linea dell’orizzonte.  Poi si voltò di scatto e proruppe tutto d’un fiato:

“Effettivamente c’è una cosa che non mi convince affatto ed è un aspetto della storia che ritengo fondamentale. Hai per caso scordato che dove si grida al miracolo compare senza fallo un prete che blocca immediatamente la faccenda, mettendo in campo una marea di obiezioni? Ti sei chiesto, ad esempio, come la prenderà il vescovo? Non possiamo sfidare la Chiesa e tutto ciò che è sacro!”

“Tutto qui, caro amico?” – la voce di Jorge trasudava sollievo e allegria – “Mi parli del Vescovo ed è il mio turno di porgere una domanda a te: hai forse dimenticato che ho indossato per dieci anni una divisa militare a Barcellona e che ho avuto a che fare con tutte le autorità civili e religiose della capitale? Non puoi neppure lontanamente immaginare quanti occhi ho dovuto chiudere, per disposizione dei superiori, di fronte a intrighi, maneggi, inciuci, accomodamenti e compromessi in cui si erano trovati invischiati personaggi assolutamente insospettabili, colonne del viver retto, maestri della giusta morale, persone unanimemente considerate modelli di rettitudine e di adamantina onestà! E fra loro c’era anche il tuo intangibile Vescovo, egregio Ramon! Stai tranquillo, l’esimio principe della Chiesa non ci romperà le uova nel paniere, dopo che gli avrò parlato e ,lo avrò convinto che certi scheletri sarà meglio farli continuare a riposare negli armadi in cui giacciono coperti dalla polvere dell’oblio.”

“Vuoi ricattarlo?”. L’enormità della cosa colpì talmente Ramon da farlo parlare con voce diventata improvvisamente roca.

Jorge rise di gusto:

“Amico mio, ma chi credi che siamo diventati, noi due, malfattori da galera a vita? No, niente ricatti. Farò semplicemente cadere qualche acconcia parolina nell’orecchio del nostro sant’uomo e vedrai che potremo fare tranquillamente assegnamento su di lui.”

“Certo, se riuscissimo davvero a tirare il vescovo dalla nostra parte…”

Il tono di Ramon era ancora titubante, ma già qualche crepa affiorava nel compatto muro di inaccettabilità  che aveva accolto inizialmente la proposta di Jorge. Questi se ne accorse e decise di allargarla:

“Ramon, amico mio, rifletti su come vanno le cose a questo mondo. Per le strade di Barcellona i ciechi non sono ciechi, gli storpi non sono storpi e tutti i mendicanti sono ricchi. Perciò, anche se i miracoli di “Las Palmas” non sono proprio miracoli, non renderemo forse il nostro villaggio più simile alla grande e bella capitale? Non senti stuzzicarti dall’orgoglio civico?”

“Per  niente.”

“Considera allora quanto denaro  si può ricavare da un’impresa del genere.” - Jorge sentiva che stava cominciando a sudare,  nello sforzo di mantenersi calmo e non trasformare Ramon in un vero disabile – “Denaro sufficiente per farci lasciare Tarrascona e andarcene ovunque ci piaccia…”

“Questo è un argomento che mi interessa. Continua.” - concesse Ramon , magnanimo. Quindi riprese: “Ammettiamo che il vescovo stia davvero dalla nostra parte: se fosse lui a proclamare che i miracoli si verificano per volere del cielo, chi oserebbe avanzare dei dubbi? Potremmo costruire una fontana per incanalare l’acqua, una cappella, tanto per iniziare, dove i fedeli si raccoglierebbero in preghiera. Ah, e poi potremmo far pagare il biglietto d’ingresso…”

Jorge lo guardava, mentre un sorrisino ironico affiorava sulle sue labbra. “Eccolo lì - si disse – quello che all’inizio si era scandalizzato come una verginella trascinata in una casa equivoca. Adesso vorrebbe addirittura far pagare il biglietto, neanche fossimo al cinema!”. Ma tenne per sé quella considerazione e rispose:

“No, Ramon,  mi sembra grossolano richiedere ai devoti di sborsare una certa somma per ammirare l’opera dell’Onnipotente. Incasseremo lo stesso tanti soldi vendendo articoli religiosi.”

“Hai ragione, socio, il campionario offre una vasta scelta: coroncine del Rosario immerse in quell’acqua benedetta, bibbie, vangeli, medagliette dei santi, vasellame fabbricato con l’argilla della riva…Quello stagno sta per diventare la Banca di Catalogna!”

“Siamo ricchi, Ramon!”

Se non si fossero trovati in un bar serio e decoroso, i due si sarebbero scatenati in una danza indiavolata. Ma dovettero frenare il loro entusiasmo. Così ordinarono un’altra ratafìa, accostarono ancora di più le sedie e passarono ad esaminare i dettagli del piano:

“Ci occorrerà più di una dimostrazione” – disse Ramon, che ormai aveva adottato in toto l’idea del suo fantasioso amico. – “Un miracolo solo farà accorrere gente al massimo da Aranquez, quel pugno di case messe in piedi a tre chilometri da qui, mentre una serie di eventi prodigiosi ci porterà turisti e pellegrini da tutta la Spagna.”

“Nessun problema, per questo. Conosco molti infelici, a Barcellona, che guariranno con gioia dalle loro deformità, bevendo alla nostra fontana, se faremo scivolare qualche peseta nelle loro tasche. Ho un amico, nella capitale, sul quale si può fare pieno assegnamento. Domani gli telegraferò tutti i particolari e provvederà lui a tutto.”

“Perfetto!”, approvò soddisfatto Ramon. Poi i due speranzosi, futuri benestanti diedero fondo ai loro bicchieri e si salutarono.

Trascorse qualche giorno, poi nel villaggio si sparse la voce che Jorge volesse vendere qualcuna delle poche cose che gli erano rimaste dalla proprietà di suo padre. La gente immaginò che quei soldi gli occorressero per pagare un nuovo corredo da ordinare al sarto di città, oppure per cambiare autovettura, ma la verità era più semplice: lui e Ramon avevano bisogno di capitali per finanziare la loro impresa. Sul piccolo allevatore di maiali non c’era da fare conto (il mercato di suini era saturo e l’idea di accendere un’ipoteca sulla fattoria era risibile), perciò toccava a Jorge trovare i fondi necessari. Del resto, il suo amico di Barcellona era stato chiaro fino alla brutalità: io mi occupo di prendere tutti gli accordi del caso, ma non ho la minima intenzione di rischiare soldi nell’affare. La palla passò, di conseguenza, a Jorge che avrebbe fatto bene a racimolare con una certa urgenza una congrua somma, visto che il primo contorsionista era già in viaggio alla volta di Tarrascona e voleva essere pagato all’arrivo, come si era premurato di precisare dopo neanche tre minuti dall’inizio dell’incontro di presentazione. Ma il giovane non si preoccupava eccessivamente. La sua immaginazione si beava di visioni rosee, su cui fluttuavano sogni dorati di successo. Si figurava una strada asfaltata che conduceva alla fontana, come veniva ormai indicato nella sua fantasia sovreccitata quello stagno puzzolente; un sontuoso padiglione offriva riposo e refrigerio ai visitatori agiati; un chiosco ben fornito  garantiva inesauribili forniture di dolciumi e panini imbottiti ai pellegrini che lo affollavano…fantasticherie che riscaldavano il cuore, ma che erano lontanissime dal realizzarsi senza il sostegno di quel dannato denaro, che sarà pure “sterco del diavolo”, a dar retta alle Sacre Scritture, ma che in determinati frangenti fa terribilmente comodo!

Il pezzo forte degli oggetti posti in vendita da Jorge consisteva in un antico fucile da caccia, un pezzo di eccellente artigianato realizzato da un armaiolo che aveva lavorato addirittura per la casa reale. Aveva il calcio di lucido ebano, riccamente intarsiato d’argento. Ebbene, quell’arma stupenda interessava moltissimo al señor  Coimbra, che una sera andò a casa di Jorge per chiedergli di vendergliela. Saputo che il giovane si trovava alla fattoria di Ramon, Arthur Coimbra allungò la sua strada e poco dopo imboccava lo stretto viottolo sterrato che sbucava nell’aia de “Las Palmas”. Quando vi arrivò, il telegrafista notò che la fattoria era deserta. Un suono di voci, diffusosi  nella serata calda e senza vento, permise al visitatore di capire che due…anzi no, tre uomini stavano parlando accanto allo stagno. Coimbra vi si avviò e lo raggiunse cautamente, per non farsi sentire ed evitare così di fare la figura dell’impiccione. Intorno a quella maleodorante pozza d’acqua, la vegetazione era folta: l’uomo si accoccolò dietro un cespuglio di more rossastre ed ascoltò.

Jorge e Ramon stavano animatamente discutendo con uno sconosciuto, che ogni tanto veniva chiamato Silva o Esteban. I due compari stavano impartendo al loro amico quelle che sembravano istruzioni dettagliate su un certo modo di comportarsi. Il señor  Coimbra apprese così, con una meraviglia non scevra di incredulità, che i tre stavano concertando uno sconcio imbroglio.

“Tu, Esteban, devi arrivare a Tarrascona nel giorno di martedì della prossima settimana, quando qui si festeggerà Santa Ines de Ferravilla, la Patrona del villaggio.” – Jorge parlava con calma, quasi scandendo le parole, come se volesse che nessun malinteso complicasse l’intesa – “Tu devi cercare di dare il più possibile nell’occhio,  contorcendoti in maniera sconvolgente e spaventosa. Attirerai  certamente una grande folla: tu non smettere di proclamare a voce alta di aver viaggiato per molti chilometri perché una santa visione vi ha svelato che soltanto le acque dello stagno di “Las Palmas” potevano farti tornare un uomo normale. Sarà presente anche il vescovo che ad un certo momento si avvicinerà a te, ti fisserà nel profondo degli occhi ed annuncerà alla folla che hai effettivamente avuto un’ ispirazione celeste. Sarà lui stesso ad incoraggiare la folla a seguirti fin qui per assistere al miracolo.”

“D’accordo, señor, è tutto chiaro. Verrò qui, seguito dalla gente, mi bagnerò nell’acqua e verrò fuori risanato, dritto come un giovane pino.”

“No, Villa,” – si intromise Ramon, che appariva stranamente nervoso – “Non devi bagnarti nell’acqua, devi berla e poi fingere di essere guarito”.

Esteban Villa sembrava difficile da convincere. Il suo sguardo esitante passava dai due amici a quella fossa ricolma di acqua puzzolente e ogni volta la sua espressione si arricchiva di una sfumatura di ribrezzo che faceva temere il fallimento di quello  spettacolo

“Non basterebbe che mi limitassi a spalmare il fango dello stagno sulle mie membra contorte?”

“No!” Il monosillabo crepitò nel silenzio della sera con un sincronismo che sembrava  premeditato: i due giovani avevano risposto simultaneamente. Fu Jorge a spiegare:

“Esteban, devi bere l’acqua perché siamo convinti che possiamo ricavare il massimo guadagno dall’impresa soltanto puntando sull’acqua. Intendiamo imbottigliarla e venderla in tutta la Spagna, se non in tutta Europa, come elisir sacro e come purgativo. Se tu non accetti di cacciar ben bene nella testa della gente che questa roba possiede virtù stupefacenti, il nostro progetto fallisce miseramente e anche tu resti a bocca asciutta.”

Villa chinò la testa, sconfitto e rassegnato. Si era arreso. Raccolse nel cavo della mano una sorsata di quel liquido abominevole e la mandò giù, sforzandosi di non fare troppe smorfie. Tacque per qualche momento ad occhi chiusi, poi lentamente recuperò una soddisfacente padronanza del sue funzioni vitali e ricominciò a discutere le ultime modalità della sua “esibizione” prevista per la settimana successiva. All’improvviso, i suoi interlocutori furono traumatizzati  da un grido da agghiacciare il sangue di un rettile in letargo e si avvidero con orrore che. Villa era piombato a terra, in preda alle convulsioni. Il primo a reagire di fronte alla nuova, drammatica situazione fu Arthur Coimbra. Uscì dal suo nascondiglio e corse verso il duo inebetito. Scostò Ramon e si inginocchiò accanto al rantolante Villa, che non smetteva di contorcersi sul terreno. Mentre cercava di tenere fermo il sofferente individuo, il señor telegrafo spiegava a Jorge che era capitato da quelle parti unicamente perché interessato ad acquistare il suo fucile da caccia. Ma dell’affare avrebbero discusso più tardi, dopo aver recato soccorso a Villa. Costui, nel frattempo, aveva smesso di agitarsi e adesso giaceva al suolo perfettamente immobile. Coimbra si interruppe a mezzo del suo intervento , fissò attentamente il tizio disteso accanto ai suoi piedi, poi sollevò gli occhi colmi di indicibile raccapriccio:

“Quest’uomo è morto e sospetto fortemente che sia stato avvelenato.”

Se lì in mezzo fosse esplosa una bomba, non avrebbe provocato lo stesso sconcerto. Jorge e Ramon  tenevano gli occhi incollati su Coimbra, l’espressione vacua e la mandibola allentata, come i beoti dei cartoni animati. Videro il funzionario distendere, con gesto solenne, il suo mantello sulla forma immobile di Villa, poi se lo trovarono davanti che li interrogava con sguardo inquisitore:

“Allora, giovanotti, di che cosa stavate parlando?”

Ai due meschini non balenò in mente neppure per un attimo  che, in fondo, non erano affari del señor telegrafo. Ramon, in particolare, si lanciò in un immediato resoconto del tiro che avevano organizzato ed in capo ad una manciata di minuti il telegrafista aveva appreso quello che, in fondo, già sapeva. I due giovani erano disperati e non sapevano come uscire da quel complicatissimo ginepraio. Poteva, Coimbra, dare loro qualche buon consiglio?

“Ragazzi, da come la vedo io non avete troppe scelte. Intanto, Villa non era il solo a far parte del complotto; dopo di lui sarebbero arrivati  gli altri e avrebbero preteso il compenso pattuito, altrimenti si sarebbero sicuramente arrabbiati e allora chi avrebbe potuto prevedere la reazione? Il tuo amico di Barcellona, Jorge, sa tutto e basta che si faccia scappare una sola parola per avviare domande imbarazzanti e indagini pericolose da parte delle autorità. Se anche riusciste a dimostrare che la morte di Villa è stata accidentale, come potreste giustificare il vostro tentativo di truffa nei confronti di tanti fedeli e, addirittura, del vescovo? Avreste serie probabilità di finire in prigione, c’è poco da sperare. Ascoltatemi bene, signori Jorge Marquez e Ramon Barreto, e datemi retta. Non potete rimanere qui, dovete lasciare il villaggio stasera stessa“ - Coimbra parlava con ponderatezza, era suadente e rassicurante. – “Penserò io a far sparire il cadavere e a dare qualche spiegazione plausibile. Godo di un certo prestigio, perciò penso di poter impedire che la gendarmeria spinga le indagini troppo a fondo. Non potrò, però, evitare che vengano poste domande scomode e pregiudizievoli per la vostra libertà personale, quindi è fondamentale che voi vi allontaniate da Tarrascona con la massima celerità.”

“Ma signor Coimbra, che fine farà la mia fattoria?” chiese un Ramon con le lacrime agli occhi.

“La comprerò io, se sei d’accordo”. La proposta dell’impiegato postale irradiò sul viso di Ramon un’espressione di gratitudine che faceva tenerezza. Coimbra proseguì:

“Ero venuto con del denaro in tasca per comprare il fucile di Jorge. È una somma forse modesta, ma spero tu possa accettarla come caparra sulla fattoria, permettendomi di mandarti il saldo dove più ti fa comodo.”

“Va benissimo, signor Coimbra, il resto può spedircelo a Barcellona fermo posta.” L’aspetto generale dei due giovani visionari aveva subito una metamorfosi strabiliante: abbandonato l’usuale atteggiamento tronfio di sicurezza, dissoltosi il miraggio della realizzazione di uno scriteriato piano di arricchimento facile, Marquez e Barreto avevano l’aria di due gattini bagnati e le bovine espressioni di riconoscenza che permanevano sui loro visi rischiavano di far scoppiare il señor  telegrafo in una sonora risata. Ma Coimbra doveva continuare a mantenere un certo tono di solenne compostezza. Rispose:

“Allora siamo d’accordo. Eccovi intanto il denaro che potrà farvi comodo per le spese di viaggio. Vi consiglierei di raccogliere quel poco che vi è indispensabile e di partire immediatamente. Penserò io a spedirvi il resto.”

Ci furono altri commossi ringraziamenti, si intrecciarono saluti, si presero gli ultimi accordi, poi Jorge e Ramon si avviarono senza ulteriori indugi. Un meditabondo signor Coimbra rimase solo accanto allo stagno, gli occhi fissi sul corpo immobile di  Esteban Villa ricoperto dal mantello.   

 

Seduto su un balconcino dell’albergo che si affacciava sul mare di Mondello, Arthur   Coimbra era incantato dai colori che sfavillavano nei piccoli giardini, sulle pareti e sui davanzali delle case che si rincorrevano lungo la stradina sottostante. Incendiati dai raggi radenti del sole avviato al declino, sfolgoravano oleandri, palme, ibischi, gelsomini e  rosai che sembravano la réclame di un cromatismo arrembante e gioioso. Arrivato a Palermo due giorni prima per trascorrervi un breve soggiorno, l’ex impiegato postale aveva in programma una puntata a Napoli, una visita più prolungata a Roma e, per terminare, tre giorni di vacanza tra le meraviglie di Venezia. Adesso che era libero da impegni lavorativi, grazie ad una improvvisa disponibilità economica che gli aveva fatto balenare allettanti visioni di viaggi ed istruttive esperienze, poteva permettersi di soddisfare certi innocui passatempi. La vita gli prometteva molte giornate liete e serene. Avvertì il desiderio di arrivare fino alla pasticceria più vicina per godere i paradisiaci sapori di qualche dolce locale (quei cannoli, che poesia!  E le formelle alle mandorle…),  ma poi rifletté che fra non molto la sala da pranzo del ristorante avrebbe spalancato i battenti per permettere l’accesso di clienti particolarmente affamati e lui, di certo, non sarebbe stato tra gli ultimi ad entrarvi. Se solo pensava al pranzo di mezzogiorno, una successione di pietanze che meritavano gli onori militari, non vedeva l’ora di mettere al più presto i piedi sotto il tavolo per la cena. Occorreva, comunque, attendere ancora un po’ di tempo prima di poter scendere nel salone. Coimbra si sistemò più comodamente sulla poltroncina e  ripensò alle sbalorditive circostanze che si erano concatenate fino a comporre una serie incredibile di coincidenze.

Può capitare, ad esempio, che il telegrafista di un villaggio incassato sulle pendici dei Pirenei, un uomo giunto alle soglie della pensione dopo quarant’anni di onesto e modesto servizio, una mattina si segga alla sua scrivania  e si accorga che le linee intasatissime hanno, per errore, dirottato  sul suo apparecchio telegrafico alcuni scambi di messaggi molto interessanti tra l’ufficio centrale delle ferrovie di Barcellona e l’agente delle ferrovie di Lleida, un grosso borgo situato a quindici chilometri da Tarrascona. Dalla capitale insistevano molto perché egli trovasse una proprietà in cui impiantare il nuovo scalo ferroviario di Tarrascona. E con quanta ricchezza di particolari! Il nuovo scalo doveva sorgere accanto alla linea ferroviaria già esistente, garantire facile accesso ad una sorgente o un deposito d’acqua (particolarmente appetibili uno stagno o un pozzo) per assicurare il rifornimento continuo di acqua alle caldaie dei treni e trovarsi un po’ fuori del paese, così da poter ospitare la costruzione di un parco di smistamento. Leggendo quei dispacci, il telegrafista di cui sopra era stato accecato da una luce abbagliante: lui, accidenti al mondo, un posto del genere lo conosceva! Ma come metterci le mani sopra, in modo da potersi inserire nelle trattative con la Casa madre e guadagnare magari un buon gruzzoletto? Per incredibile combinazione, qualche giorno dopo, neanche il destino avesse deciso di farsi quattro grasse risate, un giovanotto del paese si presenta in ufficio con un lungo telegramma in mano e prega il nostro telegrafista di spedirlo con urgenza a Barcellona. Rimasto solo, il telegrafista – sì, è chiaro che stiamo parlando di Coimbra – legge il documento e stramazza su una sedia. Eccola lì, scritta in bella grafia, la soluzione a tutti i suoi problemi! E allora, via al piano dettagliatamente illustrato nel telegramma. Con qualche piccolo correttivo, va da sé. Il telegramma non viene spedito per fatale dimenticanza (troppo traffico sulle linee, un accumulo improvviso di lavoro inatteso, il modulo finito nel cestino sbagliato: esisteva una vasta gamma di giustificazioni, nel caso fosse scattata un’inchiesta…) e le rotelline del cervello di Coimbra si mettono vorticosamente in moto. Il funzionario conosceva molto bene un uomo di Barcellona che poteva fare al caso e lo convoca immediatamente a Tarrascona, promettendo di ricompensare adeguatamente il suo disturbo. La sera dopo, il señor  Esteban Villa, che in effetti si chiamava Leon Gonzales e aveva scelto uno pseudonimo per ovvie ragioni, era arrivato inosservato nel villaggio e si era subito rifugiato nella casa di Arthur Coimbra, che lo attendeva con ansia. I due uomini avevano parlato fino a notte inoltrata del progetto ideato da Jorge e Ramon, approvandolo nelle linee essenziali e modificandolo, in maniera decisamente significativa, soltanto nella parte conclusiva. La sera dopo era, quindi, andata in scena la superba rappresentazione di un finto storpio convintosi contro la sua volontà a bere un sorso d’acqua dal sapore ripugnante; della sua morte improvvisa per supposto avvelenamento; della comparsa provvidenziale di un personaggio stimato nella comunità e della sua offerta di aiutare due poveri giovani ad uscire senza troppi danni da una situazione spaventosa…in cambio poi di che cosa? Di acquistare la fattoria “Las Palmas” che deteneva miracolosamente tutti i requisiti richiesti dall’ufficio centrale delle ferrovie di Barcellona! Ma quest’ultimo particolare, naturalmente, era del tutto sconosciuto a Ramon, il quale si era affrettato a cedere la sua proprietà al señor telegrafo, firmando una dichiarazione in cui attestava che l’acquirente aveva versato regolare caparra, impegnandosi a spedire ad un indirizzo “fermo posta” di Barcellona il resto della somma pattuita. Cosa che il furbo impiegato postale si era affrettato a fare l’indomani stesso, entrando automaticamente in possesso dell’agognata casa colonica. E pensare che Ramon non sapeva come riuscire a dimostrare interamente la sua commossa gratitudine nei confronti di un uomo tanto buono e generoso, che si era comportato come un fratello, se vogliamo dirla tutta! Prima di andarsene con comprensibile sollecitudine da Tarrascona, anche Jorge aveva voluto testimoniare  la sua tangibile riconoscenza al caro señor Coimbra, insistendo per regalargli il bellissimo e prezioso fucile da caccia, al quale il… disinteressato funzionario tanto teneva.

I fili di un così sottile raggiro erano stati tirati due settimane dopo, quando un raggiante Arthur Coimbra aveva apposto la sua firma sotto il contratto di vendita della fattoria appena ceduta alla Direzione delle ferrovie catalane. Il signor Gonzales, ex -signor Villa, che aveva assistito alla transazione,  era subito ripartito per Barcellona alla fine della piccola cerimonia, con le tasche appesantite da un consistente premio alla doppiezza, consegnatogli ben volentieri da un Coimbra al settimo cielo.  L’impiegato postale di Tarrascona, ormai in pensione, non aveva saputo più nulla dei signori Ramon Barreto e Jorge Marquez: aveva spedito  all’indirizzo convenuto gli effetti personali di entrambi, oltre al residuo della somma pattuita per l’acquisto di “Las Palmas” e aveva prudentemente interrotto ogni rapporto con loro. Libero da altri impegni e sistemata la sua posizione economica,  Coimbra era quindi partito per un breve giro turistico che lo avrebbe portato a visitare alcune delle località italiane che maggiormente promettevano di deliziarlo con le loro attrattive artistiche. Il viaggiatore si guardò ancora una volta intorno e sospirò di soddisfazione:

“La vita è bella” – pensò con scarso slancio lirico, ma con assoluta convinzione.

Rivolse ancora una volta il pensiero al suo sonnacchioso villaggio in Spagna e gli tornò in mente Paco Fuentes, il proprietario del bar di Tarrascona da lui regolarmente frequentato. Paco era l’eterno scontento della situazione e terminava quasi sempre le sue geremiadi con tono lugubre e un’immutabile predizione:

“Caro Arthur, noi non diventeremo mai ricchi!”

“Caro Paco, parla per te!” sogghignò colui che sarebbe sempre rimasto, nella memoria dei suoi compaesani, el señor telegrafo.

 

 

Rocco Tedino     

Condividi post
Repost0
26 novembre 2012 1 26 /11 /novembre /2012 16:22

Il mercato editoriale si è arricchito di una nuova perla. È infatti appena uscito in libreria, è giusto precisare nei principali Paesi del mondo, il terzo volume, intitolato “L’infanzia di Gesù”,con il quale papa Ratzinger ha completato la trilogia dedicata a Gesù di Nazaret. L’intera opera, che sfiora le mille pagine complessive, ha lo scopo di consentire alla narrazione evangelica e alla storia reale di riappropriarsi, presso i cattolici, del loro ruolo congiunto di propugnatrici  di verità inoppugnabili, come accadeva più o meno fino alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, prima che lo squassante vento della moderna esegesi storico-critica soffiasse con intenti dissacratori su tante interpretazioni di testi biblici fino a quel momento considerati inattaccabili. Per scrivere il suo terzo volume, il Pontefice ha preso a modelli i primi due capitoli del Vangelo di Matteo e del Vangelo di Luca, i cosiddetti vangeli dell’infanzia, con l’evidente fine di rafforzare nel lettore l’amore per il Natale e di aiutarlo a viverne la spiritualità in un’atmosfera di gioia e di pace.  Ha conseguito, Benedetto XVI, l’obiettivo che si era prefisso? Non oso neppure pensare alla solenne dose di sfacciataggine che mi occorrerebbe per esprimere un giudizio in merito,  perciò viro decisamente verso un altro aspetto del libro che mi ha sinceramente colpito. Pochi giorni fa, mi è capitato di leggere su un quotidiano un lungo stralcio dalla monumentale opera, avente anch’essa come tema lo studio dell’infanzia di Gesù, scritta dal sacerdote cattolico Raymond Brown, a lungo membro della Pontificia Commissione Biblica. Ebbene, Brown, al pari di altri suoi colleghi studiosi, conclude la sua fatica letteraria con un giudizio netto, risoluto, che suona come una completa bocciatura dei metodi seguiti da Sua Santità nella stesura del libro:

“Qualsiasi tentativo di armonizzare le narrazioni fino a farne una storia coerente è destinato al fallimento”

Che cosa, in definitiva, spinge il grande biblista americano ad emettere questa opinione che sa di sentenza passata in giudicato? A voler pensare male, si potrebbe tentare di spiegare quella sottilissima traccia di dispetto personale che sembra serpeggiare nell’imponente lavoro di Brown con la scoperta che il papa non ha mai menzionato, nel suo libro, l’opera dell’esegeta statunitense. Ma la spiegazione è decisamente riduttiva, oltre che offensiva nei confronti dell’onestà intellettuale di Joseph Ratzinger. No, la verità è che questi non ama il metodo storico-critico, tanto caro al suo antagonista, perché lo ritiene dannoso per la fede e questa, con tutta certezza, è la spiegazione del suo procedere diritto per la sua strada, ignorando più che può le conclusioni raggiunte dall’esegesi biblica che oggi nega la fondatezza storica dei vangeli dell’infanzia, dopo secoli in cui essi erano stati letti come  resoconti appartenenti ad una realtà effettivamente accertata: esattamente ciò che il papa vuole inculcare nella mente dei fedeli cattolici. Brown e i suoi colleghi esegeti, invece, vogliono che sia chiara, una volta per tutte, l’inattendibilità storica di molte narrazioni evangeliche. E, rifacendosi alla scelta di Benedetto XVI, fanno notare che nei capitoli dei due evangelisti sono evidenti alcune contraddizioni che porterebbero a concludere che il Gesù dei Vangeli non coincide con il Gesù della storia, assestando un grosso colpo all’intento programmatico dichiarato dal Pontefice nel suo primo volume della serie:

“Presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio”.

Le contraddizioni richiamate da Brown esistono davvero ed è giunto il momento di accennarvi, non senza aver prima sottolineato che papa Benedetto, uno dei più grandi teologi del nostro tempo, si sia certamente accorto delle anomalie, ma che abbia preferito sorvolare su quelle incoerenze perche soltanto preoccupato di raggiungere il suo obiettivo essenziale: fondere in un’unica figura, reale e convincente, il Cristo che emerge dai resoconti della storia e quello rappresentato nei Vangeli.    

Cominciamo con l’accennare agli elementi comuni che troviamo in Matteo e Luca: l’identità dei genitori, l’arrivo dell’angelo Gabriele che annuncia a Maria il concepimento di un figlio     (e lei, pudicamente, ribatte: “Come potrà avvenire questo se io non conosco uomo?”. Parole di grazia ed innocenza infinite), la nascita a Betlemme sotto il regno di Erode, il trasferimento a Nazaret.  Ma nel racconto dei due evangelisti sono riscontrabili, come dicevo, alcune discordanze. Comparando i testi dei due capitoli, si nota che Luca dice chiaramente che Maria e Giuseppe, prima della nascita di Gesù,  risiedevano a Nazaret, mentre Matteo non fa cenno della circostanza; il loro viaggio da Nazaret a Betlemme  avvenne (Luca) o non avvenne (Matteo); Gesù nacque in casa dei genitori (Matteo) o in una mangiatoia (Luca); la strage dei bambini di Betlemme accadde (Matteo) o non accadde (Luca); Giuseppe e Maria fuggirono in Egitto per salvare il bambino dai soldati di Erode (Matteo) oppure andarono al Tempio di Gerusalemme per la circoncisione, senza che i soldati si curassero di Gesù (Luca); la famiglia partì da Betlemme e tornò subito a casa, a Nazaret (Luca) oppure fuggì prima in Egitto e solo in un secondo tempo raggiunsero nuovamente Nazaret. Sembrano, in fondo, rilievi di poca importanza che i fedeli sono propensi a scusare, o addirittura a sorvolare sulla loro esistenza per indifferenza o distrazione, ma quei rilievi acquistano grande importanza quando si scontrano menti affilate di agguerriti e preparati esegeti delle Scritture. Così succede che il Pontefice promuova una tradizionale mescolanza acritica per armonizzare i due Gesù scaturiti dalle fonti storiche ed evangeliche in cui la sua storia viene raccontata, mentre i severi custodi delle esigenze storiografiche non lo consentono, battendo su un tasto monocorde, eppure obiettivamente inoppugnabile: i dati stanno o come li presenta Matteo o come li presenta Luca (oppure né in un modo, né nell’altro), ma in ogni caso no sono armonizzabili. Quindi se fosse vero, come scrive papa Ratzinger, che “Matteo e Luca volevano scrivere una storia, storia reale, avvenuta”, il lettore più disincantato si troverebbe di fronte al grave dilemma di dover scegliere chi tra i due evangelisti racconta la verità e chi invece è caduto in errore.

Dal basso della mia ignoranza io scelgo una terza via: credo che tutto sommato accapigliarsi, sia pure molto civilmente, intorno ad un pugno di contraddizioni che non alterano in modo irreparabile alcuna verità di fede, rappresenti, solamente per chi lo pratica, uno stimolante esercizio mentale e poco più. I Vangeli non perdono certo di credibilità se Matteo dice una cosa e Luca un’altra su certi aspetti di contorno di una vicenda umana e divina regale e tragica, semplice e bucolica. I Vangeli sono degni di fiducia, a patto di distinguervi diversi livelli di storicità, cioè dati storicamente sicuri, dati probabili e dati improbabili.

In chiusura, desidero esprimere la mia dolorosa meraviglia nell’apprendere, sempre dal libro sull’infanzia di Gesù, che “il bue e l’asinello non erano nella stalla e i pastori, a differenza degli angeli, non cantarono.” Così Benedetto XVI rivede l’iconografia del presepe e rivela che nei sacri testi non si accenna alla presenza di animali nella grotta di Betlemme. Santità, vi confesso che la rivelazione suscita in me una buona dose di mestizia. Io amo il presepe in maniera viscerale, sono un fedelissimo aficionado  di Luca Cupiello, il teorico del presepe creato da Eduardo De Filippo, e ogni tentativo di smitizzarne caratteristiche consolidate dai secoli  e dalla tradizione mi appare come un colpo letale inferto ad un mito della mia fanciullezza, quando con infantile ingenuità mi illudevo che quella magica rappresentazione di un evento straordinario, accaduto centinaia di anni prima in una terra lontana e misteriosa, rivivesse puntualmente al tornar d’ogni Natale per riconciliare tutti i cuori nella pace e nell’amore.

Altri sentimenti, questa volta di perplessità, hanno riempito la mia mente nell’apprendere che in una certa scuola italiana si è deciso di non organizzare i festeggiamenti tipici del Natale “per non offendere i sentimenti religiosi di altre persone”. Dove per “altre persone” si intendono chiaramente i cittadini di religione islamica. Fatte salvo il rispetto che si deve agli immigrati, mi chiedo perché ogni tanto, qui da noi, ci sia qualcuno che si scopre più realista del re, cioè che vada oltre i limiti del buon senso e butti alle ortiche il rispetto che si deve anche alle nostre tradizioni, alla nostra storia e, perché no?,  a secoli e secoli di religione cattolica apostolica romana. Perché assumere ridicole iniziative che probabilmente neanche i musulmani condividono? Perché snaturare il complesso delle memorie e delle informazioni, degli usi e delle abitudini trasmesse da una generazione all’altra? C’è davvero chi crede che rinunciare a cantare “Tu scendi dalle stelle” o “Stille nacht” oppure appiccicare un po’ di angioletti sui vetri equivalga a dimostrare con certezza quanto bene vogliamo a tanta povera gente che arriva da noi trascinata dalla speranza, troppo spesso delusa, di trovarvi vita nuova e più dignitosa? No, posso sbagliarmi, ma credo fermamente che le vie della solidarietà, quella vera e concreta, seguano altri itinerari e che per ottenere veramente una collaborazione sociale e culturale più salda e fruttuosa tra ospitanti ed ospiti, occorra rafforzare considerevolmente quel principio che proprio Benedetto XVI ha tempo fa definito “della reciprocità”, invocandone accoratamente l’applicazione. Reciprocità di tolleranza religiosa, in particolare. Vale a dire, rispetto del credo religioso professato dalle persone, dovunque esse vivano o si siano trasferite. Ecco, questo, a mio parere, potrebbe essere la pietra su cui costruire una casa comune di riguardo e stima reciproci tra le diverse etnie. Ma la mia utopica visione di un mondo un po’ più vivibile registra ogni tanto clamorose, e dolorose, ferite. Prendiamo la reciprocità del rispetto della fede: mi sembra proprio che non esista. Nella propria terra ciascuno agisce come gli pare nei confronti del “diverso”, e ben poche persone si adoperano fattivamente per evitare che il pazzoide di turno si imbottisca di tritolo, entri in una chiesa cristiana e faccia orrendo strame dei fedeli ivi raccolti per la loro preghiera. Inutile citare date e località. Resta solo il fatto che mentre qualcuno si sforza di mettere in atto geniali iniziative per evitare di offendere, a Natale, il fratello di religione diversa, qualcun altro, in altre parti del mondo, si sforza di mettere in atto attentati sanguinosi ai danni di nullità umane di religione diversa, come le considera  lui. Buon Natale a tutti, con o senza segni distintivi di contorno.

 

Rocco Tedino          

 

         

Condividi post
Repost0
1 novembre 2012 4 01 /11 /novembre /2012 17:27

I signori Petrella abitavano in un quartiere di Roma, modesto ma pulito ed abbastanza tranquillo. La loro casetta, ereditata nove anni prima da una vecchia zia, la quale  con quel gesto aveva voluto sdebitarsi dell’ospitalità e dell’assistenza ricevuta dai nipoti per oltre tredici anni, era comoda spaziosa e rispondeva a tutte le loro esigenze. Carlo Petrella lavorava nello studio di un architetto che egli raggiungeva agevolmente al termine di dieci minuti di metropolitana.  Sua moglie Anna faceva la commessa part-time in un piccolo, ma ben avviato negozio di libri del quartiere e questo le permetteva di esercitare agevolmente il suo hobby preferito, la lettura. Insomma, la vita per la famigliola avrebbe potuto scorrere via piacevolmente, se nel fondo del cuore del  signor Petrella non si fosse annidato un cruccio che diventava sempre più molesto ed intollerabile: dover  vivere in  una zona prevalentemente abitata da gente rozza, composta in massima parte da operai che andavano al lavoro alle cinque del mattino e che trascorrevano il tempo libero a giocare a carte e ad ubriacarsi.

“Ah, potersi spostare in un complesso urbanistico  più elegante, dove la gente osserva orari d’ufficio normali e passa le ore di libertà in giardino, oppure al circolo ricreativo, a giocare a tennis o a conversare”, sospirava ogni tanto l’insoddisfatto professionista.  Ma il desiderio di cambiare residenza si scontrava con un ostacolo insormontabile che si chiamava Giulio ed era l’unico figlio dei Petrella. Giulio aveva ormai quindici anni, ma con quella faccia così rosea e quel sorriso timido ne dimostrava al massimo dodici. Dopo un inizio un po’ difficile, sembrava essersi felicemente ambientato nella scuola locale e frequentava con regolarità ed impegno l’oratorio della parrocchia di Santa Rita, tanto che il parroco lo aveva voluto inserire nel coro.

“Sarebbe un peccato fargli cambiare ambiente proprio ora” - osservò anche quella sera la signora Petrella, rispondendo al marito che per un’ennesima volta deprecava la sua triste sorte  - “Tu sai quanto è timido ed introverso, basta un niente a turbare il suo equilibrio. Stasera aveva le esercitazioni nel coro e speriamo che non torni tardi, altrimenti gli si guasta l’appetito e non manda giù niente della cena che gli ho messo in caldo”.

In quel momento, Giulio stava camminando lentamente lungo la stradina alberata che partiva dalla chiesa e sboccava in una larga piazza, centro di raduno dei minorenni di ambo i sessi residenti nel quartiere e area di esibizione per le rincorse di assordanti motorini  intorno alla fontana che troneggiava in mezzo alla piazza stessa.   Il grosso rione era cresciuto progressivamente a partire dalla chiesa ed ora si presentava come una disordinata accozzaglia di squallidi casermoni e negozi scarsamente forniti, tra i quali di tanto in tanto si intrufolavano linde villette unifamiliari ed esercizi commerciali di un cero livello. Ogni tanto una strada partiva dall’arteria principale e si inoltrava verso l’aperta campagna, dove si scorgevano fabbriche e capannoni industriali. L’andatura di Giulio era volutamente lenta perché il ragazzo non aveva un gran desiderio di tornare a casa. Appena lui rincasava, sua madre lo spediva a darsi una rapida lavata e a cambiare tutto quello che aveva indossato fino a quel momento, poi  lo costringeva a mandare giù un pasto abbondante e sostanzioso che Giulio mangiava con grande fatica. Dopo il padre avrebbe voluto il resoconto esatto  di tutto quello che aveva fatto a scuola e infine…

La manata lo colpì tra le scapole con forza, facendolo quasi ruotare su stesso. Si voltò spaventato e si trovò davanti due ragazzi, entrambi più grandi d’età e decisamente più grossi di lui. Mentre uno si guardava con attenzione intorno, l’altro, il più alto e robusto dei due, con un gran cespuglio di capelli rossi e ispidi, disse:

“Questa è una rapina, piccoletto. Rovescia un po’ quelle tasche.”

Giulio lo guardò a bocca aperta, incapace di parlare o di reagire.

“Forza, bamboccio” – si spazientì il secondo delinquentello – “Datti una mossa. O vuoi che lo facciamo noi?”

“Davvero mi state rapinando? Mi dispiace per voi, ma in tasca avrò sì o no un euro  È giovedì, capite. La settimana la prendo il venerdì, io.”

Giulio si frugava  in tasca, intanto che parlava, e alla fine aveva pescato un cinquantino ed un paio di ventini, che porse sul palmo aperto.

Il ragazzo più alto, quello che sembrava il capo, fissò quelle due misere monetine e infilò le mani in tasca. Poi riportò lo sguardo sul visetto angosciato di Giulio:

“Quanto ti dànno, i tuoi, alla settimana?”

“Venti euro”

“Perciò, se t’avessimo incontrato domani avremmo beccato un foglio da venti euro?”

“Certo” - confermò Giulio, ansioso di evitare frizioni con quella temibile coppia di teppisti -   “Mi dispiace molto, ma se siete a corto di soldi forse potrei aiutarvi a racimolarne un pò…” concluse precipitosamente, come se temesse di essersi scoperto troppo.

I due giovinastri si guardarono, poi scoppiarono a ridere:

“Questa è davvero da raccontare in giro! Tu, che hai paura della tua ombra, vorresti insegnare a noi come fare la grana. Ma non hai ancora capito con chi hai a che fare?” - il più alto parlava tra continui sghignazzi, in cui talvolta inciampavano le parole. L’altro, da parte sua, non diceva nulla e si limitava a fissare attentamente Giulio, come se avesse letto nei suoi occhi qualcosa di promettente. All’improvviso fece sentire la sua voce, ottenendo che il suo compagno smettesse di starnazzare.

“E quale sarebbe questa straordinaria proposta?” domandò a Giulio, con un filo di ironia.

“Conoscete la sala giochi che sta in fondo al corso, subito dopo la tabaccheria, quella piena di slot-machine? Beh, una di quelle macchinette, la più grossa di tutte, è stata ficcata in un angolo e raramente qualcuno riesce a cavarle dei soldi. La gente si avvicina, vi infila manciate di monetine, poi se va delusa ed arrabbiata, visto che con quella macchinetta nessuno vince mai! E sapete perché?” – ormai Giulio aveva artigliato l’attenzione dei due interlocutori e non intendeva perdere l’esiguo vantaggio che si era assicurato su quella bella coppia di prepotenti -  “Perché quella è una macchina organizzata in modo che la combinazione vincente non venga mai fuori. L’ho letto su una rivista, che spiegava anche come svuotarla.”

“Come, a martellate?” – il tono del “capo” suonò marcatamente ironico, era chiaro che non si fidava minimamente del piccoletto.

“No, c’è un metodo più tranquillo e in un certo senso legale” – spiegò Giulio con calma –“Ascoltatemi bene. La spina elettrica è infilata in una presa nel muro. Se si tira via la spina e si interrompe il circuito elettrico, intanto che la macchina è in funzione, si bloccherà immediatamente anche il meccanismo di sicurezza e si fermerà dove capita, addirittura  nel punto che trasmette alla macchinetta l’impulso di svuotarsi. Che ne dite, ci proviamo?  Bisogna essere in tre. Uno per distrarre il gestore e questo potrebbe farlo uno di voi due, magari chiedendogli di cambiare dieci euro; il secondo per far funzionare la macchinetta e il terzo per infilarsi in quell’angolo e tirare fuori la spina. Questo potrei farlo io, che sono il più piccolo. Per di più, ogni venerdì arriva un tizio e la vuota. A quest’ora dev’essere piena zeppa di quattrini”.

I due aspiranti rapinatori, che ormai avevano deposto ogni velleità criminale nei confronti di Giulio, si guardarono per un momento in faccia, poi il più alto, forse per non dare l’impressione di cedere con eccessiva facilità alla proposta di uno scricciolo che nessuno conosceva nell’ambiente dei duri, domandò con voce strascicata:

“Se è così facile, perché non l’hai fatto, finora?”

“Perché non avevo…” – cominciò Giulio, poi si interruppe: poteva mai confessare che non aveva mai potuto contare su due amici capaci di portare a termine il colpo? Perciò, rimediò alla meno peggio:

“Perché non avevo mai trovato ragazzi in gamba come voi.”

Meno di un’ora dopo, il più alto dette di gomito al suo amico e gli sussurrò:

“Sarà meglio andarcene, ormai non c’è più niente da mungere.”

“E il gestore, come si comporterà? Ci sta lanciando delle occhiaie che sembrano secchiate di acqua gelata. Può impedirci di uscire da qui?”

“Ma vuoi scherzare? Lascia che si mangi le mani fino al gomito, a noi non può fare proprio niente. Deve stare per forza stare zitto. Mica può venirsene fuori a dire che quella era una macchina truccata e che noi abbiamo trovato il modo di farle sputare quel ben di Dio che aveva accumulato nel pancino. Lo lincerebbero in un baleno. Dài, andiamo.”

Giulio li guardò e non si mosse, aspettando di capire se nell’invito avessero incluso anche lui. E quando il ragazzo alto gli sibilò “allora, vuoi sbrigarti?” si affrettò a seguirli fuori dalla sala giochi. Il cuore gli batteva, ma stranamente riusciva a conservare la freddezza necessaria per cogliere l’occasione di diventare il terzo elemento della minuscola banda, nel caso se ne fosse presentata l’occasione. I suoi due nuovi sodali, intanto, si erano inoltrati in un dedalo di stradine secondarie e di vicoli, l’uno più angusto e sudicio dell’altro, finché sbucarono sulla riva del Tevere. Dato che il molo era stato chiuso un paio d’anni prima, l’area intorno era tutta una desolazione, alla quale contribuivano non poco gli edifici in rovina, con le finestre chiuse e le porte sprangate con assi. Il “rosso”  si fermò davanti ad una di quelle porte e si chinò. Giulio vide che spostava una tavola, lasciando spazio sufficiente perché un ragazzo potesse passare strisciando le altre assi. Dopo che tutti e tre furono entrati, il “capo” del duo azionò una lampadina tascabile e Giulio si trovò a fissare una scala di pietra, ingombra di intonaco caduto. In cima alla scala si apriva una porta dall’aspetto malconcio. Il piccolo corteo la superò ed entrò in una stanzetta. Le finestre erano chiuse da scuri di ferro. Le pareti erano tappezzate di vecchi poster, alcuni prossimi a deteriorarsi irrimediabilmente. Tutto l’arredamento del locale consisteva in un tavolo, costruito con alcune assi appoggiate su due cavalletti, e in tre cadenti poltrone di vimini.

Giulio si guardava attorno un po’ intimidito: che cosa sarebbe successo adesso? Fu il “rosso”, come il solito,  a rompere il silenzio:

“Puoi prendere la terza sedia, se vuoi” disse a Giulio e il ragazzo capì che era un invito formale a far parte della minuscola congregazione. Ma l’altro non aveva finito:

“Senti, a questo punto credo che sia meglio conoscerci un po’ meglio. Innanzitutto, come ti chiami?”

“Giulio”.

“Bene, Giulio, oggi sei stato una vera rivelazione e non c’è dubbio che in seguito potresti essere molto utile ai nostri scopi. Sai, noi siamo stati sempre in tre, ma un mese fa il nostro amico “Faina” si è fatto pizzicare mentre tentava di svignarsela da un negozio di abbigliamento indossando un giubbotto in pelle che si era scordato di pagare e adesso ha un anno e sei mesi di tempo per riflettere sulle conseguenze di certe dimenticanze. A proposito di nomi, è giunto il momento di presentarci. Io mi chiamo Ernesto, ma tutti mi conoscono come Velluto perché ho nelle mani un tocco così delicato che, quando opero, nessuno ne avverte il contatto. Il mio amico qui presente è stato battezzato col nome di Vittorio, ma se hai bisogno di lui e non dici che stai cercando Trovarobe tanta gente neanche capisce di chi stai parlando. Sai perché lo chiamano così? Perché è capace di procurarti qualsiasi cosa, da una falsa carta d’identità a un kit completo di pneumatici da neve a prezzo stracciato. E non farti ingannare da quella sua finta aria da innocentino: il nostro Trovarobe è più duro di una sbarra di ferro e ti consiglio di non farlo mai arrabbiare sul serio.”

“Ciao, Giulio, benvenuto nella compagnia” – la voce strascicata di Vittorio  suonava leggermente roca e Giulio avvertì con nitida percezione la latente pericolosità che avrebbe, all’occasione, saputo sprigionare quel ragazzo smilzo ed apparentemente innocuo – “E adesso vediamo quanto abbiamo racimolato” – proseguì il ragazzo, estraendo dalla tasca un sacchetto di plastica in cui aveva ammassato le monete. Scese un palpitante silenzio, mentre Vittorio contava i soldi.  Alla fine, sollevò lo sguardo sorridente e riferì:

“Cari miei, proprio niente male per un lavoretto pulito e piuttosto veloce. Abbiamo messo insieme…”  -  breve pausa ad effetto – “ Tremilasettecento euro!” dichiarò trionfante.

“Bravo, Giulio, ti sei meritato la tua parte” – intervenne Ernesto – “Ecco qui milleduecento euro tutti tuoi. Cosa ci farai di questo mucchio di soldi? Altro che paghetta settimanale, no?” E giù una bella risata. Giulio guardava incredulo quella somma per lui stratosferica e sembrava intontito. Ernesto capì il suo smarrimento e gli fece una proposta:

“Senti, forse ti stai chiedendo come farai a nascondere ai tuoi genitori tutti questi soldi. Noi abbiamo una cassa comune nella quale conserviamo le nostre parti. Se vuoi, puoi dare a me anche il tuo denaro ed io lo metterò insieme al   resto. S’intende che potrai chiederlo indietro, in tutto o in parte, in qualsiasi momento. Ma se non ti fidi…”

“No, figurati, altroché se mi fido” – fece Giulio precipitosamente – “Eccoti i miei soldi,  mettili assieme agli altri e pensaci tu a custodirli.”

“Senti, a proposito dei tuoi” – intervenne Trovarobe – “Non cominceranno a chiedersi che fine hai fatto?”

“No, stà tranquillo” – rispose Giulio – posso dire che dopo le esercitazioni del coro sono andato al Circolo della Gioventù  che appartiene alla chiesa ed è diretto da don Pietro.”

“Il vecchio don Pietro!” – lo motteggiò Ernesto – “Quel prete noioso è ancora vivo? Da quanto tempo non entro più in chiesa a sentirlo.”

Giulio rifletté attentamente sul reverendo, poi sentenziò:

“No, ti sbagli, è in gamba. E poi mi piacciono le sue prediche, così appassionate”

“Come no!” – sghignazzò Ernesto – “Me le ricordo le sue prediche. Le terminava sempre con lo stesso ammonimento: per l’uomo, l’unico bene che valesse la pena di perseguire era quello di servire Dio. Io, invece, mi sono convinto che l’unico bene che valga la pena di perseguire è nascosto tra le tante dolcezze in possesso di ogni bella ragazza che si muova in modo più che solleticante entro il mio campo visivo…sempre che non si preferisca il valore commerciale di una allettante partita di telefonini da piazzare ad un buon prezzo presso un ricettatore…”

E giù una sonora risata, alla quale si unì Vittorio, con quel suo tono di voce più basso e quasi graffiante. 

Passarono un paio di settimane. Giulio tornava a casa sempre più tardi e i genitori cominciavano a chiedersi dove trascorresse il tempo dopo la scuola. Una sera  Petrella senior affrontò il discorso, esprimendo qualche timore circa il pericolo di fare cattive conoscenze che correva un ragazzo timido ed inesperto come il loro figliolo, ma si scontrò con la serenità della moglie la quale, avendo interrogato Giulio e ricevuto risposte tranquillizzanti, era pienamente soddisfatta della piega presa dagli avvenimenti:  

“Non c’è assolutamente da preoccuparsi, Carlo, in questo periodo Giulio è occupatissimo. Pensa che, oltre a far parte del coro e del Circolo della chiesa, ora è stato accolto nel Gruppo dei Volontari, il cui statuto ricalca molto quello dei Boy Scout. Tu non sai come io sia felice che nostro figlio frequenti tanta gente che può aiutarlo a diventare più sveglio e disinvolto!”

E difatti, grazie all’illuminato magistero dei suoi nuovi amici, Giulio stava rapidamente arricchendo il suo bagaglio di conoscenze dei vari e più reconditi aspetti della vita di un giovanotto intraprendente che si dà da fare per raggranellare un po’ di sudati quattrini. La prima cosa che Giulio imparò fu manovrare un pezzo di ferro per “prendere in prestito automobili”, come Velluto e Trovarobe definivano il furto delle macchine. L’operazione era di una semplicità estrema e richiedeva soltanto abilità e precisione nei movimenti, qualità di cui il ragazzo era sicuramente fornito. Per il resto, occorreva un filo di ferro robusto con un occhiello all’estremità: il sottile oggetto metallico veniva fatto passare attraverso una fessura aperta a forza di unghie nella parte alta di un finestrino; l’anello all’estremità agganciava il minuscolo pomello che bloccava l’apertura della portiera, lo sollevava con ogni precauzione…e voilà, il gioco era fatto e l’autovettura aperta. Entrava allora in azione Velluto, alias Ernesto, che aveva per qualche tempo lavorato in un’officina meccanica e sapeva come mettere in moto una macchina nel deprecabile caso in cui non si disponesse della chiave d’accensione. Bastava un altro filo di ferro e, se nessun furente proprietario compariva sulla scena, la vettura veniva “presa in prestito” e usata come mezzo di trasporto per la serata. Quelle gite serali, tuttavia, non erano soltanto viaggetti di piacere. Soddisfacevano anche un risvolto affaristico. Ernesto e Vittorio avevano una quantità di contatti, amici lesti di mano e di parola, che ogni tanto affidavano loro, perché le vendessero col massimo profitto, pacchi di merce sulla cui provenienza e legittimità era meglio glissare. In casi del genere, i due soci battevano capillarmente le zone più promettenti e, grazie  alle astuzie del mestiere,  riuscivano a piazzare tutta la refurtiva.  Uno scatolone contenente due dozzine di radioline a transistor, ad esempio, non era tanto facile  da collocare presso un unico cliente: se però venivano offerte separatamente ai compratori nelle birrerie, nei bar e nelle sale da ballo, le radioline si vendevano senza alcun problema. Velluto e Trovarobe erano specialisti in questo tipo di lavori e Giulio ne osservava diligentemente la tecnica, imparando ogni volta qualcosa di nuovo.

Certe sere i tre erano impegnati in lavori più misteriosi. Prelevavano una macchina con la solita tecnica ormai altamente collaudata e raggiungevano luoghi fuori mano che di solito erano garage, spesso abbandonati e malamente illuminati. Lì si incontravano  con figure indistinte che conservavano un rigido silenzio e badavano accuratamente a mostrare il meno possibile la faccia. Tra Ernesto, il più abile della piccola banda nelle contrattazioni commerciali, e gli altri…operatori economici avvenivano rapide operazioni di scarico e carico, al termine  delle quali pesanti cassette venivano prelevate dal retro di furgoni e depositate sul sedile posteriore della macchina dei ragazzi. Costoro poi ripartivano, ogni volta da soli,  diretti verso mete non troppo lontane, che potevano essere un altro garage, una botteguccia o un piccolo stabilimento. Qui le cassette venivano scaricate, sempre in silenzio, e alla fine un fascio di banconote veniva messo nelle mani di Velluto, a sancire la soddisfazione reciproca per la felice conclusione della transizione. Poi i tre ragazzi rientravano in città, abbandonavano l’autovettura ad una discreta distanza dal loro covo e nel giro di una ventina di minuti si ritrovavano al sicuro nel loro fatiscente rifugio, intenti ad un’operazione che col trascorrere del tempo aveva acquistato sempre maggiore attrattiva: rimpinguare con denaro “fresco” il già notevole malloppo conservato in una scatola di latta per biscotti che era stata nascosta in un’intercapedine ricavata tra due travi d’angolo del soffitto. Una sera Ernesto, dopo aver lanciato la solita occhiata ammirativa al poster che raffigurava una Kawasaki Z 1000 ABS dalla linea slanciata e le cromature luccicanti, tirò fuori la scatola e propose di contare i soldi contenuti: quanto mancava al raggiungimento della somma necessaria per l’acquisto dell’agognato bolide?

“Ti ho mai detto che sono in trattative con Servosterzo per l’acquisto di questo mostro?” – chiese Ernesto,  rivolgendosi a Vittorio.

Servosterzo chi, quel ladro di meccanico che ha l’officina al Quartiere Ostiense?” si informò Vittorio, con una smorfia di disprezzo - “E tu che cosa hai a che fare con Servosterzo?”

“Non offendere l’uomo che ci procurerà questa meraviglia a prezzo di fabbrica” – ammonì «il rosso» - “Non discuto sul fatto che Servosterzo sia un ladro, ma non oserà tirare qualche bidone a noi, avrebbe troppo da perdere: sa benissimo che ho nascosto in un luogo sicuro le foto che gli scattammo l’anno scorso, durante il suo incontro d’affari, diciamo così, con quei due ricettatori di colore, e non vorrà assolutamente che arrivino misteriosamente nella mani della polizia. No, stà tranquillo, Servosterzo ha promesso di aiutarmi e lo farà senza trucchi. E adesso, facciamo un po’ di conti. In questa scatola” – così dicendo Velluto l’aprì e la svuotò sul tavolo, cominciando a contare il denaro che essa conteneva – “vediamo…ci sono…ecco, ci sono esattamente sessantaduemila euro…cribbio, neanche io mi aspettavo tanto ben di Dio!  Vittorio, non dici niente?”

Trovarobe, per una volta nella sua vita, non trovava le parole. Fissava rapito la pila di banconote di ogni taglio che il suo socio aveva formato e non spiccicava verbo. Ernesto gli lanciò un urlaccio per scuoterlo, poi riprese a spiegare la sua idea:

“Quel modello di Kawasaki costa poco più di dodicimila euro, ma posso averlo a meno, grazie all’interessamento di Servosterzo. Questo vuol dire che ci resterebbero più di cinquantamila euro, ai quali andrebbe ad aggiungersi la percentuale che ci spetta per la vendita di quella partita di play-station piazzata per conto di Rosetta la velletrana. Ragazzi, non credo proprio che possiamo lamentarci.”

No, nella stanza non sembravano esserci anime scontente. Tutt’altro! Ma se Giulio conservava un’espressione tutto sommato controllata, Vittorio, al contrario, sembrava essersi trasformato nella versione vivente di zio Paperone, quando la prospettiva di un guadagno gli fa comparire negli occhi il simbolo del dollaro…

Passarono alcuni giorni. Giulio prendeva regolarmente parte alle esercitazioni del coro, per evitare che don Pietro notasse la sua assenza e cominciasse a diffondere in giro inopportune domande. Ogni tanto si faceva vedere anche nella sede del Gruppo dei volontari, giusto per imprimere nella mente degli altri l’idea che egli frequentasse il sodalizio con regolarità. Ma la sua intesa con i due poco raccomandabili amici si faceva sempre più stretta ed anche lui, ormai, attendeva con crescente impazienza l’arrivo dell’ambita motocicletta. E una sera, l’atteso evento si realizzò. Vittorio e Giulio, con quest’ultimo che quasi balbettava per l’eccitazione, lo attesero poco lontano dalla scuola e gli comunicarono la grande notizia: quella stessa sera, al calar della notte, sarebbero andati nel garage di Servosterzo e avrebbero ritirato la Kawasaki! Voleva accompagnarli, per godere insieme di quell’irrepetibile momento? Certo, si affrettò ad accettare Giulio, lo aspettassero pure all’angolo del vicino bar di Oreste, sarebbe andato con loro più che volentieri.

La sera, nel garage deserto del losco meccanico, si tenne una piccola cerimonia a base di esclamazioni estasiate e di pacche beate sulle spalle, tutte manifestazioni di incontenibile visibilio con le quali Velluto e Trovarobe salutavano il materializzarsi del luccicante bolide motoristico al centro del pavimento in cemento del vasto garage. Giulio, seduto su un bidone di olio per motore, li guardava con un sorrisino divertito che aleggiava sulle labbra, ma un osservatore attento avrebbe notato che quel sorriso non arrivava agli occhi.

“Bene, Servosterzo, sei stato di parola. Eccoti quanto pattuito e grazie per la benzina.” - disse Ernesto, mettendo nelle mani dell’altro un consistente mazzo di banconote.

“La benzina è un omaggio della casa a due simpatici amici come voi” – ribatté il meccanico, con un sorriso untuoso. Poteva ben permettersi di essere generoso: il servizio di corrieri di merce scottante, svolto a più riprese da quei ragazzi per suo conto, gli aveva consentito di arricchirsi correndo rischi minimi.

“Se volete provarla, - continuò Servosterzo – “vi conviene passare sotto il ponte della metropolitana, attraversare la zona Giuliano-Dalmata e poi quella di Castel di Leva. Usciti dalla periferia, vi dirigete verso l’incrocio per Albano e vi immettete sulla Pontina, sulla quale potete scatenare tutta la potenza di questo  mostro.”

“Cribbio, è un’idea super!” – esultò Vittorio, ma Giulio intervenne, per la prima volta nella serata:

“Ragazzi, calmatevi e riflettete. Adesso è buio e una moto così, lanciata a tutta velocità, attirerebbe sicuramente l’attenzione di tutti gli sbirri vigilanti da qui ai Castelli romani. Domani pomeriggio, invece, in un’ora in cui il traffico è scarso, ve ne andate sulla Pontina, come ha suggerito il vostro amico, e vi divertite a volare con questo meraviglioso giocattolo senza eccessivi rischi. Prima che qualche pattuglia vi intercetti, sarete arrivati a Nemi o ad Ariccia e da lì non avrete nessuna difficoltà a tornare a Roma, mantenendo un’andatura normale.”

Ernesto e Vittorio lo avevano ascoltato con attenzione, ma la voglia di provare la moto era troppo forte, almeno per Vittorio, che tentò di far accettare al socio il suo punto di vista:

“Proprio perché è notte, dico io, dobbiamo farci una bella gita. Quanti posti di blocco, quante macchine di carabinieri o polizia volete che ci siano in giro stasera? Anche a loro piace tornare a casa per cena, ci scommetto…”

Ma Velluto era dubbioso e dopo qualche riflessione tagliò corto:

“No, Vittorio, credo che Giulio abbia ragione: sarebbe da stupidi beccarci una multa spaziale per eccesso di velocità, oltre a rischiare di farsi addirittura sequestrare questo gioiello  …”

“E chi se ne frega dei soldi!” – lo interruppe rabbioso Vittorio – “Hai dimenticato quanti ne abbiamo…”

Un’occhiata fulminante del «rosso» gli gelò il resto delle parole sulla punta della lingua. Trovarobe capì di aver parlato troppo di fronte a un estraneo, neppure molto fidato come il subdolo meccanico, arrossì e chinò la testa. Questo mise fine alla discussione. Ernesto montò a cavalcioni del mezzo, fece un cenno a Vittorio che si rannicchiò sull’angusto spazio dietro di lui, diede appuntamento a Giulio per la sera successiva, chiedendogli se aveva soldi per prendere un taxi fino a casa, salutò con una strizzata d’occhio Servosterzo e uscì dal garage a velocità moderata.

Il giorno dopo Giulio marinò la scuola. Nel pomeriggio si appostò nei pressi del covo, in posizione defilata, e vide uscire a bordo della motocicletta i suoi due amici, diretti verso la statale Pontina. Indossavano entrambi caschi integrali neri, nuovissimi, acquistati una settimana prima in un negozio di articoli sportivi, dove erano state comprate anche le due giacche di cuoio nere che li proteggevano dal freddo. Pure i morbidi guantoni infilati sulle mani provenivano dallo stesso negozio, ma non erano passati dalla cassa come il resto. Giulio stette ad osservarli per un po’, fino a quando non li vide sparire dietro una curva. A quel punto si avviò lentamente verso casa, pensieroso. Era talmente immerso nelle sue riflessioni che andò quasi a sbattere contro la macchina della polizia, parcheggiata davanti al vialetto d’ingresso della sua abitazione. Giulio si arrestò perplesso. Una folla di pensieri gli invase la mente. Che cosa volevano i poliziotti a casa sua? Che avessero scoperto la sua amicizia con Ernesto e Vittorio e i traffici da galera che insieme avevano portato a termine? Tempo prima, Giulio si era informato su Internet: era vero che tra i 14 e i 18 anni si poteva finire in un carcere minorile ma esisteva anche la possibilità di entrare, con un po’ di fortuna, in un “centro di prima accoglienza” per minorenni, in cui la reclusione aveva forme meno severe.

“Sì, va bene, sono un minorenne incensurato e comunque devono provare le loro accuse, se me ne faranno” – si disse il ragazzo, sentendosi sempre più nervoso e preoccupato – “ma, accidenti, ho tanta paura! E se non entrassi?”

Poi comprese che una soluzione simile, lungi dal risolverlo, avrebbe soltanto rimandato il problema. E poi i poliziotti non avrebbero certo ricavato una buona impressione da una sua eventuale fuga. Si fece, quindi, coraggio, tirò un profondo sospiro ed entrò in casa, dirigendosi verso il salotto. Qui si trovò di fronte ad un quadro che si sarebbe potuto senz’altro intitolare “Incredula costernazione”. I suoi genitori erano sprofondati, immobili e chiaramente affranti, nelle due poltrone di pelle che fronteggiavano il divano, dello stesso materiale, sul quale era seduto un uomo massiccio, quasi completamente calvo, dall’espressione risoluta.  Al suo apparire sulla soglia del locale, nessuno parlò. Giulio si sentì trafiggere da tre paia d’occhi che sembravano voler leggere fino nelle pieghe più segrete del suo animo. La madre fu la prima a riscuotersi. Con voce di pianto, chiese al ragazzo dove fosse stato fino a quel momento.

“Dopo la scuola sono andato a fare un giro a Villa Borghese, mamma. È una giornata così bella…” rispose Giulio, augurandosi che la sua voce non tremasse.

“Tu stamattina non sei andato a scuola, Giulio. Perché?” Il tono del padre minacciava tempesta da un istante all’altro.

“Te lo dico io dove sei stato: in giro con i tuoi due cari amici Ernesto Giachetti e Vittorio Lentini, ad organizzare un altro colpo ai danni di qualche povero sfortunato. Sbaglio?”

Lo sconosciuto aveva parlato con la sicurezza di chi sa perfettamente quello che dice e Giulio si sentì attraversare da un brivido di angoscia al sentire citare la sua frequentazione con due tipi perfettamente noti alle forze dell’ordine, a giudicare dal fatto che il nuovo venuto conosceva anche i loro cognomi. Ma non poteva crollare alla prima provocazione, così atteggiò meglio che poté il viso ad un’espressione interrogativa, costringendo l’uomo a presentarsi:

“Sono l’ispettore De Marco della polizia di Stato e sto indagando su alcuni furti di auto in cui sembra che sia implicato anche tu. Ti dico chiaramente, in modo che tu capisca che non ho nessuna intenzione di farti cadere in qualche trappola, che sei stato riconosciuto da un testimone mentre con i tuoi complici stavate, come dite voi,  prendendo in prestito?, ecco, stavate prendendo in prestito una Mercedes in piazza Mecenate. E per dimostrarti ancora di più quanto intenda parlare con te a carte scoperte, ti dirò anche che oggi pomeriggio i tuoi amici sono purtroppo entrambi morti in un incidente con la loro potentissima moto. Una pattuglia della stradale ha praticamente assistito al fatto. Gli agenti hanno testimoniato che i due andavano ad una velocità pazzesca, quando il guidatore ha perso improvvisamente il controllo del mezzo, che è andato a schiantarsi contro un camion fermo sul lato della strada. Pensa, sembra che la moto stesse in quel momento toccando i centosettanta! Due stupidi ragazzi incoscienti…” concluse De Marco, scuotendo la testa in un gesto di sincera deprecazione. Poi continuò:

“Io adesso vado via, ma ti aspetto domani mattina, alle dieci, nel mio ufficio. Presentati nel commissariato di zona, tuo padre te lo indicherà, e cerca di essere puntuale. Dovremo fare una lunga chiacchierata e dipenderà dalla sincerità e completezza delle tue risposte se deciderò di denunciarti per una sfilza di reati lunga da qui a lì, oppure raccomandare al giudice di darti un’altra possibilità, vista la tua giovane età. Ricorda, comunque, che eventualmente non lo farei per te, ma per i tuoi genitori, persone degne di rispetto, le quali non meritano questa umiliazione. A domani, allora, e puntuale, mi raccomando!”

L’ispettore si alzò, strinse la mano prima alla signora Anna, poi a suo marito, dedicò ad entrambi un rassicurante “Non abbattetevi, vedrò quello che posso fare” e se ne andò, dopo aver lanciato un’ultima occhiata di aspro biasimo a Giulio, che se ne stava muto e compunto accanto ad una vetrinetta. Uscito De Marco, si scatenò la tempesta di accuse, recriminazioni e scusanti di ogni tipo. Carlo Petrella dette fondo a tutta l’amarezza di un uomo probo che scopre nel modo peggiore di aver allevato un mezzo delinquente e non la finiva più con le domande alle quali Giulio opponeva una difesa strenua, intessuta di mezze ammissioni scarsamente compromettenti e di accorate negazioni di ogni suo coinvolgimento nelle attività illecite dei due ragazzi, che egli giurava di aver conosciuto a malapena. Anna Petrella, dal canto suo, dette a quella parvenza di processo un contributo basato essenzialmente su sospiri, lacrime e una domanda ripetuta in media ogni due minuti: “Giulio, ma perché l’hai fatto?”, domanda alla quale il ragazzo non si prendeva assolutamente il disturbo di rispondere. Come Dio volle, anche quel penoso interrogatorio ebbe termine, più che altro per l’invincibile sfinimento che aveva aggredito i due inquisitori, e Giulio poté ritirarsi nella sua cameretta, inseguito dall’ultimo monito del padre:

“E ricordati che non muoverò un dito per evitarti una più che meritata punizione, nel caso dovessi finire di fronte ad un giudice!”

Disteso nel suo letto, mani intrecciate dietro la nuca, sguardo vagante sul soffitto, Giulio ripassò tutti gli avvenimenti della giornata e abbozzò un programma di massima per i prossimi giorni. Innanzitutto era necessario che, nella deprecabile ipotesi di una sua restrizione in un luogo di pena, restasse libero il tempo necessario per andare a recuperare nel covo la scatola di latta con tutti quei soldi. Quanto aveva sognato di metterci le mani sopra! Con quella somma, per lui enorme, avrebbe potuto togliersi un bel po’ di soddisfazioni, a patto di spendere con parsimonia, evitando di attirare l’attenzione. Ricordò quanti piani aveva escogitato nell’ultimo mese  per impadronirsi del malloppo, tutti alla fine scartati. Aveva dovuto attendere che la casualità giocasse la sua carta risolutiva per accorgersi che era finalmente giunto il momento di agire. C’era voluta la concomitanza di due elementi essenziali: la decisione da parte dei suoi amici di comperare una motocicletta e l’apprendimento di una notizia foriera di sviluppi molto, molto interessanti. Un giorno, mentre “navigava” in Internet senza un indirizzo preciso, Giulio si era imbattuto nella strampalata curiosità di un tale al quale interessava sapere se esistesse una maniera di sabotare una moto di grossa cilindrata. C’era qualcuno che potesse, o volesse, aiutarlo? E qualcuno c’era, evidentemente, perché seguivano almeno sei o sette lettere contenenti dettagliate informazioni circa la procedura da seguire all’occorrenza. Giulio aveva immediatamente drizzato le orecchie. Aveva letto con attenzione le spiegazioni fornite da qualcuno che, a quanto pareva, era sufficientemente ferrato sui metodi di un individuo privo di remore morali e aveva atteso con pazienza che si presentasse il momento giusto per mettere in pratica le nozioni acquisite. L’arrivo della moto aveva deciso il destino di Ernesto e Vittorio. Invece di andare a scuola, quella mattina, Giulio si era intrufolato nel covo e lì, sicuro di non essere disturbato perché Velluto e Trovarobe erano andati a Velletri per incontrare una certa Rosetta e chiudere l’affare delle play-station, si era messo a lavorare con calma e concentrazione. Due ore dopo, la trappola era pronta. Con certosina pazienza ed attenzione spasmodica, il giovanissimo criminale aveva cosparso con acido cloridrico gli steli anteriori della forcella  e poi li aveva segati a metà nel punto di rottura, badando scrupolosamente a non lasciare tracce facilmente visibili della manomissione. Gli effetti di quel procedimento si sarebbero inesorabilmente manifestati al primo stato di tensione subito dal gruppo del manubrio e dei suoi elementi principali. La forcella, infatti, se sottoposta a stress eccessivo, si sarebbe scaricata e successivamente spaccata senza manifestare preventivi segnali di cedimento; i giunti, dal canto loro, sono notoriamente deboli e una rottura è circostanza tutt’altro che inconsueta: velocità elevata, una brusca frenata improvvisa e il pilota si ritrova a manovrare uno sterzo che non  risponde più alle manovre! Quelle previsioni, in ogni caso frutto di ripetute sperimentazioni effettuate  da esperti, avevano ricevuto una tragica conferma a metà pomeriggio di quello stesso giorno, allorché due ragazzi alle soglie della giovinezza erano morti su una strada statale dell’entroterra laziale, per un cedimento strutturale della potente moto sulla quale stavano viaggiando. Questa, al momento, era la conclusione alla quale erano giunti i poliziotti giunti sul luogo del violentissimo impatto della motocicletta con un mezzo pesante parcheggiato su un lato della carreggiata. Giulio, sveglio nel buio della sua cameretta, si augurava naturalmente con tutto se stesso che quella conclusione fosse accettata senza riserve dagli inquirenti e contribuisse a far chiudere il caso, etichettandolo come puro e semplice incidente stradale causato dalla velocità troppo elevata. I suoi pensieri non si erano rivolti, neppure per un breve istante, all’indirizzo dei suoi defunti amici. Nella sua considerazione, loro erano stati semplicemente due ostacoli sulla strada dell’arricchimento economico ed egli trovava del tutto naturale essersene sbarazzato. L’importante era che nessuno, tantomeno quel De Marco dallo sguardo pericolosamente inquisitorio, sospettasse un suo coinvolgimento nel funesto avvenimento; il resto, al confronto, era poca roba e con un po’ di fortuna, aiutata da una robusta dose di abile recitazione, Giulio contava di cavarsela senza eccessivi danni.

Adesso il ragazzo si sentiva molto più tranquillo. Si accorse di avere sete e si diresse silenziosamente verso la cucina. Passando davanti alla porta socchiusa della camera da letto dei suoi genitori, sentì provenirne un mormorio fitto fitto e capì che non erano ancora riusciti ad addormentarsi. Il tono di voce della mamma suonava più acuto del solito, forse a causa del piagnucolio che ogni tanto vi si insinuava; il registro solitamente grave della voce del padre, invece, non era minimamente cambiato. E fu un lungo sfogo del genitore a far sorridere Giulio di aperta soddisfazione:

“Anna, io in presenza dell’ispettore ho dovuto mantenere un certo atteggiamento, ma adesso che siamo noi due soli posso dirti che sono risoluto a sostenere in tutti i modi nostro figlio. A me le accuse rivoltegli sembrano sinceramente esagerate e non mancherò di farlo presente al giudice, se dovessimo arrivare alla sua presenza. Ma andiamo, lo vedi tu Giulio andarsene in giro per Roma, a rubare automobili in compagnia di due ragazzacci mezzo delinquenti, che Dio accolga le loro anime! Giulio, un ragazzo così timido ed ingenuo da arrossire addirittura in presenza del parroco! No, non lo crederò mai. Nessuno potrà convincermi che nostro figlio non sia altro che un adolescente schivo, impacciato ed incline ad impressionarsi in presenza del pur minimo atto di violenza o di illegalità. Nessuno!”

 

Rocco Tedino  

Condividi post
Repost0
17 ottobre 2012 3 17 /10 /ottobre /2012 15:52

È notte inoltrata.  Pitt è stremato dalla fatica. Nelle ultime ore ha tentato di interrogare Charlotte Miller, rinchiusa nella prigione di Dreaming Street, ma i suoi sforzi hanno prodotto un ben misero raccolto. La donna ha preferito chiudersi in un silenzio ostinato, rotto soltanto in pochissime occasioni. Sa che per lei è tutto finito e che le sue colpe la condurranno fatalmente alla condanna a morte. Non le interessa, perciò, facilitare il compito dell’investigatore e mantiene un atteggiamento passivo, talvolta attraversato da momenti di aperta derisione. Ad un certo punto Pitt, convintosi dell’inutilità dei suoi tentativi, si è arreso ed ha lasciato la Miller al suo destino. Dopo una veloce capatina a casa, il sovrintendente si è recato, in compagnia di Burton, Talbot e Tellman, nell’ufficio del suo capo, il colonnello Woodside, allo scopo di ragguagliarlo circa il caso e il suo felice esito. E così, poco prima di mezzanotte, la riunione può dirsi aperta, sotto il benigno patrocinio di un Woodside che stentava a celare il suo compiacimento.

Il locale in cui i cinque si trovavano era ampio e confortevole. I muri erano rivestiti con pannelli di legno di rovere e nel camino ardeva un grosso ciocco di rovere, sprigionando di tanto in tanto fasci di vivide faville che salivano roteando nella cappa.  Su un angolo del tavolo sistemato al centro del locale era stato posato un vaso di giacinti. Accanto al vaso, una bottiglia piena di un liquido ambrato spiccava in mezzo ad una mezza dozzina di  solidi bicchieri dal vetro con rilievi a sbalzo. Ogni tanto, una delle persone presenti nella stanza si versava un goccio di quel nettare, sotto l’occhio vigile del colonnello che sembrava aver abbandonato la sua favorita espressione arcigna. Ormai aveva saputo che il caso era stato risolto e se ne rallegrava fortemente, tanto che l’aria severa, che faceva di tutto per mantenere, si stemperava spesso in un sorriso raggiante.

“Allora, Pitt, si decide a raccontarmi la fine della caccia?”

La voce del capo del Reparto Speciale sembrò scuotere il sovrintendente dal beato torpore in cui era scivolato. Pitt si raddrizzò leggermente sulla poltrona, rivolse un leggero sorriso al suo attento uditorio e iniziò a raccontare, gli occhi fissi in quelli del suo superiore:

““Devo partire da avvenimenti accaduti oltre un anno fa  e ripercorrere con attenzione gli avvenimenti intercorsi fino al pomeriggio di oggi. Parlerò di fatti noti, svelerò particolari che le giungeranno nuovi, colonnello, ma spero di fornirle, alla fine, un quadro chiaro e preciso dei motivi e della circostanze che hanno portato alla morte di un uomo ed all’incredibile sviluppo della vicenda.

Prima di addentrarmi nella rievocazione dell’accaduto, però, desidero tratteggiare brevemente la figura della principale protagonista del dramma, Charlotte Miller detta Lottie. Vi devo avvisare” – precisò Pitt – “che è una storia ignobile e banale, come ne succedono tante nel mondo dello spionaggio. Io la conosco perché ho trovato una comunicazione riservatissima ricevuta da Ryerson e conservata nel suo dossier sulla Miller.

Charlotte “Lottie” Miller nasce ventidue anni fa in un piccolo villaggio dello Yorkshire. La madre era inglese, mentre il padre era nativo della Germania, trasferitosi qui in Inghilterra nel 1919 per sposare una nostra connazionale.  Da lui che la ragazza impara così bene il tedesco da parlarlo perfettamente già all’età di dodici anni. Insieme con l’idioma, il padre insegna alla figlia anche i destini gloriosi ed ineluttabili che sarebbero arrisi alla Germania sotto la guida di Adolf Hitler, l’uomo nuovo che avrebbe riportato agli antichi splendori la loro povera patria vessata dagli inglesi e dai francesi. Quella propaganda subdola e martellante sottopone la giovane ad una sorta di lavaggio del cervello. Crescendo, Lottie si trasforma in una bellissima ragazza, che sa affascinare chiunque la avvicini, uomo o donna che sia. Poi il padre muore, seguito dopo sei mesi dalla madre e Lottie resta sola. Grazie ad un po’ di risparmi ereditati dalla madre e riesce a tirare avanti per qualche tempo. Ma viene il tempo in cui deve trovarsi un lavoro e allora va a lavorare in una fabbrica che produce pezzi per automobili. Un giorno viene avvicinata da una sconosciuta, una donna molto bella ed elegante, che si presenta come un’amica d’infanzia del padre. Aveva saputo che la giovane in soli sei mesi era rimasta orfana e le sarebbe piaciuto prendersi cura di lei, se Charlotte era d’accordo. La donna si presenta così gentile e alla mano che Lottie si affida a lei con gratitudine. In men che non si dica, la giovane si ritrova a vivere in una splendida casa. La sua ospite, che si era presentata come Rose Ryan, la sistema  in una bella stanza, le procura un guardaroba nuovo di zecca e mette a sua disposizione  un maestro di danza e uno di equitazione. Ogni due giorni, Mrs Ryan intrattiene la ragazza con lunghe lezioni di bon ton, seguite dalla comparsa di un insegnante dall’aria funerea che le impartisce ossessive lezioni di tedesco. La signora Ryan, intanto, alimenta subdolamente la sua avversione per tutto quanto riguarda l’Inghilterra, riprendendo la tattica a suo tempo usata dal padre. Quando la donna ritiene giunto il momento di mettere alla prova la sua protetta,  la presenta ad un uomo alto, magro, con lo sguardo severo, tale Mr. Brown. I tre vanno in un ristorante, cenano, ballano  e per tutta la sera la ragazza ha l’impressione di essere continuamente sotto esame. Tre giorni dopo, Mr. Brown la convoca in un altro ufficio muffito e pieno di scartoffie. Senza girare troppo attorno alla questione, lo sconosciuto cominciando le parla di una grande missione che la attende. Le dice che era una privilegiata ad essere stata scelta per un compito della massima delicatezza, così vitale per gli interessi e la sicurezza della loro amata Germania. La guerra ormai è prossima a scoppiare ed occorre che gente di grande coraggio, abile e pronta a tutto, metta tutte le proprie capacità al servizio dell’esercito tedesco, che avrà bisogno di conoscere ogni informazione riservata riguardante le forze in campo britannico. Vuole lei entrare a far parte di quella eletta schiera di eroi? Sul momento, Lottie, forse spaventata dall’immane compito che le propongono, magari sentendosi anche inadeguata al ruolo, è tentata di rifiutare e chiede tempo per pensarci su. Più tardi, la missione che voleva affidarle Mr. Brown le sembra una sfida ad una nazione che tanto male aveva fatto alla sua durante e dopo la prima guerra mondiale, come le avevano insegnato fino alla nausea tutti i suoi consiglieri in materia, a cominciare dal padre. Decide per il “sì”, comunica alla signora Ryan di essere pronta a servire la Germania con tutte le sue forze. Da quel momento il suo destino è segnato. Tre mesi dopo, con la scusa di andare a trascorrere un po’ di tempo con la nonna paterna ancora vivente, effettua un viaggio in Germania. Qui era già tutto organizzato. Lottie viene accolta clandestinamente  in un campo di addestramento in Renania, dove studia per sette mesi le tecniche più moderne dello spionaggio. Tornata in Inghilterra, si arruola nella Sanità e viene mandata in Egitto nel 1940. Bellissima ed affascinante, spregiudicata, con un quoziente intellettivo nettamente superiore alla media, non fa fatica a stringere amicizie che potessero giovarle nella sua attività segreta. Agli inizi del 1941, il Servizio di Controspionaggio di Ryerson, appena avviato, le mette gli occhi addosso e lei è ben felice, naturalmente, di poter entrare nel “sancta sanctorum” dell’intelligence britannica. Potete immaginare, colonnello, quanti danni ci ha procurato in questi due anni scarsi! E pensare che ho scoperto il suo gioco grazie ad un oscuro responso di un’immaginaria indovina della Grecia antica!”

Pitt scosse la testa, allungò la mano verso la bottiglia di whisky poggiata sulla scrivania davanti a lui e si servì di una robusta razione, sotto lo sguardo vagamente critico di Woodside. Poi proseguì:

“Lottie, dunque, viene chiamata a far parte dell’elitario gruppo di operatori che compongono la Sezione Controspionaggio guidata dal generale Ryerson. È in possesso di tutte le qualità adatte a farla considerare un ottimo acquisto da parte del prestigioso organismo: intelligenza acuta,  notevole intuito, estrema disponibilità a svolgere ogni tipo di incarico. E poi è incredibilmente bella ed affascinante, persino la sua voce piatta e sgraziata contribuisce in un certo senso a donarle un elemento di interesse in più. Ryerson, dal canto suo, è poco per volta attirato nella sapiente rete della donna che ne lusinga abilmente la vanità maschile ed acuisce in lui, per la prima volta dopo oltre vent’anni, cioè dalla morte della moglie, il peso della solitudine sentimentale. In breve i due diventano amanti e Charlotte può considerarsi arrivata in cima alla scala. Gode di fiducia unanime, lì in Sezione; sotto i suoi occhi passano informazioni della massima importanza e segretezza che lei invia con messaggi cifrati a Berlino, firmandoli con lo pseudonimo di Nessuno; tutto, dunque, va per il meglio. Ma un brutto giorno il generale riceve una notizia sconvolgente da un suo abilissimo informatore che è riuscito ad infiltrarsi nel Servizio di spionaggio tedesco diretto dall’ammiraglio Canaris, entrando addirittura a far parte dello stretto numero di coloro che ricevevano e decrittavano i messaggi segreti provenienti dagli agenti segreti tedeschi disseminati in tutta Europa. L’uomo informa Ryerson che nella sua Sezione si è introdotto da tempo un agente segreto che lavora a favore dei tedeschi! Il generale è praticamente tramortito, annichilito dalla segnalazione. Una spia tedesca tra i suoi uomini! Non può, non vuole crederci! Ma poi il suo senso del dovere, la sua dirittura morale che gli impongono di servire lealmente e fedelmente la Corona, hanno la meglio sul suo profondo disorientamento e l’uomo recupera tutta la sua lucidità. Regola numero uno: non far trapelare assolutamente l’informazione, quindi non confidarsi con nessuno…anzi no, accennare all’informativa, senza dilungarsi troppo, solo con Burton, persona veramente al di sopra di ogni sospetto. Regola numero due: chiedere al suo uomo in Germania conferme dell’assoluta veridicità della notizia. E le conferme arrivano, integrate da un’altra segnalazione ancora più devastante: la spia è una donna! Ryerson è al culmine dello sconforto. Nella sua esemplare organizzazione alligna lo spettro del tradimento! È qualcosa di mostruoso, di abnorme che getta il generale nell’avvilimento più completo. Per giorni, un solo pensiero gli martella il cervello: chi sarà la spia? Nella sua Sezione lavorano solo tre donne, tra cui Charlotte Miller, ed una di loro tre, una persona alla quale Ryerson aveva concesso interamente la sua fiducia, ha rinnegato il suo giuramento di fedeltà all’Inghilterra, al re e a lui stesso! Ma il generale non è uomo da cedere per troppo tempo alla demoralizzazione. Vuole bere fino in fondo l’amaro calice ed escogita un’ingegnosa trovata. Compila tre falsi dispacci su carta intestata del Ministero della Guerra, in cui si descrive dettagliatamente un piano ardito, la cui riuscita muterebbe radicalmente le sorti del conflitto che sta insanguinando l’Europa: viene ipotizzato un raid avente come scopo il rapimento di Mussolini ad opera di un commando inglese. L’operazione avverrebbe in occasione di uno dei tanti viaggi effettuati dal Duce verso il suo “buen retiro” a Frascati, dove è solito incontrare discretamente il suo amore duraturo, la giovane Claretta Petacci. Il messaggio è identico in tutte e tre le copie, ad eccezione di un particolare: ogni foglio indica un mese diverso per l’effettuazione dell’incursione. La prima copia, infatti, indica il mese di luglio come quello scelto dagli incursori dell’esercito per agire; la seconda parla del mese di agosto, la terza del mese di settembre. Il geniale piano prevede che ogni giorno Ryerson deposito nel cassetto della sua scrivania uno dei tre fogli e che, con una scusa qualsiasi, incarichi una delle donne di andare a prenderlo e portarglielo.

Naturalmente, il generale si è premurato di annotare in segreto qual è il nome del mese indicato sul dispaccio che ogni giorno cade sotto gli occhi di ciascuna delle tre donne, così da scoprire immediatamente chi eventualmente ha in seguito trasmesso la notizia a Berlino…

Ryerson, difatti, ha già allertato il suo agente in Germania: gli faccia immediatamente sapere se nell’ufficio in cui lavora sotto copertura arriva dall’Inghilterra l’informazione che gli Alleati vogliono rapire Mussolini e per quale mese è prevista l’operazione. Nel frattempo, la trappola predisposta da Ryerson è scattata. Per tre giorni, il generale ha lasciato una copia del falso comunicato nel cassetto e ha spedito una delle tre donne a recuperarlo, prendendo nota del suo nome e del nome del mese segnato sul foglio. Adesso non resta che attendere quanto comunicherà da Berlino la spia inglese. Ryerson vive ancora una volta giorni duri. Si impone di essere forte, ma la paura che la traditrice possa essere la donna che ama non lo lascia un attimo. Passa una settimana e i suoi peggiori timori trovano una tragica conferma: il mese indicato nel messaggio segreto spedito ai tedeschi è quello di agosto e la donna che era andata a prendere  l’informativa contenente il riferimento al mese di agosto rispondeva al nome di Charlotte Miller.

Per Ryerson è una mazzata tremenda. Si sente tradito, offeso, umiliato e va a cercare la donna a casa sua. Qui la affronta con foga rabbiosa,  gettandole in faccia tutto il suo disprezzo. Alla fine le dice che l’indomani avvertirà del suo tradimento le forze speciali di Scotland Yard: questo significa l’arresto, il successivo processo e l’inevitabile condanna a morte. Lei non tenta nemmeno di negare, né ricorre alle lusinghe amorose per aprirsi una via di scampo. Con  freddezza disumana, sfida l’altro a porre in atto le sue minacce e gli ricorda soltanto che la Sezione controspionaggio riceverebbe un colpo mortale se la notizia di un simile scandalo trapelasse all’esterno. Ryerson, però, non intende ragione e ribadisce che nella mattinata del giorno dopo lei si ritroverà chiusa in una cella, da cui uscirà soltanto per andare davanti al giudice. Io mi sono già chiesto” – continuò Pitt con aria assorta – “perché il generale avesse concesso alla Miller un’intera nottata prima di farla arrestare. Sperava, forse, che la spia la sfruttasse per scappare? In questo caso, voleva salvare la donna che in fondo amava ancora, oppure gli stava maggiormente a cuore il buon nome del Servizio che dirigeva e desiderava davvero preservarlo dall’ondata di fango che l’avrebbe inesorabilmente investito non appena si fosse risaputo della presenza al suo interno di un’agente nemico? Non lo sapremo mai. Resta il fatto che i piani di Ryerson, di qualsiasi genere essi fossero, vengono vanificati dal suo assassinio. Quando Tellman mi fa il suo rapporto, mi dico che le circostanze della morte del generale sono quantomeno singolari ed arrivo a quella che mi sembra una riflessione del tutto logica:  escludendo influenze paranormali, Ryerson è stato pugnalato mentre si trovava ancora nel bosco. Mi rendo conto che avrei trovato certamente difficoltà, senza  il sostegno del referto dell’autopsia, a spiegare come mai un uomo ferito al cuore fosse riuscito a raggiungere con le sue gambe uno spiazzo abbastanza distante, prima di crollare al suolo, ma nell’analisi dei fatti ho tenuto presente il principio cui si ispirava Sherlock Holmes in qualche sua indagine particolarmente ostica: quando elimini l’impossibile, quello che resta, per quanto possa sembrare incredibile, dev’essere la verità. Non era possibile che qualcuno avesse pugnalato Ryerson nel punto in cui era caduto poiché c’erano ben quattro testimoni a escluderlo, quindi restava solo una spiegazione che, per quanto inconcepibile, doveva essere quella esatta: il generale viene assalito e colpito da ignoti mentre attraversa il bosco; nonostante la gravissima ferita, riesce a camminare fino a raggiungere il centro dello spiazzo; qui le forze lo abbandonano, egli cade, pronuncia un’enigmatica frase e muore.”

Pitt si era interrotto. Rimase per qualche istante in silenzio, guardando fisso il suo bicchiere. Poi, passando lentamente il polpastrello dell’indice sull’orlo del recipiente, riprese a raccontare:

“Ascoltando la dinamica della morte di Ryerson, dunque, maturo la convinzione che l’uomo sia stato aggredito prima di sbucare nello spiazzo. Incarico, allora, Tellman di ispezionare il bosco e il bravo sergente…non arrossisca, Tellman, dico solo la verità… mi porta due  indizi che mi sembrano promettenti: il medaglione e la testimonianza del perspicace marinaio della chiatta, il quale, nelle prime ore del mattino,  aveva visto uscire dal cancelletto di villa Ryerson un individuo con cappello e impermeabile che camminava in maniera molto somigliante a quella di una donna. Ripongo quelle informazioni in un cassetto del cervello e mi auguro che possano risultare utili nel prosieguo delle indagini. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, mi colpiscono due particolari piuttosto curiosi ed entrambi sono legati alla comparsa a Lodge Manor di una donna bella oltre ogni immaginazione che, purtroppo, ha anche una voce estremamente sgradevole: Charlotte Miller. La signorina arriva dal viale principale che è completamente pavimentato, eppure io noto che ha le scarpe sporche di fango, cosa che, a rigor di logica, non dovrebbe verificarsi se si cammina esclusivamente su lastroni di pietra. Altra stranezza: quando il maggiordomo le chiede se è stata importunata dai giornalisti, che si sono radunati davanti al cancello principale della casa subito dopo aver appreso la notizia della morte di Ryerson e da lì non si sono più mossi, la decorativa fanciulla risponde “quali giornalisti?”, facendo così intendere che lei non ne ha incontrato neppure l’ombra. Ma allora, mi chiedo io a questo punto, da quale ingresso la donna è entrata nella proprietà? Se non l’ha fatto attraverso il cancello principale, come i due dettagli citati indurrebbero a supporre, vuol dire che si è introdotta nelle pertinenze della casa usando il cancelletto situato in fondo al bosco. Ricorderete che dal cancelletto parte un sentiero che costeggia il muro di cinta dell’abitazione e si allunga, nascosto alla vista altrui dal bosco, fino a raggiungere l’entrata centrale e, di conseguenza, il viale pavimentato.  È questa la strada seguita dalla Miller? In tal caso, è logico che mi ponga un paio di domande: quale interesse recondito aveva l’ambigua fanciulla mentre tentava di far credere di essere arrivata dall’ingresso principale? E inoltre, che cosa cercava nel bosco? Forse il medaglione che il sergente aveva trovato nella mattinata? Non ho il tempo di riflettere a fondo sulla questione, perché successivi avvenimenti richiedono il mio impegno immediato, e così accantono, almeno per il momento, quella linea investigativa. Ma non la dimentico, questo no, tanto è vero che non esito a riprenderla dopo che  proprio in questo ufficio un riferimento alla Grecia classica del colonnello mi spalanca una nuova via, probabilmente quella giusta per la soluzione del caso.”

Pitt guardò sorridendo il suo capo, attendendosi quantomeno un cenno di assenso, ma dovette constatare che Woodside lo fissava con espressione spaesata, chiaramente all’oscuro del particolare al quale alludeva il suo sottoposto. Il sovrintendente capì che doveva  spiegare l’accaduto dettagliatamente, anche a beneficio delle altre tre persone che fino a quel momento avevano ascoltato la sua spiegazione dei fatti mantenendo un silenzio assoluto e partecipe. Pitt, quindi, ricominciò a spiegare:

“Alcuni giorni fa mi trovavo in questo ufficio e mi spaccavo come al solito il cervello nel tentativo di dare un senso compiuto all’ermetica frase che Ryerson aveva pronunciato alcuni istanti prima di morire. Mi incuriosiva, ad esempio, il metodo scelto dal generale per comunicare un’informazione che lui riteneva evidentemente fondamentale. Le forze lo stavano abbandonando, ma non la sua assuefazione alla segretezza, visto che pure in quelle condizioni disperate aveva trovato la lucidità per escogitare un mezzo che gli consentisse di depositare la notizia in orecchie fidate, come quelle di Burton che egli credeva di trovarsi davanti, confondendolo con Nash al quale il suo braccio destro somigliava moltissimo. Ecco allora che sussurra la sua ultima raccomandazione:

attenzione…uomo…non…cercate…nessun…colpevole.

Che significa una simile proposizione? Io non l’avevo decifrata, ma il colonnello Woodside mi ha fatto notare che quella frase gli ricordava il la risposta che la sibilla, un’indovina della mitologia greca, aveva dato ad un soldato che l’aveva consultata per sapere se sarebbe tornato vivo dalla guerra. La sibilla rispose: andrai tornerai non morirai in guerra. Bell’esempio di chiarezza, non siete d’accordo? Ed anche bell’esempio di perfidia, aggiungo io. Sì, perché se mettiamo una virgola per indicare dove fare le giuste pause nella frase, il significato del vaticinio cambia semplicemente spostando la virgola prima o dopo quel non. Primo caso: andrai non tornerai, morirai in guerra. Secondo caso: andrai tornerai, non morirai in guerra. Capita la differenza? Applichiamo lo stesso criterio alla frase di Ryerson e sistemiamo la virgola dopo il non, che è la soluzione che più ci interessa. Che cosa viene fuori?

Attenzione non uomo, cercate Nessuno colpevole.

Voi direte che Ryerson aveva scelto un procedimento assai complicato per trasmettere quanto da lui scoperto nei giorni appena precedenti, ma tenete conto che su tutto aveva prevalso la sua abitudine a rivelare certe scottanti verità dopo averle occultate dietro lo schermo di espressioni criptiche. In più, gli interessava che soltanto Burton capisse il riferimento a Nessuno. Quando io ho messo idealmente la virgola nel posto giusto, le intenzioni di Ryerson mi sono apparse chiarissime e finalmente ho aggiunto un altro tassello, estremamente utile, alla soluzione del caso. Il generale, infatti, aveva spiegato che non cercassero un uomo, nonostante il travestimento,  perché il colpevole del gesto delittuoso era Nessuno. Non sapevo ancora, in quel momento, chi fosse Nessuno, ma almeno avevo stabilito che, come supponevo da tempo, l’assassina era una donna. Ciò spiegava il medaglione, l’andatura strana per un uomo descritta dal marinaio della chiatta, il fango sulle scarpine e l’accenno ai giornalisti della Miller. Era stata lei, mi sono chiesto, a pugnalare Ryerson, il suo capo di Sezione? E per qual motivo? Erano due domande cardine, la base di partenza verso la completa spiegazione dei fatti. Mi rivolgo allora al qui presente capo della Sezione controspionaggio e riesco a sapere, dopo un milione di che scherzava – “che Ryerson aveva scoperto nella sua collaudata squadra uno spregevole individuo venduto ai tedeschi, una spia che mandava ai suoi padroni di Berlino messaggi contenenti notizie riservatissime, firmandoli col nome di Nessuno. Qualche giorno più tardi, vengo a sapere che il traditore è una donna! Sommando quest’ultima informazione a quelle raccolte in precedenza, la mia convinzione che l’assassina sia la Miller si rafforza notevolmente. Ma voglio accumulare  più indizi che posso e provo a chiedere ancora a Burton se ha mai visto il medaglione trovato nel bosco di Lodge Manor.

Bingo! Il mio prezioso amico Reginald mi dice che non ha mai visto il medaglione, ma che ricorda di aver notato la foto del bimbo nel cassetto di una delle donne che lavorano in Sezione. Io insisto per conoscere il nome della donna e mi sento rispondere che si tratta…indovinate di chi? Esatto, della Miller! Il giorno dopo, il colonnello mi consegna l’ultimo fascicolo di Ryerson e lì dentro trovo tutti i particolari che mancano alla mia ricostruzione dell’accaduto.

A questo punto, il quadro definitivo dice che Charlotte Miller è una spia e un’assassina.”

Pitt si concesse una brevissima pausa. Si alzò, anche per sgranchirsi le gambe, si versò due dita di whisky, imitato da tutti i presenti, ad esclusione del colonnello che beveva pochissimo, non si sa se per morigeratezza o per avarizia, poi si accomodò nuovamente nella sua poltroncina e si dispose a raccontare la parte finale del suo resoconto:

“Era arrivato il momento di gettare le reti ed issare a bordo la preda. Incarico Talbot e Tellman di porre la Miller sotto strettissima sorveglianza. Guai a perderla di vista anche un solo istante! Trascorre qualche giorno. L’ansia e l’inquietudine crescono col passare delle ore, ma non possiamo fare altro che attendere una mossa sbagliata da parte della Miller, una mossa che la inchiodi definitivamente. E il momento arriva. Nel pomeriggio di ieri, Tellman vede entrare la donna nel negozietto di un libraio, aperto dalle parti di Tottenham. Spiando attraverso la vetrina, il sergente l’ha notata porgere un libretto all’uomo dietro il banco, scambiare con lui qualche frettolosa parola e poi uscire e allontanarsi senza guardarsi intorno. Tellman non perde tempo: fa cenno al poliziotto d’appoggio, fermo poco distante, di seguire la Miller, entra nella piccola libreria, si qualifica e si fa consegnare il volume lasciato dalla donna, che del resto si trova ancora sul banco della bottega. Lo esamina e nota che alcuni gruppi di parole, nelle pagine interne, sono cerchiate oppure sottolineate. Che sia un codice usato per comunicare con i tedeschi? Ma il vero colpo di fortuna arriva quando Tellman scopre un foglietto nascosto nella fodera di cartone che riveste il libro. È un messaggio brevissimo, ancora in chiaro: Nessuno scoperto fuga necessaria attendere futuro contatto. Tellman mantiene lodevolmente la calma. Col suo fischietto fa accorrere un agente al quale affida il libraio in stato d’arresto per sospetto spionaggio, poi chiama la sede della polizia di zona per sapere se si è fatto vivo il poliziotto che sta nel frattempo pedinando la spia. Viene così informato che sorvegliata e sorvegliante hanno raggiunto la Tower Station e lì si sono fermati. Il sergente li raggiunge, si accerta che tutto sia sotto controllo e mi chiama in ufficio, chiedendomi di portarmi sul posto al più presto. Io mi dirigo celermente verso la stazione e vi trovo tutta la squadra, capitanata da Talbot e Tellman. La nostra indomabile nemica è nella sala d’aspetto, mi viene detto. Io guardo dentro e noto un individuo  seduto sulla panca contro il muro più lontano: indossa un impermeabile chiaro e ha il viso ombreggiato da un cappello a larga tesa. Entriamo tutti, assumendo una formazione a cuneo per bloccare qualsiasi tentativo di fuga. Ci fermiamo davanti alla figura immobile che finalmente si decide a sollevare il viso, svelando tutta la radiosa bellezza di Charlotte Miller. Non voglio prolungare troppo le formalità d’uso in questi casi, così dichiaro in arresto la donna e l’affido ad uno dei poliziotti prigioniera nel carcere di Dreaming Street ed io tento per ore di farmi raccontare da lei tutta la storia, a partire da quella mattina fatale in cui Ryerson,n era stato ucciso. Macché, scena muta su tutta la linea. Ad un certo punto, quasi infastidita, la Miller mi ha detto:

Ebbene, sì, ero nascosta dietro il tronco di un albero del bosco e lo stavo aspettando, poiché a quell’ora andava a pregare sulla tomba della moglie. Quando mi è passato davanti, sono balzata fuori e l’ho pugnalato…Certo, sono rimasta di sasso vedendo che non solo non cadeva ma che, addirittura, continuava a camminare verso la casa. Non potevo neanche vibrargli un altro colpo perché avevo sentito parlare nelle vicinanze e non volevo rischiare di essere vista da qualcuno…Sì, sono tornata sul posto nel pomeriggio per cercare il medaglione ed è stato allora che mi sono sporcata le scarpe di fango . Devo congratularmi con lei, poliziotto, per averlo notato. Bravo!...

Unicamente in un’occasione il suo sguardo si è addolcito per un attimo  ed è stato quando le ho chiesto chi era il bambino della foto nel medaglione e lei mi ha risposto che si trattava di suo figlio, affidato alle cure del padre in Germania. Ha infine risposto ad un’altra domanda soltanto: perché non è fuggita, le avevo chiesto, sapendo di avere davanti tutta una notte per farlo, visto che il generale aveva dichiarato che avrebbe atteso l’indomani per denunziarla? Lei, con calma, mi ha spiegato che aveva creduto al falso dispaccio concernente il rapimento di Mussolini e voleva restare in Sezione per saperne di più.  

Poi ha chiesto un bicchiere d’acqua e mi ha chiaramente detto che potevo farla rinchiudere in una cella, tanto non avrebbe aperto più bocca. E così è stato. Allora me ne sono andato e, per quanto mi riguarda, il sipario è definitivamente calato su Charlotte Miller detta Lottie, su Saville Ryerson e sulla loro storia intessuta di passione, inganni e risvolti tragici.”

Pitt, visibilmente esausto, fece cenno di avere terminato e si lasciò andare con un sospiro di sollievo  contro lo schienale della sedia. Gli altri si riscossero a loro volta, senza aprire bocca, poi di botto cominciarono a parlare tutti insieme:

“Mio Dio, che storia incredibile…”

“Burton, possibile che nessuno di voi abbia mai subdorato del marcio in tutto questo tempo?...”

“Non dimenticherò mai lo sguardo della Miller quando l’abbiamo arrestata…”

Solo il colonnello Woodside era rimasto silenzioso, immerso in pensieri palesemente  molesti. Guardava Pitt e sembrava deluso da qualcosa: che ritenesse insoddisfacente l’epilogo dell’intera vicenda? Se così era, il dio protettore degli amanti del sensazionale a tutti i costi decise di correre in suo aiuto. Squillò il telefono, determinando la discesa del silenzio nella stanza. Il colonnello rispose, ascoltò senza commentare per un minuto buono, ringraziò. Poi guardò Pitt e, con uno sguardo indecifrabile, disse:

“Mi ha appena chiamato il mio amico Follett di Scotland Yard. L’agente incaricato di vigilare sull’incolumità della Miller, si è insospettito vedendola immobile per troppo tempo sulla branda della sua cella ed ha avvertito il sergente di guardia. Sono entrati nella stanzetta ed hanno scosso la donna, senza alcun esito. È stato immediatamente chiamato il medico di guardia il quale ha percepito il lieve sentore di mandorle amare che si sprigionava dalle labbra della Miller ed ha capito subito che cosa era successo. Ha illustrato allora alle guardie i suoi sospetti e tutti insieme si sono messi a  cercare in giro. Poco dopo, il sergente si è accorto che dalla manica dell’impermeabile della donna mancava un bottone strappato da poco, come testimoniato dai fili ancora pendenti. Il  dottore ha così avuto la conferma che la Miller si era avvelenata con una capsula di cianuro di potassio modellata come un bottone, estremo gesto compiuto usualmente da agenti segreti che non hanno più alcuna via di scampo. Exit la spia, come annoterebbero tanti testi teatrali.”

Woodside accompagnò quest’ultima affermazione con una smorfia di rallegramento che celava a malapena una briciola di piacere luciferino, si versò per la prima volta nella serata una robusta razione di liquore e, con voce alta e squillante, propose un brindisi alla felice risoluzione del caso ed alla bravura degli investigatori. Tutti aderirono all’invito del colonnello con una comprensibile traccia di orgoglio e toccò infine a Thomas Pitt pronunciare l’epitaffio dedicato ad una giovane donna che aveva sacrificato alle lusinghe di un’aberrante ideologia le nascenti promesse di un’esistenza con ogni probabilità elettrizzante:

“Ha defraudato il boia del suo diritto al lavoro…e forse è meglio così. Addio, Charlotte Miller, che tu possa trovare la pace.”      

Condividi post
Repost0
13 ottobre 2012 6 13 /10 /ottobre /2012 16:23

Delitto a due facce   (4ª parte)

 

Pitt dormì male, quella notte. Ogni tanto si svegliava di colpo ed il pensiero tornava invariabilmente all’assassinio di Ryerson. Tra le altre cose, si accorse di rimuginare con frequenza  sulle confidenze di Anders. Perché, si interrogava Pitt, l’avvocato aveva  ritenuto utile mettere a parte il sovrintendente dei segreti non certi edificanti degli ospiti di Ryerson? Ci teneva a presentare quest’ultimo sotto una luce estremamente sfavorevole per la parte avuta nelle varie vicende legate al passato di quegli uomini, oppure voleva anticipare in qualche modo le scoperte di Pitt, se questi si fosse messo ad investigare sul loro conto? Pitt, onestamente, non credeva che l’assassino fosse qualcuno di loro, però non poteva neanche scartare quella evenienza sull’unica base di una sua sensazione personale. D’altra parte, gli ripugnava dare il via ad un’indagine che avrebbe fatalmente riportato a galla fatti e misfatti ormai sepolti negli archivi della polizia, schizzando fango tardivo su tante persone e trascinando nell’ignominia un nome che l’opinione pubblica considerava onorato, quello di Saville Ryerson. No, per il momento l’investigatore avrebbe tenuto per sé gli sfoghi dell’avvocato e non ne avrebbe parlato neppure con Tellman. Per avviare un’inchiesta a carico di quei sei c’era sempre tempo.  L’insonne poliziotto sentì battere più volte le ore notturne, poi finalmente un flebile chiarore proveniente dalla strada gli annunciò l’arrivo del nuovo giorno. Quando ritenne che fosse maturata un’ora decente per alzarsi, Pitt respinse le coperte e andò a prepararsi, badando a non svegliare sua moglie che dormiva ancora saporitamente. Si ritrovarono mezz’ora dopo in sala da pranzo, di fronte ad una succulenta colazione. Parlarono del più e del meno, il discorso scivolò fatalmente sul caso e Pitt aggiornò la sua curiosa consorte per quello che gli era consentito. Terminato di mangiare, il sovrintendente accennò vagamente a certi impegni urgenti che lo attendevano a Scotland Yard e se la svignò. Non aveva, comunque, del tutto mentito, perché mentre si sbarbava un’idea improvvisa gli aveva folgorato la mente. Era un’idea pazzesca, ne conveniva, ma a quel punto qualsiasi tassello, per quanto piccolo ed incredibile, poteva contribuire a svelare più chiaramente le linee dell’intero mosaico. Per prima cosa, si diresse verso la stazione di polizia dove sapeva che avrebbe trovato Talbot. Non si sbagliava. L’ispettore ascoltò con un certo stupore la richiesta del suo superiore e dieci minuti più tardi un affaccendato sovrintendente navigava a bordo di una vetusta auto pubblica verso la sede centrale di Scotland Yard, fastidiosamente sballottato sul fondo stradale sconnesso. Ci vollero tanta pazienza ed un centinaio di spiegazioni ad un tetragono poliziotto di guardia, prima che Pitt riuscisse a farsi accompagnare in una disadorna stanzetta adibita ad ufficio, in cui incontrò Burton che lo guardò sorpreso di trovarlo lì.

“Buongiorno, Reginald, sapevo che stamattina avevi un appuntamento qui allo Yard con l’Alto Commissario e ne ho approfittato per chiederti un’informazione. Dimmi, hai mai visto un aggeggino dl genere?” E così dicendo il sovrintendente tirò fuori di tasca il medaglione rinvenuto da Tellman nel bosco della villa di Ryerson e lo porse all’amico. Questi lo guardò attentamente, lo rigirò un paio di volte tra le mani, corrugò la fronte nell’evidente sforzo di ricordare, quindi alzò lo sguardo su Pitt con espressione confusa:

“Sai, Thomas, questo medaglione mi sembra di averlo già visto, ma non riesco a ricordare dove, così al momento. Non me lo puoi lasciare, vero?” – e al cenno di diniego dell’altro, sospirò: “Lo immaginavo. Senti, io ti prometto di rifletterci sopra e se mi torna qualcosa in mente te lo faccio sapere. Adesso vattene, perché mi possono convocare da un istante all’altro.”

Pitt lo ringraziò e si allontanò sollecitamente. Mentre camminava, avvertiva un senso di euforia che egli cercava giudiziosamente di tenere a bada.

“Stai calmo” – si ripeteva – “ la mezza ammissione di Burton non ti ha avvicinato nemmeno di mezzo pollice alla soluzione. Ne hai di strada da fare, prima di goderti il successo.”

Sbucò in una piazzetta dalle parti di Chelsea e si fermò di botto. Il lato più corto dell’area si era trasformato in un alto cumulo di macerie, da cui si levava ancora qualche nero pennacchio di fumo. Le case che vi sorgevano si erano disintegrate sotto la micidiale opera dei bombardieri tedeschi, giunti presumibilmente su Londra alle prime luci dell’alba, come ormai facevano da circa due mesi. Pitt fece scorrere ancora una volta lo sguardo su quel cumulo di rovine, augurandosi fervidamente che non nascondessero qualche morto, e proseguì con il cuore pieno di tristezza. Salì nel suo ufficio e lo trovò deserto. Talbot e Tellman erano certamente impegnati nel controllo fiscale su Ryerson che lui stesso aveva ordinato. Che cosa poteva fare, in attesa che qualcuno si facesse vivo? Era inutile, senza i carteggi di Ryerson da esaminare aveva le mani legate. Decise di andare alla sede del Reparto Speciale e parlare con il suo capo, se c’era. Mezz’ora dopo, il sovrintendente si trovava seduto nell’ufficio del colonnello, un bicchiere di whisky in mano e un’espressione imbronciata sul volto. Woodside gli stava spiegando che aveva già provveduto a smuovere le sue pedine per ottenere in visione i sospirati fascicoli segreti di Ryerson, ma che ci voleva tempo e pazienza prima di riuscire nell’intento. Pitt annuì, ma si vedeva che era insoddisfatto. Frugando distrattamente nella tasca della giacca, tirò fuori la strisciolina di carta, su cui aveva scritto la frase oscura da mostrare al suo amico Burton, la lisciò e la stese sul tavolo, cominciando a fissarla con un cipiglio da nemico.

Il colonnello Woodside, intanto, misurava la stanza a lunghi passi irosi. Soffriva per la forzata inazione cui lui e Pitt erano condannati, dal momento che le indagini sembravano essersi arenate, e sfogava la sua delusione emettendo incomprensibili borbottii e lanciando frequenti occhiate incuriosite al suo sottoposto che sembrava profondamente immerso nell’esame dell’ultima esternazione di Ryerson:

 attenzione…uomo…non…cercate…nessun… colpevole.

Woodside si fermò dietro le spalle di Pitt, lesse la frase a sua volta e poi commentò, con una scrollata di spalle e un sorrisetto agro: “Mi ricorda la risposta, in verità perfida, che la sibilla della mitologia greca dette ad un soldato che era andato a consultare l’oracolo per sapere se sarebbe tornato sano e salvo dalla guerra. Lei gli disse: Andrai tornerai non morirai in guerra. Il responso cambia di significato secondo la collocazione della virgola. Se la mettiamo dopo tornerai la frase significa: andrai tornerai, non morirai in guerra. Se invece la mettiamo dopo non, il significato si capovolge: andrai non tornerai, morirai in guerra. Guarda, guarda, anche in questa frase c’è un non. Pitt, può significare qualcosa? Pitt, si sente bene?” – Così dicendo, Woodside aveva afferrato l’ispettore capo per una spalla e lo scrollava delicatamente. Pitt, infatti, era rimasto come fulminato: gli occhi sbarrati, la bocca mezza aperta e un’espressione di indicibile sbalordimento negli occhi. Possibile che fosse quella la soluzione giusta, quella che gli era praticamente scoppiata nel cervello ascoltando l’aneddoto del suo capo? Doveva sapere, ma in luogo tranquillo, dove nessuno potesse disturbarlo: il suo ufficio, ecco dove andare a rintanarsi per esaminare in santa pace l’intera faccenda. Si alzò di scatto e a  passi veloci raggiunse la porta. L’aprì, ma prima di uscire ritrovò il controllo necessario per volgersi al suo capo: 

“Mi scusi, colonnello, c’è un’incombenza urgentissima che mi aspetta, le farò rapporto più tardi”. Ciò detto, si lanciò fuori dall’ufficio, lasciandosi alle spalle Woodside che sembrava essersi trasformato in una statua di sale.

Quando Talbot e Tellman rientrarono in sede che già le ombre della sera scendevano ad avvolgere la città, trovarono il loro superiore comodamente allungato sulla sua poltroncina dietro la scrivania. Aveva un’espressione beata sul viso e salutò i suoi collaboratori con espansività:

“Venite, venite, ragazzi, riposatevi per qualche minuto. Giornata dura, oggi?” Talbot sollevò significativamente gli occhi al cielo, per testimoniare la sua muta approvazione, mentre il sergente si lanciò in un dettagliato rapporto che, sfrondato dai ricami del linguaggio burocratico militare, giungeva più o meno una conclusione del genere: nessun elemento degno di nota è emerso dall’esame della documentazione bancaria sin qui vagliata. Domani riprenderò il lavoro. Appreso da Talbot che anche sul suo fronte la situazione non aveva evidenziato anomalie di sorta, Pitt mandò un agente a procurarsi delle birre e la richiesta aveva in sé tanto di straordinario che Tellman osò chiedere:
“Mi scusi, sovrintendente, abbiamo qualcosa da festeggiare?”

“Sì e no, sergente” – chiarì Pitt con un sorriso – “Voglio personalmente festeggiare un’idea che si sta radicando sempre più nel mio cervello e che spiegherebbe perfettamente lo svolgimento dei fatti. Ma non è ancora venuto il momento di parlarne. Ho bisogno di maggiori riscontri, soprattutto ho bisogno di mettere le mani su certi documenti che solo il Controspionaggio mi può procurare. Devo, perciò, aspettare con santa pazienza, sperando che le mie richieste siano esaudite. Voi, intanto, continuate ad interessarvi delle condizioni economiche di Ryerson e non lasciate nulla di intentato.”

In quel momento, il trillo del telefono riempì la stanza. Pitt sollevò il ricevitore, disse “pronto”, poi rimase ad ascoltare. Dall’apparecchio filtrava il ronzio delle parole che giungevano dall’altra parte, mentre Pitt dava il suo contributo alla conversazione con laconici monosillabi. Ad un tratto, Talbot e Tellman lo videro protendersi in avanti nell’atteggiamento di un cane da punta che ha inquadrato la sua preda. Ascoltò ancora brevemente la cascata di suoni gracchianti che scaturivano dalla cornetta, poi sibilò con tono che non ammetteva repliche:

“Eh, no, caro mio, adesso me lo dici. È troppo importante e non puoi tirarti indietro a questo punto!”

Fu accontentato, evidentemente, perché i due presenti nel locale videro la sua espressione cambiare lentamente, impietrirsi, fissarsi in una maschera di gelida determinazione. L’interlocutore stava ancora parlando e Pitt si riscosse. Ascoltò per una manciata di secondi, quindi rispose:

“Sì, hai ragione, domani stesso passerò da te. Voglio comunque che tu sappia che ti sono veramente grato. A domani. Buonanotte.” E agganciò lentamente la cornetta. Talbot intuì che nella sua mente si rincorreva un groviglio di pensieri pressanti e non volle disturbarlo. Anche Tellman si rese conto che non era il momento di fare domande e tacque. Il sovrintendente ristette silenzioso, e pressoché immobile, per circa cinque minuti, mentre la complessità  delle sue riflessioni scavava una ruga sempre più profonda sulla fronte. Sollevò infine lo sguardo sui suoi due collaboratori, che attendevano disposizioni in rispettoso silenzio, riuscì a cavare dal peso delle sue preoccupazioni la parvenza di uno stentato sorriso e spiegò:

“Qualche minuto fa mi ha telefonato Burton, l’attuale capo della Sezione di Controspionaggio, colui che ha preso il posto di Ryerson. Mi ha fornito un’informazione davvero importante, di cui non vi metto ancora a parte non certo per sfiducia nei vostri confronti, sia ben chiaro, ma perché aspetto di mettere le mani su ulteriori elementi che possano permettermi di darvi un quadro più completo della situazione. Intanto vi chiedo di lasciar perdere l’indagine patrimoniale avviata sul conto di Ryerson, adesso non credo che possa diventare determinante per portarci alla soluzione del caso. Talbot, lei domani fa un giretto nella sua zona e cerca di scoprire se Ryerson è stato mai visto in compagnia di una donna. Lei del suo distretto conosce ogni piega e potrà sicuramente contare sull’apporto di chissà quanti informatori. Frughi, interroghi, scavi, scopra se Ryerson era socio di qualche circolo e vi faccia una capatina, chieda nei migliori negozi di abbigliamento, parli con camerieri e gestori di ristoranti, rifaccia il giro delle oreficerie…insomma, impieghi tutta la sua abilità nella risoluzione di questo incarico e porti alla luce qualsiasi retroscena, se esiste. Lei, invece, Tellman agisca, per così dire, all’interno della fortezza. Vada a Lodge Manor e sprema ben bene la servitù, con particolare riguardo per quella cameriera che lei conosce. Lasci stare la figlia di Ryerson e i suoi ospiti, non abbiamo ancora niente in mano che possa servire ad abbattere eventuali resistenze. Domani sarò qui verso mezzogiorno e speriamo di scambiarci buone notizie. Adesso finiamo la birra rimasta e andiamocene a casa.”

Alle nove del mattino successivo, sotto un vento freddo e tagliente che gli fece rimpiangere di non essersi cautelato indossando indumenti più pesanti, Pitt raggiunse il covo ultra sorvegliato di Burton e fu ammesso alla sua presenza.

“Buongiorno, Thomas, sono proprio contento di vederti” –  il padrone di casa era gioviale – “Adesso puoi raccontarmi tutto?”

“Sono venuto appunto per questo” – dichiarò Pitt, altrettanto affabile – “Ma perché non andiamo a bere qualcosa di caldo nel pub qui vicino?”

Uscirono e poco dopo erano seduti davanti a due punch fumanti, in un angolo discreto del locale praticamente vuoto a quell’ora del mattino. Il sovrintendente parlò ininterrottamente per circa venti minuti e il capo dell’organizzazione antispionistica di Londra rimase ad ascoltarlo senza mai intromettersi. Quando Pitt ebbe terminato, Burton lo fissò ancora per qualche secondo con aria inebetita, poi esclamò soltanto:

“Che Dio mi fulmini!”

La radicale invocazione era chiaramente un modo di dire, priva di qualsiasi anelito autodistruttivo; nondimeno l’icastica locuzione commentava appropriatamente la sconvolgente ricostruzione dei fatti minuziosamente elaborata da Pitt.

“Thomas, ti giuro che se hai indovinato non avrò mai più fiducia nella gente!”

“Aspetta ad essere tanto catastrofico, Reginald: può anche darsi che io abbia costruito un bellissimo castello con tante iridescenti bolle di sapone. Mancano le prove, mancano i raffronti intesi ad accertare una corrispondenza tra ipotesi e testimonianze, manca il meglio, insomma. Aspettiamo ed incrociamo le dita. Qualcosa succederà.”

I due amici uscirono e si separarono, ciascuno diretto verso il cumulo di responsabilità che li attendevano.

Trascorsero due malinconici giorni contrassegnati da calma piatta sul fronte delle indagini. Pitt, Talbot e Tellman si trovavano regolarmente nel loro ufficio. L’ispettore ed il sergente ragguagliavano un depresso sovrintendente circa i progressi fatti nel corso delle ricerche intese a dare un volto alla fantomatica donna di Ryerson e alla fine la conclusione era sempre la solita: nessuna novità da segnalare. Il colonnello Woodside tempestava di telefonate il Dipartimento di Sicurezza interna, perché si decidessero a consegnare a Pitt i fascicoli degli ultimi casi trattati dal generale prima di essere ucciso, e minacciava di rivolgersi all’Ammiragliato, al Ministero della Difesa, a Winston Churchill in persona, se era il caso, pur di ottenere quanto chiedeva.

La sera del secondo giorno, Pitt si era appena messo a letto con un libro. Fuori vento e pioggia tempestavano con furia inaudita e il funzionario pensava che con quel tempaccio anche quei maledetti di tedeschi avrebbero rinunciato a sganciare sulla città il loro abituale carico di morte. Violet, la signora Pitt, si era quasi addormentata e il libro che stava leggendo giaceva di traverso sulla coperta, accanto alla sua mano. Squillò il telefono. Pitt sobbalzò, imprecò, sfiorò la guancia della moglie con una rapida carezza, esortandola a riprendere sonno, e andò a rispondere. Mezzo minuto dopo, il pigiama volava in fondo al letto e la signora Violet, perfettamente sveglia, assisteva con gli occhi sbarrati alla più rapida vestizione in cui suo marito avesse mai osato esibirsi.

“Cara, il colonnello mi ha ordinato di andare immediatamente a casa sua. Novità urgentissime. Tornerò al più presto. Dormi bene.”

Mentre pronunciava concitatamente queste frasi in perfetto stile telegrafico, Pitt era già arrivato alla porta di casa. La moglie aveva cominciato a formulare la logica obiezione:

“È proprio necessario uscire con questo tempo?”, ma non aveva avuto il tempo di completarla: Pitt correva come una lepre sotto il temporale, alla disperata ricerca di una coraggiosa auto pubblica. Non si sa come fosse riuscito ad arrivare a destinazione, ma mezz’ora più tardi, inzuppato fino al midollo, batteva alla porta del suo capo. Gli fu aperto ed entrò. Trascorse un’altra mezz’ora e una macchina di servizio del settore di Divisione di zona si fermò a sua volta davanti all’abitazione di Woodside. Il guidatore pigiò sul clacson una volta sola, la porta di casa si spalancò e Pitt si catapultò all’esterno, infilandosi in tutta fretta nella vettura. Stringeva al petto, con entrambe le mani, una rigonfia borsa scura. Una rapida corsa nella notte sferzata dalla pioggia, che aveva comunque perso molto del proprio impeto, e Pitt si ritrovò nuovamente a casa. Quando entrò, colse un riflesso di luce sul muro che fronteggiava la sua camera da letto, al primo piano. Mezzo minuto dopo, Violet stava discendendo la lucida scala in noce, allacciandosi una vaporosa vestaglia:

“Ssssst!” – intimò al marito, appoggiandogli l’indice sulla punta del naso e prevenendo ogni sua protesta – “Quella borsa mi dice che stanotte verrai a letto piuttosto tardi, dopo aver visionato gli incartamenti che ti sei portato dietro. Corri a liberarti della roba bagnata che indossi, prima di buscarti un malanno, asciugati e poi ritorna qui nello studio.  Troverai l’atmosfera adatta per lavorare nelle migliori condizioni, te lo assicuro.”

Pitt era troppo contento per voler discutere. Salì nello spogliatoio, si asciugò, indossò un caldo pigiama e completò l’abbigliamento con una pesante vestaglia e si ripresentò nello studio. Un allegro focherello scoppiettava nel camino e sopra un tavolino, spostato accanto alla sua poltrona preferita, faceva un’ottima figura un grande vassoio coperto da una fumante teiera. Accanto al panciuto recipiente, preventivamente scaldato prima di versarvi l’infuso in foglie,  era stato disposto tutto l’occorrente per gustare un buon  tè: un bricchetto contenente latte, una zuccheriera, un capace piatto pieno di gustosi e morbidi tramezzini, una dolciera sommersa da una notevole quantità di stuzzicanti pasticcini. La preziosa borsa era stata appoggiata ad un busto di Beethoven, su uno scaffale della fornita biblioteca. Il sovrintendente,  sbalordito di fronte a quello spettacolo,   provò un irresistibile slancio di tenerezza verso una moglie così premurosa e comprensiva. Per un momento fu tentato di correre di sopra e ringraziarla come meritava, poi pensò che correva il rischio di disturbarla, nel caso si fosse riaddormentata. Non gli restava, quindi, che reprimere l’impulso e rimandare all’indomani ogni espressione di gratitudine (approfittando dell’occasione, avrebbe anche chiesto a Violet come fosse riuscita a trovare pasticceria assortita a quell’ora di notte!).

“Grazie, Violet” – si disse mentalmente – “sei grande e ti amo tantissimo. Ma adesso dedichiamoci al bottino che il colonnello è riuscito a strappare a quelli del Dipartimento di Sicurezza.”

Il tè aveva raggiunto il giusto punto di bollitura. Se ne versò una grande tazza, infilò in bocca un tramezzino intero, afferrò la borsa, la aprì e ne estrasse quattro dossier. Una rapida consultazione delle date gli permise di stabilire che quei plichi contenevano la storia degli ultimi quattro casi ai quali aveva lavorato Ryerson prima di essere ucciso. In cima agli altri stava un incartamento che, sotto la dicitura SEGRETISSIMO  impressa con timbro ad inchiostro rosso, portava l’intestazione “Chi è Nessuno?”. Pitt capì di avere in mano la pratica che maggiormente gli stava a cuore. Aprì il fascicolo ed entrò nella dimensione del dramma umano che il generale aveva descritto con toni gravi e una grafia larga e leggermente inclinata sulla sinistra. Fuori, la veemenza degli elementi si era placata; dentro, un silenzio profondo vegliava sul tranquillo sonno degli abitanti della casa.

Mentre leggeva, il sovrintendente avvertiva un senso di angoscia, e al contempo di sbigottimento, al pensiero che una persona decisa a tutto e senza scrupoli avesse per tanto tempo violato il diritto dell’Inghilterra a difendere i suoi segreti più delicati. Passarono almeno tre ore. Sulla scrivania di Pitt aveva lentamente acquistato consistenza una pila di fogli fitti di appunti, mentre l’incartamento si avviava a toccare l’ultima pagina. Il livello del tè nella teiera era ormai al minimo e i tramezzini superstiti nel vassoio ridotti a pochissime unità. A metà nottata, Pitt aveva letto tutti e quattro i dossier, anche se a lui interessava particolarmente quello che parlava della spia e della sua identificazione. Il poliziotto si allungò all’indietro, cercando il confortevole appoggio dello schienale della poltrona e si strofinò gli occhi rossi di stanchezza e di sonno. Una luce di gratificazione brillava nel suo sguardo. Conosceva il nome dell’assassino e sapeva come si erano svolti i fatti, verificatisi esattamente come aveva ipotizzato la sua ricostruzione. Adesso non restava che gettare le reti e tirare a riva il colpevole, il signor Nessuno, spia ed omicida.

“È tempo di andare a letto, fra poche ore dovrò essere di nuovo in piedi ed organizzare l’ultimo atto di questa tragedia, senza commettere errori. Guai se qualcosa dovesse andare storto e il responsabile di tutto questo sconquasso mi sgusciasse tra le dita! Non mi resterebbe altro che cercare lavoro come scaricatore su qualche molo del Tamigi.” – chiosò Pitt con un pizzico di comprensibile esagerazione.

L’investigatore infilò nuovamente tutta la documentazione nella borsa e andò a chiudere quest’ultima in una piccola ma robusta cassaforte nascosta dietro un variopinto arazzo. Per il resto, lasciò tutto com’era: l’indomani una cameriera avrebbe rimesso la stanza in perfetto ordine. Spense la luce e salì pesantemente le scale, diretto verso l’agognato letto. Quattro ore più tardi stava sorseggiando un caffè nell’ufficio messo a sua disposizione presso la stazione di polizia del distretto. I suoi fedeli collaboratori, Talbot e Tellman, erano seduti di fronte a lui e, da qualche veloce accenno preliminare, sapevano già che il caso si trovava in dirittura d’avvio. Sembravano tranquilli e controllati, ma Pitt intuiva che sotto la superficie vibrava una evidente tensione: entrambi attendevano con malcelata ansia che il sovrintendente li mettesse a giorno delle sue scoperte.

“Signori, sono davvero lieto di potervi dire che il nostro impegno sta per essere premiato dalla soddisfazione di poter mettere le mani sulla persona che ultimamente  ha messo a dura prova tutte le nostre capacità professionali. Ieri sera il colonnello Woodside mi ha convocato urgentemente a casa sua e mi ha consegnato i fascicoli in cui Ryerson aveva raccolto appunti, considerazioni, ipotesi e conclusioni relativi agli ultimi tre o quattro casi di cui si era occupato prima della morte. L’ultima investigazione, in ordine di tempo, riguardava proprio la scoperta di un traditore che passava informazioni riservatissime ai tedeschi, sfruttando la sua posizione all’interno della Sezione di Controspionaggio. Io ho letto attentamente l’incartamento e posso assicurarvi che il generale ha fatto un lavoro egregio, raccontando con chiarezza la complicata storia di un rapporto torbido conclusosi in modo tragico. L’esposizione dei fatti arriva fino alla sera precedente la sua uccisione, quando Ryerson ha con la spia un ultimo incontro, ma dovrei dire più esattamente scontro, e le preannuncia che l’indomani  gli uomini dl Dipartimento di Sicurezza saranno informati delle sue abiette macchinazioni ai danni del Regno Unito. Poi, con meticolosità venata di  sfuggente  sadismo, il generale elenca al rinnegato tutte le fasi che seguiranno: l’arresto, il processo, la condanna a morte, l’impiccagione. Voi sapete che le previsioni di Ryerson non si sono concretizzate nel senso da lui previsto, poiché nelle prime ore della mattina successiva egli è stato ucciso a casa sua, in circostanze a dir poco singolari. C’è, però, un aspetto del comportamento di Ryerson che mi ha lasciato perplesso stanotte, mentre leggevo il dossier, e continua tuttora a comunicarmi una irritante sensazione di ambiguità.”    Pitt guardò attentamente i suoi due aiutanti, sperando di cogliere nelle loro fisionomie una scintilla di comprensione, ma si scontrò con espressioni chiuse e disorientate. Sospirò leggermente e riprese a parlare:

“Pensateci un attimo: non vi sembra strano che Ryerson abbia anticipato alla spia le sue intenzioni, precisando, tuttavia, che avrebbe aspettato il giorno successivo per denunciarla ai Servizi di sicurezza nazionale? Perché non ha avvertito la sera stessa Scotland Yard di aver smascherato un pericoloso individuo da neutralizzare immediatamente? A me sembra che esista una sola spiegazione, per quanto incredibile possa apparire:

Ryerson voleva concedere a quella persona un’ultima opportunità di salvezza e le aveva accordato una notte di tempo per permetterle di fuggire!

Mi rendo conto che la mia deduzione può sembrare stiracchiata e non suffragata da basi attendibili…ma non mi viene in mente nessun’altra spiegazione. E se ho ragione, si presenta subito un’altra considerazione:

di che genere erano i rapporti tra Ryerson e la spia?

Basta, vi ho tenuti troppo con la corda ed è giunto il momento di passare alle cose pratiche, tanto più che io conosco il nome del colpevole perché il generale l’ha citato nella frase conclusiva del suo lavoro: la spia, che firma i dispacci segreti inviati a Berlino con il nome di Nessuno, si chiama in effetti…”

Qui Pitt si fermò, fece un sorrisetto divertito e si rivolse ai due subordinati che adesso inalberavano entrambi un’aria decisamente intontita:

“Talbot, Tellman, da questo momento dovete dedicarvi ad un compito esclusivo: pedinare la persona indicata su questo foglietto, sul quale troverete anche il suo indirizzo di casa. Non mi interessa come vi dividerete compiti ed orari, è cosa che lascio a voi. A me interessa soltanto che il soggetto non si accorga, ovviamente, di essere controllato e che, soprattutto, non vi sfugga di mano. Voglio conoscere ogni suo movimento, voglio sapere dove va, con chi parla, chi avvicina, che cosa compra e così via. Ma la cosa più importante di tutte è che lo manteniate sempre a vostra disposizione: dovrete prelevarlo e portarlo da me in qualsiasi momento io ve lo chieda. Non intendo fare il melodrammatico, ma vi assicuro che se ci sfugge possiamo tutti andare tranquillamente ad iscriverci nelle liste della disoccupazione, perché con la polizia abbiamo chiuso. Talbot, lei scelga fra i suoi uomini più bravi e fidati quattro elementi che cooperino all’operazione, con compiti di copertura e pronto intervento: due affiancheranno lei e due saranno a disposizione di Tellman. Voi li dislocherete in posizioni adatte, secondo esigenze contingenti, e farete in modo di essere costantemente in contatto con loro, talché essi siano in grado di portarvi aiuto in qualsiasi momento. Vi prego di riferirmi ogni particolare che presenti la pur minima stranezza e di avvertirmi immediatamente se la persona in questione manifesti l’intenzione, anche larvata, di abbandonare Londra. Ed ora, eccovi le indicazioni che sicuramente state aspettando.”

Così dicendo, Pitt tese ai suoi assistenti  i due biglietti che contenevano il nome della spia e l’indirizzo di casa, divertendosi ad ammirare la loro mimica che esprimeva stupore infinito.

“Via, amici miei” – disse il sovrintendente con cameratesca cordialità – “davvero non avevate capito? Eppure, mi avete seguito passo passo nelle indagini e negli interrogatori! Voi stessi avete scoperto alcuni elementi che risulteranno molto utili nel raggiungimento della verità, altri ve li ho comunicati io. Pensate alla testimonianza del pescatore della chiatta, ad un paio di suole macchiate di fango, al ritrovamento del medaglione, alla magica sparizione di un gruppo di giornalisti, a quella criptica frase pronunciata da Ryerson in punto di morte, al suo paradossale atteggiamento nei confronti della spia…tutte queste circostanze, se esaminate sotto la giusta luce,  avrebbero dovuto condurvi alla soluzione del mistero. Devo ammettere che io ho colmato alcune lacune grazie ai dati forniti da Ryerson con i suoi appunti; questo non esclude, però, che ben presto anche noi da soli, senza aiuti esterni, avremmo definito con chiarezza e precisione i vari aspetti del problema, giovandoci degli indizi che siamo riusciti a raccogliere nel corso delle nostre indagini. Bene, adesso andate. Io lascerò sempre detto dove potrete trovarmi in caso di bisogno, così da potermi raggiungere sollecitamente, ma sono sicuro che la vostra esperienza e il vostro spirito di iniziativa vi verranno in aiuto nelle difficoltà. Forza, ho già parlato abbastanza e le chiacchiere non arrestano i delinquenti. Andate e buon lavoro. Ah, tenetelo sempre presente: se falliamo in questo incarico possiamo andare tutti e tre a comperarci una resistente tuta da facchini.”

Talbot e Tellman uscirono sorridendo. Avevano la massima stima nelle capacità del loro capo e sapevano che con un Pitt alla testa della squadra il successo era assicurato. Se avessero potuto leggere nella mente del capo, il loro ottimismo avrebbe subito un notevole ridimensionamento. Pitt era rimasto seduto nel loro ufficio alla stazione di polizia della zona e stava ripassando ancora una volta la mole delle informazioni fino a quel momento accumulate, inquadrandole nello schema generale che egli aveva disegnato. Alla fine dell’analisi, un fugace sorriso addolcì per un attimo l’espressione crucciata del suo volto: tutti gli elementi si incastravano perfettamente nel meccanismo, senza che restassero sul tavolo di montaggio pezzi superflui, come a volte succede quando si smonta un congegno e, al momento di assemblarlo, ci si accorge che alcuni componenti sembrano un di più.

L’investigatore ripensò alle ragioni che l’avevano convinto a guardare in una direzione diversa da quella verso la quale tendevano ad indirizzarlo le apparenze. Un giorno gli era balenata nella mente un’idea che poteva sembrare pazzesca e aveva deciso di esaminare il caso da un’angolazione completamente diversa. Si era attardato a valutarla per un tempo che si sarebbe potuto ritenere esageratamente lungo, ma lo spingeva a non abbandonare quella intrigante traccia una domanda che si riproponeva insinuante, ossessiva: possibile che una risposta perfettamente razionale al mistero potesse venire da un’ipotesi che la logica spingeva a definire completamente irrazionale? Si imponeva, a quel punto, la necessità di spostare tutta l’attenzione sulla vittima. Pitt si era chiesto: chi era veramente Ryerson? Quali interessi aveva? La sua morte era per caso collegata all’attività che svolgeva? Il sovrintendente aveva steso un elenco di domande che tracciavano una pista investigativa promettente e poco per volta era riuscito a diradare la cortina di fumo che nascondeva il punto cruciale della questione. Ryerson era stato ucciso per qualche motivo connesso al suo lavoro. Su questo Pitt avrebbe scommesso fino all’ultimo penny. Maturata questa considerazione, il funzionario era passato al logico passo successivo: chiedere a Woodside di sollecitare la consegna, da parte del Dipartimento alla Difesa, dei fascicoli riservati concernenti i casi di cui il generale si era ultimamente occupato, perché Pitt potesse consultarli a sua volta. Gli incartamenti erano arrivati e adesso la caccia dei tre implacabili detectives mirava alla neutralizzazione del responsabile dei gravissimi reati di spionaggio a favore del nemico in tempo di guerra ed omicidio per motivi abietti. Quanto bastava perché il colpevole si trovasse,  all’alba del suo ultimo giorno di vita, con i piedi poggiati su una botola mentre un compunto funzionario della Corona gli stringeva intorno al collo un cappio di canapa.

All’improvviso Pitt si accorse che nell’ultimo quarto d’ora aveva già lanciato tre o quattro occhiate furtive al telefono. La constatazione lo allarmò non poco: la caccia era appena partita e già egli si agitava in attesa di risultati.

“No, amico mio” - rimproverò se stesso riflesso nel lucente portacenere di vetro che qualcuno aveva posato sul tavolo – “Così non va affatto! Lascia lavorare tranquillamente i tuoi collaboratori e tu dedicati ad altre questioni altrettanto importanti che aspettano il tuo intervento. Ricordi quante pratiche inevase giacciono sulla tua scrivania, giù al Reparto? Bene, fai un salto lì, se non altro ti servirà per sgranchirti le gambe.”

Quando la voce della ragionevolezza parlava in quel modo, Pitt capiva che era arrivato il momento di starla a sentire. Lasciò l’ufficio e prima di uscire dalla stazione di polizia si fermò al posto di guardia e comunicò il suo prossimo recapito ad uno scozzese massiccio, rosso di capelli, che lo annotò diligentemente in un registro e salutò il sovrintendente con postura e formula da manuale. L’aria era fresca e il sole stentava a farsi largo nella nuvolaglia vagabonda che ogni tanto lo ricopriva. La gente che circolava per strada, espressioni tese e sguardi preoccupati, sembrava uno stanco manipolo di formichine che si davano alacremente da fare senza mai concedersi una pausa. Predominavano, nella massa,  le divise militari. Molte donne erano vestite da crocerossine oppure indossavano l’uniforme di membri della Sussistenza o della Motorizzazione. Pitt si fermò ad osservare tre virago che sgomberavano con straordinario vigore un marciapiede, sul quale erano piombati i detriti di un cornicione dal tetto del palazzo sovrastante. Le pale affondavano con forza nel mucchio di calcinacci, che diminuiva di volume tanto rapidamente da sembrare che fosse attaccato da un caterpillar.

“Cribbio, con dieci squadre del genere, Londra sarebbe ripulita dalle macerie in mezza giornata!” non poté fare a meno di pensare il funzionario, ammirato.   Passò un’autovettura pubblica con la bandierina alzata, segno di disponibilità, ma il sovrintendente non la fermò. Desiderava camminare un po’, perciò si avviò a passo sostenuto verso il Reparto Speciale. Scartò l’idea di chiudersi nel suo ufficio e raggiunse quello del suo capo, al secondo piano dell’edificio,  per scambiare qualche impressione sul “caso-Ryerson”. Niente da fare, non era evidentemente la sua giornata fortunata: Woodside era uscito. E adesso? Gli scoppiò, d’improvviso, un bizzarro desiderio: entrare in un ristorante e concedersi un lungo pranzo in tutta comodità. Ricordò che una volta aveva mangiato in un locale che gli aveva lasciato un’ottima impressione, un locale fine e discreto in cui servivano piatti francesi cucinati alla perfezione. Decise di andarci. Ma era ancora aperto? C’erano anche da mettere in preventivo le restrizioni imposte dalla guerra, Pitt ne era perfettamente conscio, ma il timore di subire una delusione non lo fermò. Discese al primo piano, entrò nel suo ufficio e avvertì Sylvia, la pepata brunetta che fungeva da segretaria, che più tardi le avrebbe comunicato il numero al quale passare tutte le telefonate in cui si chiedeva di lui. Tranquillo da questo lato, fermò uno dei pochi taxi che ancora circolavano e si fece portare al ristorante. Appena varcata la soglia del locale, fu investito da una folata di profumi assortiti che gli fecero cantare l’anima. E quando sentì accarezzare il suo palato dal paradisiaco sapore dell’anatra ripiena, si disse che in alcune circostanze la vita meritava davvero di essere vissuta.

Trascorsero tre giorni di calma soporifera, privi di novità, e perciò sempre più vicini a procurare un esaurimento nervoso a Pitt e alla sua famiglia, costretta a sopportare i suoi micidiali sbalzi di umore…poi a metà di un pomeriggio plumbeo una telefonata fece rientrare Pitt nelle grazie di Dio. Il sovrintendente stava lavorando ad una pratica nel suo ufficio dl Reparto Speciale, allorché trillò il telefono. Era Tellman:

“Sovrintendente, credo che ci siamo. Dovrebbe raggiungerci alla Tower Station, siamo tutti qui.”

“Arrivo.” Pitt non sprecò tempo e parole. Riattaccò, si precipitò dabbasso in cerca di una macchina di servizio, dette un urlaccio al povero autista perché battesse tutti i record di velocità e partì verso uno degli appuntamenti più importanti della sua carriera. Scese ad una ventina di metri dall’ingresso nella stazione e si vide venire incontro il sergente, visibilmente agitato:

“Signore, è nella sala d’attesa. Ha comprato un biglietto per Liverpool e intende partire col treno delle 17.35. Talbot e i quattro agenti sono di guardia. Entriamo in azione?”

“Sì, Tellman, è giunto il momento di far calare la tela su questa sporca rappresentazione. Andiamo.”

Il viso di Pitt era una maschera di fredda determinazione che impressionò persino Talbot, quando il sovrintendente entrò nel buio corridoio  e guardò all’interno della sala d’attesa.                 

Il grande locale era pressoché deserto, ad eccezione di una coppia di anziani e di una snella persona seduta nel punto più lontano dalla porta, coperta da un lungo impermeabile chiaro. Un cappello color crema le ombreggiava il viso. Pitt aprì la porta dello stanzone ed entrò. Subito dietro di lui entrarono Talbot, Tellman e i quattro poliziotti, che avanzavano fianco a fianco, formando una barriera verso la fuga e la libertà. L’individuo sembrava estraniarsi a quello che stava accadendo, ma alzò lentamente la testa quando il gruppetto di rappresentanti della legge si fermò davanti a lui. Il viso venne chiaramente alla luce e allora il sovrintendente pronunciò la frase di rito, scandendo le parole con calma mortale:

“Charlotte Miller, la dichiaro in arresto per omicidio e spionaggio ai danni della Corona”

Poi tacque, aspettando la reazione della donna, ma vide solo il volto di Lottie avvizzire, vide i suoi occhi diventare vitrei, finché la sua espressione fu morta…morta e immobile come una statua. La Miller non disse una parola. Si alzò con irridente indifferenza, passò davanti a Pitt sfiorandolo e costringendolo a spostarsi, poi tese i polsi ai due poliziotti che le si erano immediatamente parati davanti. Quando il triste corteo uscì dalla sala e scomparve nell’oscurità del corridoio, la coppia presente si guardò in faccia e la donna chiese al suo compagno:

“John, ma quelli chi erano?”

“Margareth, si è svolto tutto così in fretta che non ho capito molto. Forse hanno beccato qualcuno senza biglietto…”    (Continua…)

 

Condividi post
Repost0
6 ottobre 2012 6 06 /10 /ottobre /2012 15:50

L’indomani, Pitt uscì di casa piuttosto presto e per prima cosa comprò un giornale. Come si aspettava, la notizia dell’assassinio di Ryerson compariva a grandi caratteri in prima pagina: Tragedia a Lodge Manor. Misteriosa uccisione di un illustre personaggio.   L’articolo era un capolavoro di evasività giornalistica. Era scritto in maniera scorrevole e convincente, ma chiaramente redatto da una persona che dell’argomento era completamente a digiuno: «Pare che», «fonti solitamente attendibili riferiscono che», «ci sono ragioni per ritenere»… tutto il repertorio giornalistico di frasi che sembravano dire tanto senza dire assolutamente nulla.  Il sovrintendente lesse il reportage da cima a fondo, poi raggiunse la proprietà di Ryerson e cercò Montrose, per sottoporlo ad un interrogatorio che non produsse alcun effetto determinante per le indagini. Il dottore, un uomo di corporatura imponente, sulla sessantina, che si muoveva con eleganza, dichiarò che anche la mattina dell’omicidio si era alzato alle otto precise, come faceva sempre, quindi aveva saputo dell’accaduto circa mezz’ora dopo, quando era sceso a fare colazione. Sì, conosceva Ryerson da qualche anno ed era venuto a Lodge Manor per trascorrervi qualche giorno di vacanza. Pitt fu improvvisamente assalito da un impulso malandrino. Guardò fisso Montrose negli occhi e domandò con ben simulato candore:

“Dottore, lei è un bravo docente e un valente cardiochirurgo, ospite della casa e in grado di intervenire immediatamente in caso di bisogno. E allora mi chiedo: perché né Nash, né Larraby hanno pensato di chiamarla, una volta appurato che Ryerson stava così male?”

Montrose arrossì violentemente e fece il gesto di andarsene, ma riuscì a controllarsi e rispose:

“Sovrintendente, questo deve chiederlo a loro. E adesso, se non c’è altro…”

“No, no, vada pure dottore, e grazie per la sua cortesia.”

Il dottore girò le spalle, senza neppure un cenno di saluto, e si allontanò. Pitt lo seguì per un po’ con lo sguardo e intanto si diceva:

“Vedo che ho toccato un nervo scoperto. Secondo me, quei due non l’hanno chiamato per non attirare la mia attenzione sul loro gruppo. Dopo quello che mi ha raccontato Anders, del resto, non mi meraviglio della loro condotta. Quanti misteri, accidenti! Bah, andiamo a vedere se troviamo la figlia di Ryerson.”

La trovò finalmente nella serra, dopo averla cercata a lungo. Picchiettò  leggermente sulla porta a vetri del locale ed entrò, avanzando tra gli stretti banchi sommersi da splendidi fiori e chiamando la signora. Dopo qualche istante, una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto e si trovò davanti una bella donna dai capelli biondo platino, un trucco ben fatto, occhi color fiordaliso dallo sguardo profondo. Gli abiti eleganti che indossava dicevano che amava spendere, ma sapeva farlo con raffinatezza.

“Signora Jenkins, mi scuso per l’intrusione. Sono il sovrintendente Pitt, della polizia, e le porgo le mie condoglianze. Desidererei, inoltre, farle qualche domanda, se lei è d’accordo.”

“Grazie, sovrintendente, ma usciamo di qui. Lo spettacolo è incomparabile, ma l’aria è talmente carica di profumi che risulta praticamente irrespirabile.” Così dicendo, si avviò verso l’uscita, seguita da Pitt, e raggiunse il gazebo dove la mattina del giorno prima si era  seduto Larraby. Si accomodarono, quindi lei chiese con grazia:

“Posso ordinarle un tè, signor Pitt? Ne berrò volentieri uno anch’io.”

Il sovrintendente accettò con gratitudine e la donna chiamò con un cenno una camerierina che stazionava sulla porta, in evidente attesa di un’eventuale convocazione della padrona. Per un po’ attesero in silenzio che la domestica ritornasse con la bevanda e, quando ciò accadde, Pitt attese che la signora ne trangugiasse un sorso prima di avviare la serie di domande di prammatica in quei casi:

“Signora, sono dolente di riaprire recentissime ferite, ma lei capisce che ho un dovere da compiere. Può dirmi se suo padre avesse dei nemici, a quanto le consta?”

“Sovrintendente, è da ieri mattina che mi scervello nel tentativo di trovare una spiegazione del fatto. Voglio essere del tutto sincera, con lei: mio padre era un uomo in possesso di tante virtù, ma nello stesso tempo il suo carattere poteva ogni tanto apparire assai sgradevole. Non conosceva l’arte della diplomazia, dell’abilità nel trattare con finezza questioni delicate, e non di rado l’ho sentito pronunciare giudici duri e sferzanti diretti all’interessato che si trovava alla sua presenza. Lei capirà che un uomo del genere correva continuamente il rischio di crearsi dei nemici, anche irriducibili”

“E, mi perdoni, può darsi che qualcuno di questi nemici si trovasse qui dentro, sotto il vostro tetto?” Pitt tentò un colpo alla cieca e grande fu la sua meraviglia nel vedere che la donna sbiancasse, lasciandosi andare pesantemente contro lo schienale della poltroncina. Nei suoi occhi c’era smarrimento ed una pena così profonda che mosse Pitt a compassione.

“Tu hai paura per tuo marito, ragazza mia” si disse cinicamente l’investigatore e decise di scavare ancora un po’ nell’argomento:

“Signora, la prego di rispondermi con sincerità: crede che qualcuna delle persone presenti in questa casa sia implicata nella morte di suo padre? Testimoni hanno riferito che qualche sera fa tra suo padre e suo marito ci sia stato un violento diverbio.” Per un attimo, il sovrintendente temette di essersi spinto troppo oltre, ma la donna rispose tranquillamente:

“No, signor Pitt, non oso pensare ad una mostruosità del genere. I nostri ospiti sono tutti personaggi al di sopra di ogni sospetto ed io ho in loro la massima fiducia. Del resto, voglio con tutte le mie forze che lei trovi il colpevole dell’omicidio di mio padre e non offrirei una via di scampo a nessuno, neanche alla persona a me più cara. E ciò vuol dire che il famoso diverbio di cui lei parla non è assolutamente avvenuto nei termini ostili e minacciosi che possono averle riferito. Si è trattato più semplicemente di un vivace scambio di opinioni che in qualche passaggio ha toccato toni un po’ alterati. E adesso…”  Quella frase lasciata a metà fece comprendere a Pitt che la conversazione , per quanto la riguardava, poteva anche terminare lì. Il sovrintendente ritenne più conveniente non insistere. Si alzò, ringraziò la signora Jenkins per avergli dedicato un po’ del suo tempo e si congedò. Mentre si allontanava, pensava che la donna possedesse un’amabilità ed una gentilezza di modi che conquistava…ma che non era stata del tutto sincera con lui. Che temesse per suo marito? A proposito del marito, chissà che cosa era riuscito a combinare Tellman. Bene, era il momento di ritornare presso la sede della polizia e sperare che il sergente fosse già arrivato. Sbucando nella piazza in cui sorgeva il palazzo che ospitava la sede della polizia di zona, Pitt da lontano notò una figura bizzarra appoggiata ad un angolo dell’edificio, trovandovi qualcosa di familiare. Più si avvicinava, più quel tipo estremamente male in arnese gli ricordava qualcuno. L’uomo indossava una vecchia giacchetta strappata in più punti e piena di rammendi. Eseguiti male ed in fretta, per di più. Un fazzolettone unto e bisunto legato al collo sopra una maglia di lana ruvida e butterata di macchie di sudore, un paio di pantaloni pieni di toppe che pendevano sformati su un paio di scarpe scalcagnate e un cappellaccio calato fino agli occhi completavano il suo abbigliamento. Pitt si arrestò e scrutò con la massima attenzione il losco figuro, notando che teneva ostinatamente il viso rivolto verso terra. Ma certo, quello era…Una sonora risata echeggiò nella strada ed allora accadde qualcosa di veramente curioso: lo straccione sollevò la testa e cominciò a ridere anch’egli, unendosi a Pitt che non riusciva a smettere. Quando l’accesso di risa fu finalmente domato, il funzionario chiese:

“Tellman, ma è proprio lei?”

“Sì, sovrintendente, sono venuto direttamente qui, dopo essere stato in Sunford Road, senza passare da casa a cambiarmi. Vi andrò dopo aver fatto rapporto nel suo ufficio, se il piantone alla porta mi lascia entrare.” rispose il sergente con un risolino.

“Come sarebbe?” domandò Pitt, incuriosito.

“È presto detto: quando sono arrivato, un quarto d’ora fa, ho tentato di raggiungere la sala delle riunioni, ma il poliziotto di guardia all’entrata a momenti mi arrestava. Ho detto chi sono, però non ho nessun documento con me che confermi le mie parole. Sa, dovendo aggirarmi in un posto così pericoloso come Sunford Road ho preferito lasciare a casa la mia tessera di identificazione. Adesso dovrà garantire lei per me…”

“Venga, sergente, entriamo. Sono curioso di sentire come è andata la sua incursione nel mondo della perdizione.”

Arrivarono davanti ad un impettito militare di guardia che guardò storto Tellman e aprì la bocca per scacciarlo ancora, senza degnare di uno sguardo Pitt. Questi, allora, gli si accostò fin quasi a sfiorarlo e gli sussurrò:

“Ci vada piano con quest’uomo, agente, è uno dei nostri più bravi informatori.”

“Lei chi è?” l’attenzione sospettosa del poliziotto stavolta si rivolse verso Pitt, il quale tirò fuori il suo documento personale e lo piazzò sotto gli occhi dell’altro. Fu un momento: il piantone scattò sull’attenti, rosso come un peperone, e si affrettò ad aprire la porta d’ingresso al sovrintendente che entrò con sussiego, avendo a rimorchio un sornione Tellman. Giunti nell’ufficio loro assegnato, Pitt chiese telefonicamente a Talbot di raggiungerli e cinque minuti più tardi i due funzionari ascoltavano attentamente il racconto del sergente:

“Alle sette circa di stamattina ero già di guardia nell’androne puzzolente di un palazzo mezzo diroccato, all’inizio di Sunford Road. Sapevo che quella era l’unica entrata nella strada perché dall’altra parte c’erano lavori in corso e gli operai avevano chiuso completamente quell’accesso alle case. Signori, vi giuro che mi veniva da piangere, guardando in quali miserande condizioni si fossero ridotti a vivere degli esseri umani. Un tanfo che bloccava il respiro  si levava dalle tante persone sedute sul lastricato oppure rannicchiate nel vano dei portoni, dal rigagnolo che correva a filo dello sconnesso marciapiede e raccoglieva immondizie di ogni genere, dalla sporcizia che gravava su tutto perché l’acqua pulita era poca, anche quella per bere, e non c’erano né un pò di calduccio per ristorarsi, né qualcosa da buttare giù per placare la fame…Ma che cosa aspettano i responsabili di quello sfacelo ad intervenire? Siamo a Londra, non in un villaggio sperduto nella savana africana! Basta, vi prego di scusare lo sfogo. Ad un tratto vedo arrivare Jenkins. Non aveva l’impermeabile, né il cappello, era vestito molto dimessamente e camminava veloce, senza guardarsi intorno. Comincio a seguirlo e circa a metà strada lo vedo infilarsi in un cortile, suonare ad una porta a vetri ed entrare. Non indugio neanche un attimo e lo seguo. Mi trovo in uno stanzone deserto, scarsamente arredato ma stranamente pulito. Dalla porta in fondo, socchiusa, sento provenire un mormorio di voci. Mi accosto cercando di non far rumore e attraverso la fessura vedo Jenkins che sta parlando con qualcuno di fronte a lui, mentre un’altra persona, che mi dà le spalle, è seduta al suo fianco. Deciso a scoprire le ragioni dello strano comportamento dell’agente di commercio, spalanco la porta ed entro in un piccolo ufficio, ammobiliato con sobrietà spartana. Appena mi vede, Jenkins mi riconosce e balza in piedi:

“Sergente, che cosa ci fa lei qui?”

“Signor Jenkins, stavo per farle la stessa domanda: che cosa ci fa lei qui?”

“Sergente, lei mi ha seguito e questo non lo tollero. Protesterò con forza presso i suoi superiori. Sono un cittadino rispettoso della legge e non mi va di essere pedinato o controllato in qualsiasi modo.”

“Signor Jenkins, lei è libero di protestare quanto vuole. Sappia, però, che non la stavo seguendo. Mi trovavo da queste parti sulle tracce di un rapinatore, ho visto lei infilarsi con aria furtiva in questa casa e mi sono incuriosito. Caso mai, dovrebbe essere il padrone di casa a lagnasi per la mia intrusione.”

Così dicendo, ho guardato il religioso che non aveva ancora aperto bocca, poi la mia attenzione si è concentrata sul terzo occupante del locale. Era un uomo che trasmetteva immediatamente un’impressione sgradevole e negativa.  Aveva i capelli di un biondo scialbo, il corpo magro, le mani nodose, i polsi grossi e il pomo d’Adamo enorme nel collo scarno. Gli occhi erano sfuggenti, guardinghi, sleali. Ed è stato lui a rompere per primo il silenzio che si era improvvisamente creato. Con voce esitante, quasi farfugliante, si è rivolto a Jenkins e ha chiesto:

“Nicholas, chi è questo signore? Ho paura…!”

“Stai tranquillo, Jerome, nessuno ti farà del male” ha risposto con sollecitudine l’altro. Si è poi rivolto a me e mi ha chiesto, con tono conciliante:

“Sergente, mi dice finalmente cosa vuole da me?”

“Sì, sergente, vuole dirci che cosa si aspetta di sapere dal signor Jenkins di così tanto importante da entrare senza permesso in  un’abitazione privata? Io sono padre Hastings, il padrone di casa.”

E a parlare, questa volta, era stato il religioso.

“Io sono il sergente Tellman, del Reparto speciale della polizia, padre e mi scuso per la mia comparsa poco…ortodossa, diciamo così. Mi interesso ai movimenti del signor Jenkins per motivi che il mio superiore, il sovrintendente Pitt, provvederà sicuramente a spiegargli. Io vorrei solo sapere che cosa ci fa in questa zona, camuffato, un brillante agente di cambio. E, giacché ci siamo, vorrei anche sapere che fine hanno fatto il soprabito chiaro e il cappello che egli indossa ogni settimana, da qualche tempo a questa parte.”

Jenkins, con un’aria strafottente, mi ha fatto notare che nessuna legge lo obbligava a rispondermi, ma che aveva deciso di soddisfare tutte le mie curiosità perché non aveva fatto nulla di cui temere:

“Sergente, il signore qui presente è Jerome Hopkins, mio fratello. Portiamo cognomi diversi perché nostra madre ha avuto due mariti. Jerome è stato rimpatriato un anno fa dal Nord Africa con una grave ferita alla testa. È stato a lungo in ospedale ed è guarito abbastanza da poter affrontare leggeri lavoretti presso l’Istituto, di cui è direttore il qui presente padre Hastings,  in cui sono ricoverati ex militari bisognosi di cure e di aiuto. Ogni mercoledì, vengo a parlare di Jerome con il nostro insostituibile padre, e ho sempre ritenuto più prudente indossare indumenti che evitassero di attirare l’attenzione in questa strada. Tra parentesi, uso l’impermeabile per coprire questi stracci e me lo tolgo prima di arrivare in questi paraggi. Del resto, mi accorgo che anche lei non si fida molto di presentarsi in questi paraggi col suo bel vestito grigio completo di panciotto…” - ha concluso il giovanotto con un sorrisino irritante - “Signore, io credo che Jenkins mi abbia detto la verità. Potremo continuare a controllarlo, certo, ma la storia che mi ha raccontato è troppo inconsueta per essere inventata.”

Pitt, che aveva ascoltato la relazione del sergente con gli occhi chiusi e la testa appoggiata al bordo della sedia, non rispose e ci pensò Talbot a dare voce al pensiero comune:

“Un’altra traccia che scoppia come un palloncino. E adesso come procediamo, sovrintendente?”

Pitt si riscosse, aprì gli occhi e li passò lentamente sulla parere di fronte, imbiancata a calce e coperta di avvisi e ordinanze. Quindi si rivolse all’ispettore:

“Talbot, ha scoperto se a qualcuno del personale di servizio è capitato di notare fatti strani nei giorni immediatamente precedenti la morte di Ryerson?”-  al cenno negativo del suo subordinato, Pitt commentò:

“Va bene. Per la verità, neanche ci speravo. Talbot, ho un altro incarico per lei: prenda il medaglione trovato da Tellman e mandi qualcuno dei suoi uomini a fare il giro degli orefici e dei negozi che vendono oggettini del genere. Ho bisogno di sapere se è un lavoro fatto abitualmente qui da noi oppure se è di manifattura straniera. Superfluo precisare che sarebbe molto utile avere qualche notizia in merito al più presto.”

“Stia tranquillo, sovrintendente, mi occuperò personalmente della cosa. Conosco un orafo molto bravo che può sicuramente aiutarmi, facendoci risparmiare un sacco di tempo. Lo cercherò oggi stesso… Avanti!”

L’invito era rivolto all’agente che aveva bussato alla porta e poi l’aveva aperta, avanzando nella stanza e  porgendo all’ispettore una lunga busta bianca. Talbot l’aprì, ne estrasse un foglio, vi lanciò una rapidissima scorsa e lo porse a Pitt che lo lesse, invece, con molta attenzione:

“È il referto dell’autopsia compilato dal dottor Taylor.” – comunicò -  “Devo parlare con lui al più presto.”

Così dicendo, afferrò il telefono, compose il numero dell’obitorio, dove Taylor abitualmente lavorava, ed ebbe la fortuna di acchiapparlo un attimo prima che andasse a casa a mangiare “vista l’ora abbastanza avanzata”, come fece notare il medico con tono acido.

“Me ne rendo conto, dottore, e mi scuso umilmente” – Pitt era tutto uno zucchero – “Ma a me servono urgentemente un paio di spiegazioni. Proprio non potrebbe concedermi cinque minuti del suo tempo?

“Sì, cinque minuti… - bofonchiò Taylor di cattivo umore – “D’accordo, venga qui e si sbrighi. Lei ritardi un solo minuto oltre i dieci che le concedo per raggiungermi e non mi troverà, glielo garantisco.”

Dieci minuti dopo, Pitt era seduto di fronte al dottore, in una stanzetta disadorna che odorava fortemente di disinfettante. Il sovrintendente stava nuovamente leggendo la relazione clinica compilata da Taylor. A un certo punto, alzò la testa e disse:

“Dottore, il referto è molto esauriente, ma gradirei che lei lo riassumesse in termini accessibili anche ad uno sprovveduto poliziotto, in modo che mi sia chiaro ogni particolare. Ho capito che nel caso del generale Ryerson il colpo di pugnale ha provocato effetti stranissimi, quali si verificano una volta su un milione, ma alcune conclusioni mi restano oscure. Può aiutarmi, per favore?”

“Bene, signor Pitt, mi stia a sentire. Cercherò di esporle le risultanze dell’autopsia in modo facile e comprensibile. Dunque, qualcuno si avvicina a Ryerson fin quasi a sfiorarlo e gli vibra una violenta pugnalata dall’alto in basso usando un oggetto estremamente sottile, con tutta probabilità uno stiletto. La lama, però, non trapassa il cuore, né lede l’integrità dell’aorta o di qualche altra valvola. Colpisce di striscio il pericardio che avvolge il ventricolo sinistro e ne provoca una leggera lacerazione che subito si ricompatta per la pressione che sulla parte esercita il polmone. La lacerazione del pericardio, per quanto contenuta, provoca comunque una copiosa emorragia. Il sangue va a raccogliersi all’interno del sacco pericardico e in breve tempo la sua quantità va sempre aumentando, con la conseguenza di agire negativamente sull’azione del cuore che non riesce più a pompare sangue. A questo punto, il destino del ferito è segnato ed egli muore per arresto cardiaco.”

Taylor tacque e guardò maliziosamente Pitt. Poi gli chiese in tono neutro:

“Ha capito quale incredibile implicazione contiene la sequenza di effetti che le ho elencato? No, mi accorgo che le è sfuggita. E allora gliela dico io:

una persona che si trovi nelle identiche condizioni di Ryerson può continuare a camminare anche abbastanza a lungo, nonostante la ferita vicinissima al cuore.”

E l’ineffabile dottore si appoggiò allo schienale della sedia con un sorrisino appena accennato, divertendosi a spiare le espressioni che galoppavano una dietro l’altra sul viso di Pitt, come nuvole nel cielo estivo, a mano a mano che l’apparente mistero della morte di Ryerson si dissolveva alla luce delle conclusioni di Taylor.

Pitt si alzò di scatto. Sul suo volto permaneva ancora una traccia di sbalordimento, ma l’abitudine all’azione prevalse su qualsiasi altro stato d’animo e l’istinto della caccia si  risvegliò prepotente nel poliziotto. Ringraziò il dottore, lo salutò e in tutta fretta ritornò al posto di polizia. Qui non trovò né Tellman, né Talbot (del resto, l’ora di pranzo era passata da un pezzo) e dovette anche lui cedere alle proteste dello stomaco che reclamava i suoi diritti. Un’ora dopo, i tre investigatori si ritrovarono nell’ufficio di Talbot. La situazione era radicalmente mutata. L’esito dell’autopsia aveva creato un robusto ventaglio di possibilità e di ipotesi, in cui brillava una certezza inoppugnabile: Ryerson era stato colpito a morte quasi certamente nel bosco, da una persona che si era dileguata attraverso il cancelletto che consentiva l’accesso al lungofiume. Di conseguenza, era sommamente importante appurare quale ruolo ricoprisse nella tragedia lo sconosciuto con l’impermeabile e il cappello visto dal pescatore la mattina dell’omicidio.

“Talbot, lei si occupi, come convenuto, del medaglione e speriamo che la fortuna ci assista perché adesso trovare il suo proprietario significherebbe fare un enorme passo avanti nelle indagini. Lei, Tellman, controlli se la chiatta è ancora ormeggiata dove l’ha vista ieri e, in caso positivo, interroghi nuovamente il marinaio che le ha detto dell’uomo con l’impermeabile. Chissà che non venga fuori qualche altro particolare… Io faccio un salto nell’ex ufficio di Ryerson e spero di trovarvi Burton. Ci vediamo qui stasera. Buon lavoro.”

Pitt uscì e poco dopo viaggiava su una macchina pubblica alla volta di un anonimo palazzo situato in un modesto quartiere della metropoli. Quando lo raggiunse, dovette sottostare ad una serie interminabile  di controlli, prezzo da pagare alla inflessibile dea Segretezza, e finalmente poté essere ammesso nel sancta sanctorum del controspionaggio britannico. L’ufficio di Ryerson, che fino ad un anno prima era stato utilizzato come rifugio sotterraneo, costituiva l’invidia dell’intera Sezione del controspionaggio. Costruito sette metri sotto il livello del suolo, era praticamente inattaccabile: neanche uno dei tanti temuti bombardamenti lanciati dai tedeschi su Londra con le devastanti bombe volanti avrebbe potuto scalfirlo. Il pavimento era coperto da un pesante tavolato e persino le pareti erano rivestite di legno, per riparare il locale dall’umidità e dal freddo. In un angolo della stanza, ritta su una lastra di lamiera, troneggiava una panciuta stufa di ghisa che mandava allegri bagliori e confortevoli ondate di calore sprigionate dal tubo che saliva verso il soffitto per poi piegarsi a gomito attraverso tutta la stanza prima di scomparire nel muro. Nonostante il velo di mestizia che aleggiava nell’aria, in quel locale ferveva ugualmente un’attività frenetica. Telefoni squillavano in continuazione sulle scrivanie che si trovavano nello stanzone, veloci dattilografe raccoglievano le notizie arrivate e le recapitavano celermente sulla scrivania del caposettore, il quale provvedeva a selezionarle e a sottoporle all’attenzione del responsabile dell’ufficio, incarico temporaneamente assunto, dopo la morte di Ryerson, dal suo “secondo” in comando, Reginald Burton. Pitt e Burton si conoscevano dai tempi in cui avevano fatto parte insieme di un’unità segretissima addestrata per essere paracadutata in Francia dietro le linee tedesche. Poi qualcosa era trapelato e l’Alto Comando aveva deciso di annullare l’operazione. Tra i due, comunque, era rimasta una schietta amicizia, cementata da una radicata stima reciproca. Burton somigliava davvero molto a Nash, si disse Pitt, e questo spiegava perché Ryerson, dalla mente ormai ottenebrata, si fosse  rivolto  al suo socio in affari pensando di parlare col suo braccio destro del controspionaggio. Il sovrintendente, dopo essersi seduto ed aver accettato un bicchiere di sherry (“Quando finirà questa bottiglia, dovremo bere acqua, maledetta guerra” aveva malinconicamente predetto il suo ospite), decise di intavolare il discorso che più gli stava a cuore partendo esattamente dallo strano lapsus di Ryerson moribondo.

“Capisci, Reginald? Il generale sta morendo, ma vuole lasciare un messaggio comprensibile solo a pochissime persone. Non so che cosa lo abbia spinto a questa risoluzione, forse un eccesso di deformazione professionale, forse la volontà di comunicare un’informazione che solo tu eri in grado di capire. Nash, uno dei suoi ospiti, è lì accanto a lui. Ti somiglia moltissimo, stessa figura, stesso viso dall’espressione severa e così Ryerson lo chiama col tuo nome e pronuncia una frase che sembra davvero non avere alcun senso logico. Te la scrivo su questo foglietto, ecco, chissà che tu non possa illuminarmi: Burton attenzione uomo non cercate nessun colpevole.”

Pitt spinse verso il suo amico il pezzetto di carta e aspettò trepidante che egli dicesse qualcosa. Ma Burton, dopo avere letto per un paio di volte la frase, scosse la testa e dichiarò la propria incapacità di decifrarla:

“Mi dispiace, Thomas, ma non ci capisco niente. Sei sicuro che la frase sia quella effettivamente pronunciata da Ryerson?”

“Sì, Reginald, è stata confermata da due testimoni insospettabili. Senti, devo chiederti un’altra cosa e la tua risposta potrebbe risultare importante per le mie indagini. Che tipo era Ryerson? Voglio dire, il personale qui dentro gli voleva bene, lo detestava o che altro? Mi rendo conto che corro il rischio di metterti in imbarazzo, ma io devo esplorare ogni possibilità e conoscere la personalità del generale e la considerazione che lo circondava sul posto di lavoro potrebbe indirizzarmi concretamente sulla strada giusta.”

Burton lanciò a Pitt una lunga occhiata, chiaramente dibattuto tra il senso della discrezione e la voglia di dare una mano al suo vecchio compagno di trascorsi avventurosi, poi sembrò prevalere la forza dell’amicizia. Abbassando istintivamente la voce, il capo dell’ufficio ammise che effettivamente i rapporti di Ryerson con i suoi subordinati non erano il massimo della cordialità:

“Intendiamoci, non è mai capitato che il malcontento sfociasse in aperta discussione, ma il fatto è che il defunto generale faceva davvero poco per farsi apprezzare. Lui ostentava assoluto disinteresse per i sentimenti dei suoi collaboratori, anzi si compiaceva di ripetere  che essere popolare non gli interessava affatto, e così la tensione qui dentro alle volte si poteva affettare con una sciabola. Raramente si lasciava andare ad una lode, più spesso stroncature e sarcasmi feroci investivano il malcapitato responsabile, a suo giudizio, di qualche errore. A me dava particolarmente fastidio un’abitudine che aveva contratto negli ultimi mesi: quando gli capitava qualche caso, raccoglieva in proposito tutte le informazioni sulle quali riuscisse a mettere le mani e le annotava in un dossier  riservatissimo che non mostrava a nessuno. E lo faceva per il gusto del sensazionalismo conclusivo, della sorpresa finale, della soddisfazione di poter dire, a caso risolto: guardate con quanti pochi elementi accuratamente vagliati sono giunto alla verità! Figuriamoci se gli passava per la testa che uomini e donne avevano lavorato sodo per fornirgli quelle tracce…E pensare che, se solo avesse voluto, sarebbe potuto diventare l’uomo per il quale i suoi dipendenti si sarebbero gettati nel fuoco. Era intelligente, intuitivo, aveva un fiuto straordinario per captare le minime anormalità nel comportamento di qualcuno e se affermava che un tizio non lo convinceva affatto, puoi star sicuro che novantanove volte su cento quel tizio aveva qualcosa da nascondere. Peccato davvero che sia stato ucciso: per l’ufficio è una grossa perdita, a parte il carattere, e io sinceramente non so se sono in grado di sostituirlo.”

Pitt volle consolarlo:

“Dài, Reginald, non fare troppo il modesto. Le tue qualità sono certamente note al capo del Servizio e tu subentrerai ufficialmente a Ryerson quanto prima. Tornando a quanto hai detto, credi che avrei qualche possibilità di farti confessare la natura dell’affare sul quale  il generale stava lavorando ultimamente?”

Burton era la statua della costernazione. Sentimenti contrastanti lo dilaniavano. Voleva bene a Pitt, ma non desiderava certo trovarsi al centro di un’inchiesta per fuga di notizie. D’altra parte, Ryerson era morto e il suo amico Thomas non avrebbe rivelato nemmeno sotto le più atroci torture il nome della sua fonte informativa. Decise di saltare il fosso:

“Negli ultimi tempi, Ryerson era convinto che nel nostro dipartimento operasse una spia tedesca!”

Il sovrintendente si accorse di trattenere il respiro:

“Una spia tedesca in mezzo a voi? E non puoi dirmi di più?

“No, Thomas, non è che non voglia, è che veramente non ne so di più. In base alle sue recenti abitudini, il capo aveva riempito fogli e fogli di informazioni, che teneva chiusi nella cassaforte del suo ufficio. Appena è trapelata la notizia della sua morte, è piombata qui una coppia di alti papaveri spediti dal Dipartimento di Sicurezza interna. Risultato: la cassaforte è stata passata al setaccio e tutti i fascicoli hanno preso il volo per finire in qualche scompartimento segretissimo di Witheall, al Ministero della Difesa. Ma io sono sicuro che il materiale più interessante è stato trovato a casa di Ryerson, parimenti perquisita. A proposito, non hai incontrato nessuno dei ministeriali a Lodge Manor?”

Pitt ci pensò su un attimo, poi rispose:

“No, devono essere arrivati quando io ero fuori e nessuno ha avuto il garbo di avvertirmi. Ma la cosa non mi meraviglia, quei fenomeni credono di camminare un metro sopra il cielo, in una dimensione superiore a quella dei comuni mortali. Piuttosto, Reginald, come potrei dare un’occhiata da vicino a quella roba?”  

“Thomas, mi stai chiedendo una previsione francamente impossibile. Detto tra noi, certa gente, lassù ai piani alti, si farebbe strappare un molare senza anestesia piuttosto che affidare alle mani impure di un poliziotto qualsiasi uno solo dei sacri incartamenti che accumulano polvere negli archivi ministeriali, l’hai appena detto anche tu. L’unico consiglio sensato che mi viene in mente è di far scendere in pista il tuo capo, il colonnello Woodside. Magari lui riesce a trovare la via giusta per accontentarti.”

“Va bene, Reggie, è un ottimo consiglio e ti ringrazio. Come ti ringrazio della gentilezza con la quale hai accolto la mia visita. Adesso ti lascio alle tue incombenze. Se fai un salto al Reparto Speciale, quando questa storia sarà finita, sarò veramente lieto di offrirti un bel bicchierone di sherry. Sai, noi ne riceviamo cassette su cassette direttamente dai tedeschi!”

Con una bella risata, i due amici si strinsero la mano e Pitt, scortato da un militare con una grinta da intimidire un bulldog, riguadagnò senza problemi l’uscita, emergendo nel pomeriggio leggermente caliginoso di una Londra continuamente attaccata, ferita, percossa, ma non doma. Consultando l’orologio, il poliziotto scoprì con piacere che si sarebbe potuto permettere una bella passeggiata a piedi fino alla stazione di polizia ed arrivare in tempo per l’appuntamento con i suoi collaboratori. Mentre camminava, si chiede incuriosito come fosse morta la moglie di Ryerson e perché lui l’avesse fatta seppellire nel boschetto di casa, anziché nel cimitero del quartiere. Si ripromise di chiederlo a Talbot. Un passo dietro l’altro, Pitt arrivò finalmente a destinazione. Salì nel suo ufficio e vi trovò l’ispettore e il sergente che, al suo apparire, si alzarono in piedi con aria abbattuta. Pitt intuì immediatamente quale vento negativo tirasse sulle investigazioni ed infatti i rapporti dei due confermarono le sue peggiori aspettative: le ricerche avevano dato un esito desolante. L’orafo amico di Talbot aveva esaminato il medaglione, dichiarando di non averlo mai visto, ma aveva nel contempo fornito una notizia interessante: quel tipo di lavorazione dell’incastonatura era tipica di una corrente artistica tedesca solo da qualche anno abbandonata. Si era, comunque, impegnato a contattare qualche suo collega esperto del ramo e Talbot era tornato in sede, comprensibilmente deluso. Pitt, al contrario, appariva molto interessato alla notizia fornitagli dall’ispettore. Tellman, da parte sua, aveva dovuto malinconicamente constatare che la chiatta aveva levato gli ormeggi e stava placidamente discendendo il fiume, diretta chissà dove.

“Bene, signori, sembra che siamo seppelliti di segnalazioni utili alle nostre indagini!” - ironizzò Pitt – “Per fortuna, oggi ho saputo qualcosa che potrebbe dare un impulso ai nostri sforzi. Ne parleremo più avanti. Piuttosto, Talbot, lei che lavora in questo distretto da quasi quindici anni, sa com’è morta la moglie di Ryerson?”

“Sì, sovrintendente, l’episodio suscitò molta impressione e segnò indelebilmente la vita di quell’uomo. Accadde ventuno o ventidue anni addietro in Irlanda. Ryerson, a quei tempi, era un giovane attaché del Corpo diplomatico e veniva spesso utilizzato in missioni particolarmente impegnative, in cui fossero richieste brillanti doti diplomatiche. Sua moglie Beatrice Vinton, un’affascinante giovane donna di ottima famiglia, si era sempre accontentata di vivere all’ombra del marito, senza mai mettersi in mostra, ma in quell’occasione puntò i piedi e riuscì a convincerlo a portarla con lui in quelle zone pericolose. Una mattina, a Belfast, mentre attraversava la strada con un’amica, Beatrice Ryerson si trovò accidentalmente coinvolta in una furibonda sparatoria, scatenata da tre giovani terroristi contro due uomini politici della fazione avversa. Una pallottola la raggiunse alla nuca e per la povera donna fu la fine. Ryerson, distrutto dal dolore, tornò a Londra con la salma della sua amata consorte e volle che fosse seppellita entro i confini della proprietà. Ryerson non si riprese mai del tutto dal dispiacere e si chiuse progressivamente in se stesso. Non si risposò e in tutti questi anni non si è mai saputo di una relazione allacciata con un’altra donna.”

“Triste storia, ispettore, davvero una triste storia.” – disse Pitt, colpito dal racconto. –

“Ma torniamo a noi. Sto per affidarvi un incarico  che potrebbe fornire risvolti interessanti. Tengo a sottolineare che  è assolutamente urgente sbrigarlo nel minor tempo possibile, perché superiori gerarchici e giornali ci soffiano sempre più forte sul collo  e da un momento all’altro cominceranno ad arrivare le sollecitazioni a chiudere celermente il caso. Si tratta di avviare un’indagine patrimoniale sulle condizioni economiche di Ryerson. Lei, Tellman, potrebbe contattare banche ed istituti di credito alla ricerca di conti o depositi riservati, mentre lei, Talbot, potrebbe occuparsi di spulciare nei registri catastali, alla ricerca di beni immobili di proprietà della vittima. Mi frulla ancora in testa l’accenno all’usura fatto da Jenkins e vorrei vederci più chiaro. Mettetevi subito al lavoro e fatemi sapere. Io faccio un salto a casa, mia moglie mi vede sempre meno e non vorrei arrivare al punto di vedermi sbattere la porta sul muso perché non mi ha riconosciuto. Se ci sono novità, chiamatemi in qualsiasi momento.      (Continua…)

Condividi post
Repost0
29 settembre 2012 6 29 /09 /settembre /2012 10:44

 Tellman raccontò di aver perlustrato accuratamente il bosco, spingendosi più volte tra i cespugli, finché la sua costanza non era stata premiata: su un lato del sentiero, adagiato sopra un ciuffo d’erba, aveva trovato un oggettino che non appariva bagnato o sporco di fango, segno che era caduto per terra dopo il temporale abbattutosi su Londra alle prime luci dell’alba. Tellman infilò una mano in tasca e, quando la estrasse, teneva nel palmo un minuscolo medaglione orlato da un fitto intreccio di sottilissimi fili d’oro. Lo consegnò subito a Pitt che esaminò attentamente il coperchio di madreperla su cui era incisa una piccola rosa purpurea, poi lo sollevò facendo scattare la microscopica molla che faceva da fermaglio. Gli apparve la foto di un bambino di tre o quattro anni, biondo e sorridente. Il sovrintendente girò il medaglione e vide che il fondo era bianco ed assolutamente anonimo. Porse allora il gingillo ai suoi aiutanti che se lo rigirarono tra le mani in silenzio, esaminandolo con cura, prima che Talbot lo restituisse al suo capo.

“Allora?” – domandò Pitt – “Qualcuno ha qualche idea?” Talbot e Tellman lo guardarono, poi il sergente si schiarì la voce ed accennò a parlare. Aprì la bocca, ma la richiuse di scatto, come se fosse spaventato dall’idea che gli era venuta.

“Avanti, sergente, avanti” – lo incoraggiò Pitt – “Cosa stava per dire?”

“Sovrintendente, mi è venuto in mente…sì, insomma, il medaglione spiccava chiaramente a pelo d’erba, non era bagnato e neppure infangato. Ho pensato, allora, che potesse essere stato smarrito da qualcuno non molto tempo fa, forse stamattina stessa, qualcuno che stesse scappando dopo aver…” E qui Tellman si bloccò, spaventato suo malgrado dall’enormità della supposizione che aveva elaborato.

“Voleva dire: dopo aver aggredito Ryerson, eh, sergente?” La voce di Pitt suonò incoraggiante, senza ombra di scherno e il graduato si sentì rincuorato. Talbot, che guardava alternativamente da uno all’altro, volle dire la sua e obiettò:

“Sì, il ragionamento potrebbe filare, ma bisogna tener conto del fatto che i testimoni hanno affermato di non aver visto nessuno nelle vicinanze di Ryerson, prima che lui arrivasse nel piazzale.”

“Giusto” – concesse Pitt – “ma teniamo anche conto del fatto che il bosco dietro la villa è eccezionalmente fitto e una persona non avrebbe difficoltà a nascondersi in quella massa così serrata di alberi e cespugli. Però, a distruggere le nostre supposizioni, resta sempre il fatto che il generale è stato colpito al cuore mentre si trovava in uno spazio assolutamente vuoto.”

“C’è un’altra cosa assai importante che dovete sapere” - Tellman aveva ripreso la parola – “ma non so quanto valore possa avere, dopo aver ascoltato il racconto dei testimoni.  Dopo aver rinvenuto il medaglioncino, ho proseguito nell’esame del terreno e accanto al cancelletto che dà sul lungofiume ho trovato impronte di una scarpa di media grandezza, un pò pasticciate, ma abbastanza fresche da far ragionevolmente supporre che siano state lasciate stamattina. Ho aperto il cancello e sono uscito sulla banchina. Guardandomi intorno, ho visto una chiatta ormeggiata proprio alla base del molo di fronte e mi sono avvicinato. C’erano due uomini impegnati ad effettuare dei lavoro a bordo e ho chiesto da quanto si trovavano lì. Ho scoperto che avevano attraccato la chiatta al molo  alle quattro circa di stanotte, prima che iniziasse a piovere, e allora ho tentato il colpo: ”avete per caso visto qualcuno uscire da quel cancello, intorno alle sette e mezzo di stamattina?” Non ci crederete, ma ho avuto un colpo di fortuna incredibile. «Sì – ha risposto uno di loro – un uomo piuttosto alto, coperto da un lungo impermeabile chiaro, è uscito da quel cancelletto e si è avviato a passo svelto verso il traghetto per Brighton delle sette e quarantacinque. Non sono riuscito a vederlo in faccia perché indossava un cappello a larghe tese che gli ombreggiava quasi del tutto il viso. C’è solo un particolare che non riesco a togliermi dalla mente» – continuò il marittimo pensieroso – «Quell’uomo camminava con un certo portamento eretto e controllato, tipico di una donna. Non voglio dire che dimenasse i fianchi, ma insomma camminava come se procedesse sulle uova.» Accertatomi che non aveva altro da dirmi, l’ho ringraziato e son venuto subito qui.”

Tellman era comprensibilmente fiero del suo operato e Pitt si complimentò sinceramente per lo spirito di iniziativa dimostrato.

“Bene, signori, il sergente ha aperto nuovi sbocchi alle nostre indagini e dovremo esaminare fino in fondo questo interessantissimo sviluppo. Per intanto, proporrei di finire gli interrogatori, ma ciascuno di noi si occuperà di sentire un abitante della casa. Lei, Talbot, si occupi di Mark Anders, l’avvocato, mentre lei, Tellman, interroghi Nicholas Jenkins, il genero di Ryerson.”

“Agli ordini, sovrintendente” risposero i due, quasi all’unisono. Avevano appena messo piede  nel piazzale, allorché udirono il rombo di una macchina che un minuto dopo si arrestò ai piedi della scalinata, scagliando ghiaia tutt’intorno. Ne scese un giovane di trent’anni, altezza media, carnagione olivastra, occhiali: un tipo cordiale con un modo di fare accattivante, che tuttavia non riusciva a nascondere una traccia di nervosismo latente. Era Nicholas Jenkins, come comunicò a bassa voce Talbot, che l’aveva conosciuto quella mattina. Pitt lo squadrò dall’alto in basso, seccato dalla manovra del giovanotto; tuttavia non disse nulla e si limitò a lanciare un’occhiata di avvertimento a Tellman che si affrettò ad avvicinarsi a Jenkins e a farlo entrare in casa per scambiare quattro chiacchiere, nonostante l’altro fosse palesemente riluttante. Talbot si allontanò a sua volta per cercare Anders e Pitt rimase da solo. Voleva parlare con la signora Holland, ma gli faceva piacere respirare ancora un po’ d’aria fresca e profumata che aleggiava intorno. Mentre si attardava con un piede sul primo gradino della scalinata, improvvisamente davanti ai suoi occhi apparve una lieta visione. Verso di lui, lungo il viale principale, stava avanzando una dea, non c’era parola più appropriata per definirla. I lineamenti perfetti, i capelli biondi lunghi, di statura alta con un corpo squisitamente modellato. Camminava con portamento eretto, leggera e flessuosa. Una ragazza stupenda, da togliere il respiro! Pitt non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Aprì la bocca per parlare ed emise soltanto un suono indistinto. Allora riprovò e riuscì ad articolare un banale:

“Buon pomeriggio. Mi chiamo Thomas Pitt e sono un funzionario di polizia.”

La soave apparizione sorrise e disse a sua volta: ”Buon pomeriggio a lei. È qui per indagare sulla morte del generale Ryerson? Brutto affare davvero. Io mi chiamo Charlotte Miller, ma tutti mi chiamano Lottie. Ero una collaboratrice del generale.”

Pitt sentì marmorizzarsi i muscoli del viso su un’espressione di comica costernazione: la voce della ragazza era piatta e convenzionale in modo incredibile e a quel suono sgradevole ogni magia scomparve.

“Una donna ben fatta e piena di salute, nient’altro” - ragionò Pitt, deluso – “È strano come, a volte, una ragazza possa turbare in profondità finché tiene la bocca chiusa e come svanisca del tutto il suo fascino appena comincia a parlare. Che cosa sarebbe successo se gli dei avessero dato ad Elena di Troia un simile tono di voce?” continuò ad almanaccare Pitt, ma fu riportato alla prosaica realtà dalla ragazza che aveva fatto una domanda e adesso fissava l’investigatore, chiaramente in attesa di una risposta. Pitt, confuso, dovette ammettere che si era distratto un attimo e allora l’ex-dea chiese nuovamente se  egli sapesse indicarle dove trovare il signor Larraby.

“Non saprei, provi a chiederlo al maggiordomo.” Così dicendo, salì la scalinata, bussò alla porta e si scostò galantemente per far entrare la giovane donna. In quel momento, l’occhio gli cadde sulle due eleganti scarpine bianche che fasciavano piedini deliziosamente formati e si accorse che il contorno delle suole era sporco di fango.

“Toh, così elegante e con le scarpe infangate” si disse divertito  l’investigatore, che però non ebbe neppure il tempo di ripensare una seconda volta a quella curiosa anomalia perché era comparso l’onnipresente Stevenson che, alla vista dell’incantevole fanciulla, sbattè un paio di volte gli occhi, poi domandò con ammirevole controllo come potesse essere utile. La dea ripetè la richiesta di vedere Larraby e il maggiordomo si pose immediatamente al suo servizio, invitandola a seguirlo. Pitt rimase solo nel corridoio e colse qualche brano di conversazione.

“Signorina, le hanno dato qualche noia i giornalisti al cancello?” chiese Stevenson, premuroso. La Miller lo guardò interrogativamente:

“Quali giornalisti?”

Fu la volta di Pitt di meravigliarsi: possibile che i tenacissimi rappresentanti della carta stampata avessero abbandonato il campo?  Il resto della risposta di Stevenson si perse nel pressante mormorio  dell’avvocato Anders, che  si era accostato silenziosamente a Pitt, sussurrandogli:

“Usciamo, per favore, devo parlarle”. Il funzionario non fece una piega. Si girò e si avviò verso la porta, seguito dall’altro che camminava a testa bassa e con le mani in tasca. Usciti dalla casa, Anders allungò il passo e svoltò verso il boschetto, inoltrandosi a passo svelto sul sentierino che portava alla zona della tomba, una cinquantina di metri più sotto. Pitt lo seguiva in silenzio, anche se sentiva crescere la curiosità. Giunto in fondo alla proprietà,  Anders si sedette su uno screpolato sedile di pietra posto a poca distanza della tomba della signora Ryerson, si passò una mano tra i folti capelli ed iniziò a parlare senza preavviso:

“Sovrintendente, lei è venuto qui stamattina per la prima volta, chiamatovi da un fatto luttuoso. So che ha interrogato alcuni degli ospiti e mi chiedo se ha notato che tutti loro sembrano vivere in un’atmosfera di pesante tensione. Ebbene, devo dirle che la sua intuizione, se formulata,  risponde perfettamente alla realtà. Io, la signora Holland, Nash, Larraby e Montrose  eravamo ostaggi di Ryerson che ci aveva radunati nella sua casa per umiliarci e sfogare la sua immensa brama di crudeltà e megalomania. Vedo dalla sua espressione che stenta a credermi. Abbia la pazienza di ascoltarmi e fra poco capirà che non sono diventato improvvisamente pazzo.” Anders si interruppe, forse per raccogliere le idee, poi ricominciò a raccontare, seguito da un attentissimo Pitt:

“Deve sapere che ognuno di noi cinque si porta dietro un segreto vergognoso che vorrebbe veder sepolto in fondo ad un burrone alpino. Si tratta di errori commessi anni fa, quando eravamo tutti più giovani, e Ryerson ne era venuto a conoscenza grazie alla sua posizione nella polizia. Per motivi che al momento non avevamo compreso appieno, ma che da qualche tempo ci sono perfettamente comprensibili, Ryerson aveva fatto di tutto per salvarci dalle conseguenze delle nostre azioni. E non creda che si trattasse di sciocchezze giovanili, di goliardate magari un po’ pesanti ma tutto sommato non così gravi!

Prendiamo Nicholas Jenkins, il marito della figlia di Ryerson…sì, anche lui subiva le vessazioni del suocero. Jenkins è un agente di cambio, come lei sa, e circa due anni fa aveva consigliato al generale certe speculazioni in Borsa che purtroppo si erano rivelate sbagliate, facendo perdere al vecchio 5.000 sterline. Ebbene, che ti combina Jenkins, per rimediare? Falsifica un assegno del suocero proprio per la stessa somma, con l’intenzione di restituire i soldi a Ryerson fingendo di averli avuti in prestito. Risultato: il generale scopre il maneggio, si fa consegnare l’assegno e tiene in pugno il genero, facendogli saltare la corda ogni volta che gliene salta il capriccio. In fondo, però, il giovane se l’è cavata meglio di noi… 

Parliamo di Richard Nash, ora. Lei non può saperlo, ma durante la prima guerra mondiale, mentre combatteva in Francia col grado di sottotenente,  Nash aveva abbandonato il suo reparto sotto il fuoco del nemico e si era dato alla fuga, ricomparendo due anni dopo in Argentina col suo nome attuale e sposato ad una ricca vedova. Successivamente era ritornato a Londra ed aveva impiantato una fabbrica di aeroplani contro il parere di tanti suoi amici che lo consideravano un azzardo (sto parlando del 1927). Lo stabilimento aveva prosperato e Nash era diventato vergognosamente ricco, oltre che stimato ed invidiato. Ryerson, non si sa come, scopre il passato di Nash e comincia a tormentarlo con mille richieste, minacciando ogni volta di rendere pubblica la sua vecchia colpa.”

Anders si interruppe ancora. Guardò speranzoso Pitt e gli chiese:

“Non ha per caso una fiaschetta di liquore? Rinvangare queste cose mi fa salire in bocca un saporaccio orrendo:”

“No, mi dispiace” – rispose Pitt con condivisione – “Possiamo andare a bere qualcosa, poi, se vuole, potrà continuare a raccontare.”

“No, no, se smetto poi non so se riuscirò a riprendere il discorso. Andiamo avanti. Allora, vediamo, ero rimasto…sì, a Nash. Passiamo a Jerry Larraby, uno dei più bravi giornalisti inglesi, scrittore e vincitore di prestigiosi premi letterari, conosciuto ed apprezzato anche all’estero. Lo sa perché Larraby è venuto a Lodge Manor?”

Pitt fu colto di sorpresa dalla domanda improvvisa, poi rispose un po’ esitante:

“Ha dichiarato che era qui per aiutare il generale a scrivere le sue memorie…”

“Sì, questa è la voce ricorrente. In realtà, chi scriveva le memorie era solo Larraby e Ryerson si sarebbe limitato a firmarle alla fine, riscuotendo elogi, incassi ed unanimi apprezzamenti. Proprio come era successo cinque o si anni fa, quando un saggio sulla guerriglia in India aveva riscosso un successo strepitoso da parte della critica e del pubblico. Il critico letterario del Times aveva addirittura scritto che era nato il nuovo “Kipling in divisa”! Peccato che anche allora chi aveva fatto tutto il lavoro era stato Larraby…E sa perché? Perché Ryerson, che allora era vice comandante della polizia metropolitana, dirigendo le indagini su un incidente stradale in cui una bambina undicenne era stata uccisa da un’automobile che era scappata senza fermarsi, aveva scoperto che il guidatore dell’auto incriminata era Larraby. La serata gonfia di nebbia, la velocità un po’ elevata, l’urto, il terrore delle conseguenze, avevano portato Larraby a commettere la sciocchezza enorme di fuggire. Ryerson era riuscito a risalire al responsabile del reato e a mettere la sordina all’accaduto. Aveva poi fatto sparire il fascicolo e da quel momento Larraby era stato costretto a ballare al suono della sua musica.

Come d’altronde aveva dovuto fare Leonard Montrose, un grande cardiochirurgo. Montrose lavorava all’Ospedale del “Sacro Cuore” di Londra ed aveva raggiunto una meritatissima fama di medico capace e soprattutto umano. Non so neppure quante vite aveva salvato con la sua maestria di esperto di problemi cardiaci e certo non meritava il destino che avrebbe mostrato il suo volto più abominevole sotto le sembianze di Saville Ryerson.” La voce di Anders aveva acquistato un tono tagliente, quasi sprezzante” Montrose aveva una moglie dolcissima che, purtroppo, poco per volta era caduta nel vizio della morfina. All’inizio, il marito aveva fatto di tutto per guarirla da un vizio così degradante, poi i suoi sforzi erano diventati sempre più inutili e lo stato di sua moglie minacciava di diventare noto a tutti i loro amici. Montrose amava profondamente la moglie e non poteva sopportare che la ricerca della droga la portasse ad avvicinare individui senza scrupoli che magari l’avrebbero sfruttata in mille modi. Decise, perciò, di procurarle lui stesso quel veleno. Ed iniziò a prelevarne dosi sempre più consistenti dall’armadietto del suo reparto in cui erano custodite le sostanze stupefacenti.  Ma un giorno, durante un controllo di routine disposto dalla Direzione sanitaria, l’ammanco fu scoperto e i sospetti caddero inevitabilmente su Montrose che, purtroppo per lui, più di una volta era stato scorto dal personale mentre armeggiava attorno al mobiletto. Lo scandalo fu messo faticosamente a tacere, Montrose si trasferì a Liverpool, dove si rifece una vita aprendo un piccolo ambulatorio di quartiere. I suo amici, quei pochi che gli erano rimasti, non l’avevano però dimenticato e fecero in modo, muovendo pedine importanti, a fargli ottenere la cattedra di insegnamento di medicina, ramo cardiologia, nell’università di Edimburgo, in Scozia. Tutto sembrava mettersi per il meglio, allorché un brutto giorno Montrose ricevette una lettera di convocazione a Scotland Yard da parte di Ryerson. Il resto può immaginarlo. Da quel giorno, il povero medico è stato costretto a soddisfare ogni richiesta del caro generale.

La signora Florence Holland, vedova di un professore di storia americana,  aveva conosciuto Ryerson soltanto da un paio d’anni, ma le erano ampiamente bastati per maledire il momento in cui le loro strade si erano incrociate. Holland è una esperta di araldica di notevole valore, ma si occupava soprattutto della piccola ed affermata galleria d’arte che aveva aperto con un vecchio compagno di studi in una cittadina del nord dell’Inghilterra.  L’uomo aveva una moglie ipocondriaca, petulante ed ossessivamente gelosa. Un giorno fu trovata morta, avvelenata da un intero tubetto di barbiturici. Le indagini si conclusero con un  verdetto di suicidio, ma stampa ed opinione pubblica sembrarono coalizzarsi per rovesciare fango sulla coppia. Si insinuò che i due coltivassero una relazione, si suppose che la povera moglie, oltretutto seriamente ammalata (ma nessuno seppe dire di che cosa…) avesse dovuto assistere impotente alla vergognosa tresca,  si suggerì di riaprire il caso svolgendo altre analisi più approfondite e infine si alluse chiaramente alla possibilità che la bella gallerista e il suo socio fossero stati complici nell’assassinio della donna. Questo era troppo per Florence Holland  che decise di scappar via da quel posto invivibile. Liquidò la quota della galleria, sistemò gli altri pochi affari che aveva in ballo e si trasferì a Londra, dove riprese ad occuparsi a tempo pieno dei suoi amati studi di araldica. Quando Ryerson la avvicinò e le dimostrò che sapeva tutto di lei, la signora Holland si sentì crollare il cielo sulla testa, ma non avrebbe retto ad un’altra campagna denigratoria con lei come bersaglio. Si arrese quindi a Ryerson e alle sue pretese.”

Anders aveva smesso di parlare. Con gli occhi chiusi, si era appoggiato al muretto alle sue spalle e sembrava spossato dal tanto chiacchierare. Pitt non osava intervenire ed attendeva che l’altro si riscuotesse. Ciò che aveva sentito narrare andava oltre ogni sua capacità di raziocinio. Possibile che un uomo da tutti conosciuto come probo ed integerrimo, una personalità di spicco della polizia, avesse tradito se stesso con comportamenti altamente sleali, calpestando persino il proprio giuramento di servitore fedele ed incorruttibile del Re e dello Stato? Quando Anders parlò di nuovo, Pitt ebbe un piccolo sobbalzo:

“E adesso parliamo di me.” – la voce era contratta, quasi priva di espressione – “Io sono un avvocato e faccio parte di uno stimato studio legale con sede a Regent Park. Ho dovuto sgobbare sodo per arrivare a far parte della crema della professione forense di Londra, partendo da un paesino dello Yorkshire. Oggi posso dire di essere un uomo e un professionista realizzato e non accetterei mai di dover cominciare di nuovo da qualche altra parte. Ecco perché ho chinato la testa sconfitto, quando l’anno scorso Ryerson venne a trovarmi nel mio studio e mi disse che aveva bisogno di un favore. Mi spiegò che aveva deciso di regalare a sua figlia, in occasione del suo trentesimo compleanno, un magnifico puledro che aveva già vinto le cinque corse alle quali aveva partecipato. Era l’unico capriccio che mi ero potuto permettere e mi sentivo particolarmente fiero nei panni del proprietario di un  cavallo da corsa che gli appassionati mi invidiavano. Respinsi perciò l’offerta di Ryerson, ma mi sentii gelare quando cominciò a parlare di un giovane studente in giurisprudenza che una sera aveva partecipato ad una festicciola tra matricole, degenerata in una specie di orgia: al termine, una delle ragazze presenti, per sfuggire alle pressanti avances di uno studente ubriaco, era volata giù dal quinto piano del “college”, morendo sul colpo. Le testimonianze raccolte dalla polizia avevano subito fatto pensare alla disgrazia, ma qualcuno dei presenti alla festa aveva creduto di ricordare che ci fosse stata una piccola colluttazione vicino alla finestra tra i due ragazzi e tanto era bastato perché cominciassero a circolare voci eccitate che parlavano di fatto poco chiaro. Noi studenti che avevamo partecipato alla festa eravamo stati pregati dal rettore di cambiare scuola e così mi era toccato sudare sangue per essere ammesso in un altro istituto. Fortunatamente, ero riuscito ad arrivare alla laurea e durante il periodo di apprendistato mi aveva messo gli occhi addosso lo studio per il quale lavoro tuttora. Potevo mai correre il rischio di trovarmi sulla bocca della gente per un fatto ormai sepolto, rischiando magari di perdere anche il lavoro? No, non potevo. Di conseguenza, il mio cavallo è da circa un anno proprietà della famiglia Ryerson.”

Questa volta la rabbia aveva reso graffiante la voce di Anders che guardò Pitt e poi gli chiese, con pesante ironia:

“L’ho scandalizzata? Ho forse demolito l’immagine di uomo superiore di un uomo che superiore non era affatto?”

Pitt era in difficoltà. Effettivamente quello che aveva sentito era di eccezionale gravità, quasi impossibile da credere. Anders sembrò leggergli nella mente perché disse:

“Vuole sapere che cosa aveva  preteso dagli altri? Nash aveva dovuto prenderlo come socio al cinquanta per cento nella sua fabbrica. Larraby si era impegnato a scrivere gratis ed anonimamente le sue memorie. Montrose era stato costretto a vendergli ad un prezzo vergognosamente basso un in folio di sonetti del Cinquecento di valore inestimabile, attribuito a Shakespeare. La Holland, infine, si era sentita rivolgere la ridicola richiesta di preparare un incartamento che permettesse a Ryerson di rivendicare un titolo nobiliare. È questo l’uomo che tutti rispettavano?”

“No, certo” – rispose il sovrintendente ancora scosso – “Questo era evidentemente il lato oscuro di Ryerson, quello accuratamente nascosto agli occhi dell’opinione pubblica e dei suoi amici. Ma c’qualcosa che mi lascia perplesso. Come ha potuto impedire che venissero perseguiti dei reati? In fondo, non aveva svolto le indagini da solo, altri avevano raccolto gli elementi sottoposti in seguito alla sua attenzione: c’era gente che sapeva, quindi. Come era riuscito a mettere a tacere episodi di una certa gravità senza che trapelasse alcuna voce discorde? La polizia, vivaddio!,  non era proprietà privata di Ryerson.”

Anders sorrise. Pitt era davvero un brav’uomo ed aveva fatto bene a confidarsi con lui. Ma come avrebbe reagito, l’onesto funzionario, di fronte a quelle rivelazioni, si chiese forse per la decima volta? Sperò di ricevere una risposta prima che il colloquio terminasse:

“Sovrintendente, non devo essere io a ricordarle che a certi livelli  gli alti ed altissimi funzionari di polizia non hanno neppure bisogno di dare tante spiegazioni ai loro subordinati. Quando vogliono raggiungere uno scopo, pronunciano una frase con l’aria di chi sta maneggiando un segreto di Stato, ammoniscono circa le terribili conseguenze alle quali si va incontro se si apre bocca sull’argomento, magari si accenna vagamente alla sicurezza della Nazione e il gioco è fatto. Quei pochissimi che hanno partecipato alle indagini capiscono immediatamente che gli conviene dimenticare ogni particolare di ciò che hanno visto o sentito ed è così che il caso svanisce nella nebbia. Piuttosto, c’è un’altra cosa che desidero chiederle. Ora lei conosce i segreti di sei persone che hanno penato abbastanza negli ultimi anni della loro vita, vittime di odiosi ricatti: che cosa intende fare?”

E lo fissò con una certa apprensione. Pitt ricambiò lo sguardo, ma nel suo c’era una profonda incertezza. Maledizione, perché Anders gli aveva raccontato tutto quel po’ po’ di roba, per poi passare a lui la patata bollente? Decise di prendersi una piccola vendetta e di tenerlo per qualche giorno sulla corda:

“Avvocato, io appartengo ad un’organizzazione deputata a combattere il crimine in tutte le sue forme ed ho il dovere di perseguire tutti i reati dei quali vengo a conoscenza. I casi di cui lei mi ha messo al corrente meritano indubbiamente un cenno di interesse da parte mia, ma voglio essere sincero: in questo momento sono completamente assorbito dalle indagini sulle morte di Ryerson ed intendo riversare tutte le mie energie in questo compito. Quando il caso, come spero, sarà chiarito, mi dedicherò all’esame degli avvenimenti che lei mi ha prospettato. Fino ad allora, considererò confidenziale quello che mi ha raccontato. Piuttosto, si rende conto che mi ha fornito sei solidi moventi che potrebbero essere alla base dell’omicidio di Ryerson?”

Anders sorrise: “Signor Pitt, lei deve davvero considerarmi un pessimo avvocato se avanza un  dubbio del genere. Certo che l’ho pensato, anzi che l’abbiamo pensato, io e i miei amici, i quali, sia detto per inciso, sanno benissimo che io sono venuto da lei a vuotare l’infame sacco. Ma devo dirle un’altra cosa e le giuro che sono sincero: né io, né alcuno degli altri ha avuto niente a che fare con la morte dl generale. Mi creda, non perda tempo ad investigare su di noi, non troverebbe assolutamente nulla.”

Pitt lo fissò un attimo, mentre un lieve sorriso gli compariva all’angolo della bocca:

“Molto abile davvero, avvocato, ma, se permette, certe valutazioni le faccio da me. E adesso torniamo in casa, devo parlare con la signora Holland, se ci riesco.”

Fu fortunato. La donna era seduta su una delle tante panchine di pietra disseminate sul viale principale della casa e sembrava assorta in gravi pensieri, tanto che Pitt potè osservarla a suo agio prima di avvicinarsi.  Era una donna solida e ben messa, ma non grassa, con sopracciglia folte e ciglia lunghissime, piuttosto attraente nel suo pallore che dava maggior rilievo al rosso delle labbra. Aveva un profilo che ricordava i tratti classici di una statua greca e ciò le conferiva una nota di gravità più che di bellezza. Quando avvertì che qualcuno si stava avvicinando, alzò un paio d’occhi grandi e luminosi e li posò con espressione interrogativa su Pitt, che adottò istintivamente un tono discorsivo:

“Signora Holland? Sono il sovrintendente Pitt, incaricato delle indagini sul caso-Ryerson. Posso farle qualche domanda?”

“Sovrintendente, temo di non poterle essere di alcuna utilità, ma sono a sua disposizione.”

La voce era bassa e il tono cordiale. Pitt fu lieto di non dover affrontare altro antagonismo e domandò:

“Signora, lei conosceva da molto il generale?”

“Da circa due anni, signor Pitt. Ryerson aveva saputo che io mi occupo di araldica e mi aveva contattato perché era interessato alla compilazione del suo albero genealogico. Vede, si era messo in testa che nel suo ramo familiare vi fosse qualche antenato titolare di un titolo nobiliare e aveva chiesto a me di svolgere ricerche approfondite. Una settimana fa sono arrivata a Lodge Manor, dietro sua richiesta, e mi sono messa subito al lavoro su certi vecchi documenti che il generale aveva scovato non so in quale decrepito baule in soffitta. Curioso: la sua morte mi dispenserà dal dargli una delusione, perché in tutti gli incartamenti esaminati non risulta traccia di progenitori nobili.” E un divertito sorriso sfiorò le perfette labbra della studiosa.

“Eccone un’altra che non si è certo strappata i capelli per la morte di Ryerson” - pensò filosoficamente Pitt – “Del resto posso capirla” si disse subito dopo, ricordando quello che gli aveva raccontato Anders. Arrivò la domanda successiva:

“Lei dov’era stamattina intorno alle sette e trenta, signora Holland?”

La donna gli lanciò uno sguardo in cui danzava una pericolosa fiammella di rabbia, ma riuscì con notevole sforzo a controllarsi. Quando parlò, ogni traccia di cordialità era sparita dalla sua voce, divenuta fredda come una ventata di tramontana:

“Così siamo alla richiesta dell’alibi, signor Pitt? Bene, a quell’ora ero ancora a letto, da sola, naturalmente, quindi dovrà accontentarsi della mia parola. Mi sono alzata verso le otto e sono scesa in sala da pranzo una mezz’ora più tardi. L’ho trovata deserta e la cosa mi ha meravigliata non poco, poi è entrata una cameriera che mi comunicato la triste novità: Ryerson era morto e in quel momento si trovava già all’obitorio. Nel salottino sul retro della casa si erano installati due poliziotti che stavano procedendo alle prime indagini e il dottor Taylor stava cercando di rianimare la signora Kate, la figlia del generale, che si era sentita male alla notizia del decesso del padre. La ragazza non sapeva altro, così sono andata in cerca di qualcuno che potesse raccontarmi di più e in biblioteca ho trovato Anders e Montrose, piuttosto scossi, che ascoltavano con la massima attenzione Larraby impegnato a raccontare l’accaduto del quale era stato testimone oculare. Qualche minuto dopo è arrivato Jenkins, infagottato in un ridicolo impermeabile chiaro, seguito a brevissima distanza da Nash che aveva appena finito di parlare con uno di voi poliziotti. Ecco, questa è stata la mia mattinata. Vuole sapere altro?”

Pitt stava riflettendo a tutto vapore su una frase che aveva pronunciato la donna e corse il rischio di distrarsi. Si riprese appena in tempo per evitare di fare una figura imbarazzante e rispose gentilmente:

“No, grazie, signora, per adesso ho finito. La ringrazio.” E sorrise alla Holland la quale, notevolmente ammansita, ricambiò il sorriso e si alzò, allontanandosi con grazia.

“A chi toccava, adesso? Ah, sì, a Montrose, visto che sarebbe stato più opportuno sentire l’indomani Kate Ryerson, la figlia del defunto” ricapitolò mentalmente il detective. Poi tornò col pensiero a Jenkins, il disinvolto agente di commercio. Quell’accenno all’impermeabile fatto dalla Holland lo aveva incuriosito non poco. Valeva la pena di svolgere qualche indagine, tutto sommato. In quel momento, scorse Tellman che si stava avvicinando a grandi passi. Il sergente aveva la faccia di chi porta grandi novità ed infatti, appena giunto a contatto con il suo superiore, abbassò la voce e mormorò:

“L’interrogatorio di Jenkins non ha svelato nulla di interessante. Dopo, mentre stavo uscendo dall’abitazione, ho incontrato una cameriera che avevo conosciuto tempo fa ad una pesca di beneficenza organizzata dal pastore di St. Mary, la chiesa di questo quartiere. Non sapevo che lavorasse dai Ryerson e ho pensato di farle qualche domanda. Tra una titubanza e l’altra, e dopo avermi fatto quasi giurare di non fare mai il suo nome, Molly mi ha detto che due sere fa il generale e Jenkins hanno avuto nello studio di Ryerson una rabbiosa discussione. Gridavano tanto che la ragazza, che passava lì davanti, ha colto qualche frase attraverso la porta chiusa.

“Non sperare di ricevere soldi da me – urlava Ryerson – e non credere di impietosirmi con le tue assurde storie filantropiche. Ricordati che posso spedirti in galera quando voglio!”

“Lo so che ne saresti capace, vecchio avvoltoio. Tu sganci soldi soltanto per fare lo strozzino e rovinare la povera gente che si rivolge a te” – aveva ribattuto il genero – “ Accumula, accumula soldi, ma non illuderti di vivere in eterno. Stai attento che da un momento all’altro non paghi i tuoi peccati tutti in una volta…” E così via, tra insulti e minacce. Molly aveva avuto paura di essere sorpresa ad origliare ed era scappata via. Mi ha poi detto che una volta alla settimana, sempre di mercoledì, Jenkins indossa un lungo impermeabile chiaro, un cappello che gli scende sulla fronte, come se volesse camuffarsi, e se ne va. Una volta, per puro caso, mentre si recava a casa di una sua amica (era il suo giorno libero), Molly ha visto Jenkins così conciato imboccare Sunford Road e perdersi tra le catapecchie che la popolano.”

“Sunford Road!” - Pitt era sbalordito - ”Sunford Road è la via più malfamata di Londra, un posto in cui riescono a vivere solo i disperati della peggior specie. Che cosa va a fare Jenkins in Sunford Road? Ma un momento: lì si possono trovare anche individui che per cinque sterline sgozzerebbero la loro madre…Uhm, credo proprio che approfondirò questa storia. Il mercoledì, dunque, Jenkins se la svigna per ignoti lidi e domani è giusto mercoledì. Sergente, domani mattina lei sarà  impegnato. Dalle sette in poi, si piazzi all’ingresso di Sunford Road e non si faccia scappare Jenkins, se dovesse comparire. Gli stia alle calcagna e scopra che cosa lo chiama in quella via dalla reputazione pessima. Quando avrò finito, ci troveremo al posto di polizia Io, intanto, tornerò qui a sentire Montrose, anche se non mi aspetto di scoprire niente di importante. Adesso andiamo a cercare Talbot e filiamocela. Per oggi abbiamo fatto abbastanza e poi senza autopsia non possiamo muoverci. Spero che il dottor Taylor mantenga la promessa e ci faccia avere il referto entro domani.”

Nel corso della ventina di minuti successivi, Pitt ascoltò il rapporto, molto scarno, di Talbot, predispose i piani per l’indomani ed incaricò l’ispettore di un paio di incombenze: telefonare al dottor Taylor per sollecitare l’autopsia di Ryerson ed interrogare la servitù per cercare di scoprire quali erano i rapporti tra il morto e i suoi ospiti.

“Se vuoi scoprire quale atmosfera si respira in una casa, devi chiedere al personale di servizio” sentenziò Pitt con un sorriso, ricordando una delle tante regole auree che gli aveva insegnato il suo vecchio istruttore alla Scuola di polizia. E con questo, salutò i due sottoposti e si avviò verso casa.

La serata si preannunciava calma e serena, così il detective preferì farsi a piedi la strada che lo separava dalla sua abitazione. Nell’ultima luce  del crepuscolo avanzato, Pitt si incamminò per la strada affollata, immettendosi nella fiumana di persone dirette all’ingresso del teatro, le cui luci ancora lontane invitavano i londinesi a svagarsi con un ben pubblicizzato spettacolo di music hall. Le vetture di piazza si fermavano e altra gente faceva diventare più densa la folla. Venditori ambulanti offrivano dolciumi, bibite, focacce calde, fiori e gingilli. Con un moto di orgoglio per il coraggio dei suoi concittadini, Pitt rifletté che Londra si rifiutava di farsi mettere in ginocchio dalle restrizioni della guerra, dalla paura dei bombardamenti e dall’angoscia che sempre accompagnava la domanda che tutti si ponevano: quando finirà?    (Continua…)

 

 

Condividi post
Repost0
25 settembre 2012 2 25 /09 /settembre /2012 10:19

Thomas Pitt si chiese per l’ennesima volta che fine avesse fatto il sergente Samuel Tellman, il suo più fidato collaboratore. Quasi tre ore prima lo aveva spedito a Lodge Manor, una grande villa che sorgeva in un sobborgo elegante di Londra, non lontano dal fiume, dove il padrone di casa era morto quella mattina stessa in circostanze misteriose.  Il colonnello Woodside, il diretto superiore di Pitt, lo aveva convocato nel suo ufficio per comunicargli la notizia, ordinandogli di mandare qualcuno della sua squadra a Lodge Manor:  provvedesse a raccogliere  discretamente informazioni sull’accaduto, senza che la polizia locale considerasse la cosa un’intrusione nel proprio territorio, e ritornasse sollecitamente a riferire. Pitt aveva subito fatto chiamare il sergente Tellman e gli aveva affidato il delicato compito, raccomandandogli di agire con tatto e discernimento. Il graduato era partito con aria solenne, fiero di aver ricevuto un incarico che considerava molto importante, e Pitt era rimasto alla sua scrivania, accingendosi a sbrigare un po’ della posta arretrata che in due soli giorni si era ammucchiata considerevolmente.

Otto mesi prima, Thomas Pitt era stato promosso sovrintendente (“il più giovane della storia di Scotland Yard” aveva acidamente commentato un vecchio collega che aspettava da anni quei gradi) ed immediatamente trasferito  al Reparto Speciale, che un altro funzionario invidioso amava definire “il deposito dei cervelli”. Pitt era un uomo snello ma non certo magro, alto, con capelli scuri molto folti, spruzzati di grigio alle tempie. I suoi occhi, vigili e attenti, solitamente chiari, sotto la spinta delle emozioni diventavano così cupi da sembrare quasi neri. Fino a quel momento i casi ai quali aveva lavorato per il Reparto Speciale erano in larga parte azioni preventive tendenti a combattere contro qualsiasi minaccia alla sicurezza del Paese, ivi compresa quella dello spionaggio. Ma più spesso i membri dell’organizzazione governativa venivano chiamati a neutralizzare individui che, abbracciata la bandiera dell’anarchia, potessero creare guai sotto forma di  violenze, intimidazioni e disordini mestando nel torbido ed aizzando i miserabili che soffrivano più di tanti altri i sacrifici ai quali la guerra costringeva gli inglesi e i londinesi in particolare. Normalmente, il Reparto non si occupava di omicidi, ma c’erano casi, come appunto quello di cui Tellman era andato ad informarsi, che richiedevano l’intervento di tutte le menti più acute di cui la polizia disponeva. Ogni tanto, però, la memoria del giovane sovrintendente tornava con profonda nostalgia ai tempi passati, quando le giornate erano piene di imprevisti e a lui non pareva di essere diventato un perfetto burocrate che pianificava le operazioni a tavolino e spesso poteva addirittura prevedere come si sarebbero svolte e concluse.

Un colpo discreto alla porta dell’ufficio lo distolse dalle sue fantasie.  Il funzionario pronunciò uno spazientito “avanti”  e la porta si aprì, lasciando passare Tellman. Il nuovo arrivato, un uomo di media statura dalla figura robusta e asciutta, aveva uno sguardo franco e aperto come il suo sorriso un po’ fanciullesco. Il sergente si fermò davanti alla scrivania, assunse un atteggiamento di dignitosa deferenza e, alla muta domanda del suo superiore, cominciò a sciorinare il suo rapporto:  

“Signore, torno adesso da Lodge Manor, la residenza del defunto ed ecco quello che sono riuscito ad appurare. Il morto è Saville Ryerson, ex comandante del Corpo di spedizione inglese in Egitto allo scoppio della guerra. Tornato qui da noi, aveva organizzato e diretto, purtroppo fino a stamattina, una efficiente Sezione di Controspionaggio, che si era subito affermato per gli ottimi risultati ottenuti. Arrivato sul posto, ho trovato un ispettore, un certo Talbot, ed un suo subordinato, l’agente Morris, entrambi del distretto di polizia di zona, che avevano già proceduto ai primi accertamenti, tanto che la salma di Ryerson è già stata trasferita all’obitorio per l’autopsia. Non posso dire che l’ispettore e il suo aiuto abbiano fatto salti di gioia nel vedermi, ma devo riconoscere che sono stati abbastanza collaborativi. Talbot mi ha raccontato una storia che si fatica a credere, ma sembra proprio che corrisponda a verità.” Tellman spostò il peso del corpo sull’altro piede e Pitt gli fece cenno di sedersi, invito che il sergente accettò rosso di piacere . Poi continuò:

“Il generale Ryerson alle sette precise di ogni mattina, con qualsiasi tempo, andava a fare visita alla tomba della moglie, allestita in fondo al bosco, quasi sotto il muro di cinta che dà sul lungofiume…sì, sovrintendente, la moglie di Ryerson riposa in pace in un angolo della sua casa terrena…” – spiegò Tellman, notando che Pitt aveva fatto una faccia meravigliata. Il funzionario sorrise leggermente, poi disse:

“Sergente, lei è un poeta. Vada avanti.” Tellman non capì a che cosa si riferisse il suo superiore, ma preferì soprassedere e continuò:

“Deve sapere che il sentiero che attraversa il bosco parte da un lato della villa, la quale, poi lo vedrà, sorge al centro di quattro zone, chiamiamole così, di diversa natura: davanti ha un vasto spiazzo ricoperto di finissima ghiaia; ai lati si allungano due grandi porzioni di terreno adibite a  giardino che fiancheggiano il lungo viale piastrellato che unisce il cancello d‘accesso alla casa; dietro l’abitazione c’è un folto bosco che arriva fino al muro di cinta dalla parte del lungofiume. Stamattina, verso le sette e trenta, Ryerson stava dunque tornando a casa, dopo la visita alla tomba della moglie. Percorre il sentiero del bosco, svolta l’angolo dell’edificio ed entra nel piazzale ghiaioso che si trova davanti l’entrata. Lo vedono arrivare in quattro persone: Nash, un ospite del generale, che in quel momento è in piedi sulla porta di casa; Larraby, un altro ospite, che sta fumando una pipa seduto ad un tavolino da campeggio sistemato su un pezzo di prato di fronte alla facciata della villa; il giardiniere, che sta lavorando nel giardino a destra della casa; la cuoca, che sta raccogliendo verdure per il pranzo in un piccolo orto ricavato dietro il giardino a sinistra dell’abitazione. In altre parole, Ryerson, entrando nel piazzale, entra in una specie di quadrato sorvegliato su ogni lato da una persona. Il generale, come noteranno un po’ tutti, cammina lentamente, con passo rigido, e si comprime il torace con una mano. Ad un tratto, quando ha quasi raggiunto il centro dello spiazzo, barcolla e cade a terra. Nash è il primo a rendersi conto della gravità della cosa e corre ad aiutarlo. Subito dopo arriva Larraby. Ryerson apre per un momento gli occhi, guarda Nash e mormora una strana frase che Talbot, l’ispettore di polizia che ho trovato a Lodge Manor, mi ha dettato. Scusi, l’ho messa da qualche parte…” 

Tellman intanto si frugava ansiosamente nelle tasche, finché non estrasse dal taschino del panciotto un foglietto sul quale era appuntata una frase all’apparenza incomprensibile:

“Ecco qui, sovrintendente. La frase dice: uomo non cercate nessun colpevole. Se devo essere sincero, per me è cinese. Subito dopo aver pronunciato quelle parole, Ryerson reclina il capo e resta immobile. I due uomini tentano invano di rianimarlo. Entrambi sono convinti che si tratti di un infarto, ma quando Larraby sposta un lembo del giaccone  ed infila una mano sotto la camicia per sentire il cuore, la ritira sporca di sangue! I due sono sbigottiti, ma ritrovano ben presto la lucidità sufficiente per muoversi nella giusta direzione. Nash si alza di scatto e corre in casa per telefonare al medico di famiglia, mentre Larraby sosta accanto al morto. Dopo quella che sembra una lunga attesa, arriva il dottor James Taylor, seguito a breve distanza dall’ispettore Talbot  e da un suo agente, che Nash ha chiamato quando ha visto il sangue sulla mano di Larraby. Taylor esegue immediatamente un esame preliminare e, quando scopre il torace di Ryerson, trova che è coperto di sangue, colato da un piccolo foro  presente dalla parte del cuore. Il dottore e gli altri stentano a credere a quello che vedono, ma la logica conclusione è una sola: qualcuno, non si sa come né quando, ha pugnalato a morte  Saville Ryerson con un oggetto sottile e molto affilato. Ma in quale momento è successo? Talbot comincia a raccogliere le prime deposizioni di Nash e Larraby (viene così a sapere della frase), poi chiama due agenti perché portino via la salma di Ryerson e la trasportino all’obitorio, a disposizione del dottor Taylor per l’autopsia. Nel frattempo arrivo io e cerco di mettere insieme più informazioni possibile, nel caso potessero servire al nostro Reparto. E credo proprio che serviranno, se posso permettermi di dirlo.”

Tellman chiuse il taccuino che aveva tenuto in mano per tutto il tempo e guardò il suo superiore, in attesa di ordini. Pitt rifletté per qualche istante e brontolò:

“Davvero un bel grattacapo da risolvere! Speriamo che non lo rifilino a noi, ma ho paura che il colonnello non si farà sfuggire l’occasione di andare a caccia di gloria. Mah, andiamo a sentire cosa ci riserva il destino. Lei, Tellman, non si muova di qui. È molto probabile che si debba partire al più presto.” 

Mentre si avviava verso l’ufficio di Woodside, Pitt si chiedeva con quale umore sarebbe stato accolto da parte del capo del Reparto. Bussò alla porta, attese l’autorizzazione ad entrare e un attimo dopo si trovava nella stanza. Woodside era in piedi, davanti ad una grande topografica di Londra e stava cerchiando con una matita rossa la zona di Lodge Manor, segno la tragedia l’aveva colpito a fondo. Senza voltarsi, fece cenno a Pitt di accomodarsi in una poltrona davanti alla scrivania, restò ancora per un paio di minuti a contemplare cogitabondo quel particolare sobborgo della metropoli, poi, con un sospiro, ordinò:

“Rapporto”. Così, senza un minimo di convenevoli. Ma come poteva aver indovinato che l’uomo spedito sul posto dal sovrintendente fosse già tornato con le notizie attese?

“Forse è per questo che lui è il capo della baracca ed io un elemento intermedio…” ridacchiò Pitt, attento a non far trapelare nulla dalla sua espressione.

Il colonnello George Woodside era famoso per le sue maniere brusche. Il capo del Reparto Speciale era un pezzo d’uomo alto, ben piantato, spalle larghe e mascella quadrata, simbolo di vigore fisico: una figura singolare con l’antipatica tendenza ad impartire ordini tassativi, aspettandosi che venissero eseguiti all’istante. Una capigliatura folta e ormai bianca, che nei momenti di malumore egli agitava come una criniera, gli conferiva un aspetto patriarcale, accentuato dal portamento eretto e da un paio di severi occhi azzurri che, quando non fulminavano il malcapitato di turno, sapevano anche ammorbidirsi in certi sorrisi dolci che lasciavano interdetto chi era abituato a vederlo costantemente aggrondato. Possedeva un’energia e una vitalità tali da sfiancare chiunque si trovasse a competere con lui. Quando si alzava al mattino si dedicava al presente come se il passato si fosse cancellato nelle ore notturne e il futuro si concentrasse nelle successive ventiquattr’ore. Nei suoi confronti Pitt provava un miscuglio ambivalente di ostilità e di riottosa ammirazione. Però ne rispettava profondamente l’onestà intellettuale e la diamantina integrità morale.

In quel momento, il suo sguardo grave era puntato su Pitt, come se Woodside lo sospettasse di aver organizzato tutta quell’incresciosa faccenda all’unico scopo di procurargli un’infinità di seccature. Il sovrintendente decise di essere a sua volta conciso e riferì in breve quanto aveva saputo dal suo sergente, senza ovviamente tralasciare nulla. Il colonnello lo lasciò parlare senza mai interromperlo, poi lo informò con ben simulata indifferenza che Scotland Yard aveva ritenuto opportuno mettere il caso nelle mani del Reparto Speciale, spiegando che i lusinghieri successi raggiunti da Pitt quando si era occupato di controspionaggio autorizzavano a supporre che anche in  questo delicato caso il suo apporto sarebbe stato determinante per far luce sull’accaduto. Ascoltata qualche altra raccomandazione dal suo burbero capo, Pitt si congedò. 

Poco dopo una macchina senza contrassegni, con Tellman alla guida, sbucò da un’uscita secondaria del vasto cortile interno del Reparto e si immise nel traffico della città. Il sergente guidava con calma e padronanza, ma ogni tanto gettava al suo superiore un’occhiata furtiva: era evidente che aveva tanta voglia di porre una domanda precisa, ma non trovava il coraggio di farlo. Pitt si divertì per un po’ a tenerlo sulle spine, poi gli comunicò  che, per volontà degli alti gradi di Scotland Yard, la responsabilità delle indagini passava interamente sulle spalle del Reparto Speciale, cioè di loro due, i quali avevano la facoltà di chiedere in qualsiasi momento l’appoggio della polizia metropolitana.

Il resto del viaggio si svolse in silenzio, rotto solo da qualche imprecazione  che Tellman lanciava tra i denti ora ad un monello che sfrecciava all’improvviso davanti al muso della macchina, ora a qualche carro che invadeva senza preavviso la corsia di marcia seguita al mezzo della polizia, costringendo l’esasperato sergente a virtuosismi di guida fuori programma. Meno di un’ora dopo, la vettura si arrestò davanti ad una costruzione imponente. che si innalzava su una piccola altura, mentre il terreno circostante era completamente piatto. Circondata da un alto muro in pietra che la recingeva in tutto il suo perimetro, la villa sorgeva arretrata rispetto alla strada di circa  un centinaio di metri e non aveva davanti né cespugli, né alberi. Tellman diresse l’autovettura verso il cancello d’ingresso, procedendo lentamente per evitare di investire qualcuno dei tanti giornalisti che sembravano essersi acquartierati sul piazzale, tenuti a bada da un baffuto ed inflessibile policeman.         

Il viale pavimentato con larghe pietre squadrate, ampio e contrassegnato da numerose curve, che congiungeva  il cancello d’ingresso con l’abitazione, era fiancheggiato da aiole   adorne di fiori e ciuffi di cespugli sempreverdi, che si estendevano fino ad abbracciare i due lati dell’edificio, per poi ricongiungersi, sul retro dell’edificio, a profilare i contorni  di un frondoso boschetto che occupava la parte posteriore della elegante dimora. In quel largo tratto di terreno, la densità di vegetazione era notevole e i raggi del sole, penetrando tra il fogliame delle betulle che svettavano molto più in alto, creavano suggestivi giochi di luce  nell’ombra screziata proiettata da arbusti di alloro e cespugli di rododendro. In fondo al bosco, in posizione nascosta,  un piccolo recinto incorniciava una tomba. La foto sulla lapide rimandava il dolce sorriso, fisso per l’eternità, di una giovane donna bionda molto bella: Beatrice Vinton Ryerson. A poca distanza da quella singolare sepoltura, un cancelletto dalla vernice scrostata era incastonato nel muro e sboccava sul lungofiume. Da quel cancelletto prendeva l’avvio uno stretto sentiero in terra battuta che si snodava ai piedi del muro di cinta e giungeva fino al grande cancello d’ingresso, completamente nascosto alla vista altrui per tutto il suo tracciato da una siepe di mortella, alta e compatta.  La facciata della casa era esposta ad oriente e un raggio di sole la illuminava obliquamente, come un riflettore. In cima ad otto larghi scalini di marmo spiccava la porta d’ingresso dell’abitazione. Era costruita con legno di robusta quercia e ornata di eleganti guarnizioni in ferro battuto.  La macchina dei due investigatori si fermò nel grande spiazzo ghiaioso che si allargava davanti all’entrata della villa e Pitt ed il suo compagno scesero, dando una veloce occhiata intorno. L’edificio si presentava proprio come l’aveva descritto Tellman e l’attenzione di Pitt si appuntò sul bosco.

“Se le cose erano andate come avevano raccontato i testimoni, quel bosco diventava molto importante” rifletté il sovrintendente, che non perse tempo ulteriormente: si volse al sergente e gli impartì alcune disposizioni. Tellman gli rivolse uno sguardo esitante, ma non osò obiettare e partì per eseguire gli ordini ricevuti. Dopo un’ultima, veloce occhiata circolare, Pitt salì agilmente i gradini della corta scala. Nel frattempo,la porta si era aperta e sulla soglia si era materializzato un flemmatico maggiordomo, il quale, accertatosi dell’identità del nuovo arrivato,  si affrettò a farlo entrare in un grande atrio in ombra, pavimentato di mattonelle di un rosso opaco. Preceduto dall’imperturbabile maggiordomo, Pitt percorse un lungo corridoio ed entrò in una stanza che dava su una parte del giardino. Era un soggiorno arredato con molto gusto: un divano di broccato, due poltrone a dondolo, tre o quattro sedie copie perfette di modelli alla moda e una scrivania con un lucidissimo ripiano mirabilmente ordinato. Completavano l’arredamento uno scaffale con quattro ripiani zeppi di libri e alcuni quadri di soggetti eterogenei. All’arrivo del sovrintendente, due uomini, che si trovavano nel locale, si voltarono a fissarlo con interesse, dando così modo a Pitt  di osservare  un uomo robusto e ben piantato, sulla cinquantina, dai capelli scuri, di media statura, spalle larghe e squadrate.  Da qualcosa nell’occhiata che l’altro gli aveva lanciato, il sovrintendente dedusse che si trattava dell’ispettore Talbot. Ma notò anche qualche altra cosa che al momento lo sconcertò alquanto: nell’espressione di Talbot si poteva leggere un pressante desiderio di approvazione da parte dei suoi superiori, poiché l’ispettore non possedeva quella capacità di pensare presto e bene, indispensabile nel suo lavoro. Sapeva eseguire gli ordini in maniera efficiente, questo sì, era affidabile e coscienzioso, ma mancava di iniziativa. Pensare, insomma, non era il suo forte. L’agente Morris, più basso del suo superiore, aria leggermente stolida, era accoccolato davanti ad un basso mobiletto e stava ammucchiando ordinatamente sul pavimento fasci di carte che ne estraeva. Alla vista dei suoi colleghi della polizia, negli occhi di Talbot passò un lampo di insofferenza e il tono con il quale si rivolse a Pitt non era certo quello di uno schietto benvenuto:

“Il signor Pitt, presumo” motteggiò con una certa aria sfottente, ma immediatamente dopo il suo viso si colorò di uno spettacoloso rosso vermiglio. Pitt, infatti, aveva assunto un’espressione feroce e i suoi occhi, scuriti dalla rabbia, crepitavano di un bagliore elettrico, mentre  lanciava al malcapitato graduato un’occhiata tanto sulfurea da fulminare un basilisco:

“Sono il sovrintendente Thomas Pitt, inviato qui dal mio comandante di Reparto, il colonnello Woodside, dietro richiesta di Scotland Yard. E credo che lei sia l’ispettore Talbot che ha ricevuto l’ordine di collaborare con me allo svolgimento delle indagini. Sbaglio?”

“Affatto, signore, è tutto esatto ed io sono lieto mi mettermi a sua completa disposizione” la voce di Talbot tentava di recuperare qualche barlume di sicurezza, mentre il paonazzo del viso si avviava a virare verso il pallido. Pitt decise di alleggerire l’atmosfera e di cancellare qualsiasi traccia di ostilità che avrebbe potuto essere di ostacolo al difficile lavoro che attendeva la polizia. Si avvicinò all’altro, gli tese la mano e, sfoggiando un amichevole sorriso, gli disse:

“Bene, Talbot, benvenuto nella squadra. Lasciamo perdere le formalità e mi chiami semplicemente Pitt. Mi ha accompagnato il sergente Tellman, che lei già conosce e che si è allontanato per eseguire certe ricerche, ma sarà qui a breve. A lei chiederò collaborazione continua, che sono sicuro saprà darmi con solerzia e competenza, e l’intervento di uomini della sua Divisione, ogni qualvolta se ne presentasse la necessità. E adesso mettiamoci al lavoro. Grazie alla relazione che lei ha fatto al sergente, io so già come sono andati i fatti nelle linee essenziali, quindi non ci resta che iniziare con gli interrogatori delle persone presenti in casa. Per ascoltarli, useremo questa stanza. Mentre io avverto il maggiordomo che occuperemo il locale, lei, per favore, vada a cercare…come si chiama quello che ha soccorso Ryerson per primo…ah, sì Nash: cerchi Nash e lo preghi di raggiungermi qui.”

Talbot, felice e ringalluzzito per la piega che aveva preso l’incontro, uscì sveltamente per eseguire la sua missione. Pitt mandò allora Morris a chiamare Stevenson, il maggiordomo, al quale il funzionario comunicò che per qualche ora si sarebbe fermato in quella stanza per parlare con i signori ospiti. L’esperto servitore non mosse muscolo: si informò con disinvolta compostezza se Pitt avesse bisogno di qualcosa e, alla risposta negativa, si allontanò mormorando un ringraziamento. Cinque minuti più tardi si udì un colpetto all’uscio che fu aperto immediatamente dopo da una persona che ristette un attimo per volgere intorno lo sguardo, poi entrò. Era un uomo dalla figura scarna e asciutta, un po’ curva, che si muoveva con una garbata eleganza che rendeva difficile calcolare la sua età. Il grigio dei capelli, la voce sottile e le mani così bianche che risultavano quasi trasparenti,  inducevano però a supporre che avesse superato la cinquantina.

“Mi chiamo Richard Nash e lei dev’essere il sovrintendente Pitt. Voleva vedermi?”

“Sì, signor Nash, grazie di essere venuto. Si accomodi, prego” Ad un cenno di Pitt, il distinto gentiluomo si calò con delicatezza su una sedia, accavallò le gambe e si dispose ad ascoltare l’interlocutore con un’espressione annoiata sul volto ascetico, che a Pitt non piacque affatto. Il sovrintendente ostentò un certo cipiglio, ma decise di mantenere la calma:

“So che lei è stato il primo a soccorrere il suo amico generale, quando lo ha visto cadere nel piazzale. Da dove era arrivato, a proposito?”

“È giunto dal bosco, come faceva ogni mattina a quell’ora.”

“Quando ha svoltato l’angolo della casa, era solo?”

“Sì.” Nash confermò, laconico.

“Non spreca certo le parole, l’amico” pensò Pitt, che disse:

“Lei si trovava sulla porta di casa, quando è spuntato nel piazzale Ryerson. Come mai era in piedi così presto?”

“Io mi alzo sempre presto, sovrintendente, abitudine presa sul lavoro. E prima che mi chieda di che lavoro si tratta, le dirò che ogni giorno entro alle otto precise nell’ufficio della mia fabbrica, su a Manchester, in cui fabbrichiamo aeroplani da guerra e da trasporto. Ryerson era mio socio e mi aveva invitato a trascorrere un po’ di giorni a casa sua.”

Pitt guardò Talbot con l’aria di dire: adesso lo distruggo, questo qui! La sua professionalità, però, prese per fortuna il sopravvento e l’interrogatorio proseguì in un’atmosfera abbastanza serena:

“Signor Nash, mi ripete la frase che ha pronunciato Ryerson prima di morire?”

“La ricordo ancora, anche se francamente mi è sembrata piuttosto strana. Tanto per cominciare mi ha chiamato Burton, non so perché, poi, con grande fatica e distanziando le parole, ha detto: Burton attenzione uomo non cercate nessun colpevole. Se le occorre una conferma, può chiedere a Larraby: era nello spiazzo anche lui e si è avvicinato quando ha visto  Saville cadere.”

“Lo farò. Un’ultima domanda: può immaginare perché il generale Ryerson è stato ucciso, oppure chi avesse seri motivi per fargli del male?”

“Signor Pitt, non riesco a ricordare nessun’altra persona di mia conoscenza che meritasse meno di Saville Ryerson una fine simile.”

La risposta arrivò senza esitazioni. Ma perché Pitt ebbe l’impressione che in fondo agli occhi di Nash passasse un lampo di beffardo compiacimento, mentre pronunciava parole tanto solenni? Si divertiva, forse?

“Grazie, signor Nash, per adesso ho finito. La disturberò ancora, se dovessi averne bisogno.” L’industriale si alzò, chinò la testa di un centimetro in un accenno di saluto che includeva anche Talbot e fece qualche passo verso la porta. Ma, prima di varcarla, si voltò e chiese:

“Sovrintendente, posso farle io una domanda?”

“Prego, signor Nash.”

“C’è un particolare, in tutta questa storia, che ha mi ha incuriosito, e direi anche impressionato. Stamattina, ero sulla porta d’ingesso e ho visto tutto dal primo all’ultimo minuto. Ho visto Ryerson svoltare l’angolo della casa, l’ho visto arrivare fin quasi al centro del piazzale, l’ho visto cadere di schianto all’improvviso. Nessuno l’aveva avvicinato, era perfettamente solo in quel maledetto spiazzo: allora, come hanno fatto a pugnalarlo?”

Pitt sostenne per un lungo attimo lo sguardo dell’altro improvvisamente vivace, poi scosse la testa:

“Signor Nash, se sapessi questo sarei ad un passo dal mettere la mano sulla spalla dell’assassino. Al momento è tutto piuttosto nebuloso e non le nascondo che mi aspetto di dover affrontare molte difficoltà, prima di fare luce completa sull’accaduto. Ma sono altrettanto sicuro che riuscirò a venire a capo di questo guazzabuglio. Arrivederci,  Nash, e grazie ancora per la collaborazione.”

L’industriale fece ancora un cenno con la testa e questa volta uscì senza voltarsi indietro.

 Pitt fissò accigliato la porta chiusa, borbottando:

“Per amor di Dio, adesso ci manca soltanto che si sparga la voce dell’assassinio misterioso! Vedo già i titoli dei giornali: Il delitto del fantasma di Lodge Manor…Come è stato pugnalato il generale  nel centro deserto di un piazzale?  E pensare che la spiegazione è semplicissima…Lei che ne pensa, Talbot? È d’accordo con me che è stata una conversazione quasi inutile per i nostri scopi?”

“Certamente Nash non ci ha fornito alcun elemento su cui lavorare…almeno mi sembra. Ma lei davvero sa come è stato commesso il delitto?”

Pitt capì che Talbot cercava semplicemente di compiacerlo, sospirò e gli chiese  di cercare Larraby. Qualche minuto dopo nella stanza entrò un uomo non alto, ma ben piantato e nero di capelli, un paio di baffetti marroni sulle punte, che camminava con un’andatura eretta. Nel complesso, aveva un aspetto gradevole. Indossava un abito scuro su cui spiccava una camicia bianca.

“Signor Jerry Larraby?” chiese gentilmente Pitt. E al cenno di assenso dell’altro, lo pregò di sedersi.

“Signor Larraby, solo qualche domanda. So che stamattina era nel prato di fronte alla casa, quando ha visto arrivare Ryerson. Veniva dal bosco, vero?”

“Sì, signor Pitt. Io mi ero alzato abbastanza presto perché la pioggia mi infastidisce e sentirla tamburellare sui vetri, come faceva stamattina, mi aveva innervosito. Ho resistito nel letto finché ho potuto, poi mi sono alzato poco dopo le sette e ho visto che aveva quasi cessato di piovere. Non mi andava di ritornamene a dormire e così, per non disturbare la servitù che stava preparando la colazione delle nove, sono andato a sedermi  nel grande gazebo, che lei avrà certamente visto nel prato di fronte alla facciata della casa, deciso a fumare la prima pipa della giornata.” Istintivamente, Pitt guardò le punte dei baffi di Larraby, di color marrone per il fumo, e tornò subito ad ascoltare l’altro che stava dicendo:

“Mentre ero lì, ho visto arrivare Nash sulla porta d’ingresso e trattenervisi. Ci siamo scambiati un saluto e subito dopo ho visto Ryerson che svoltava l’angolo, provenendo dal bosco, ed ho capito che era andato a pregare sulla tomba della moglie, come fa ogni giorno. Camminava lentamente, con una certa circospezione, ma l’ho attribuita alla difficoltà di muoversi senza scivolare sulla ghiaia bagnata. All’improvviso, invece, proprio al centro del piazzale, l’ho visto accasciarsi a terra. Mi sono alzato per soccorrerlo, ma Nash è stato più svelto di me. Quando sono arrivato al suo fianco, Ryerson aveva afferrato un braccio di Nash e, chiamandolo stranamente Burton, stava pronunciando una bizzarra frase che diceva, più o meno: attenzione uomo non cercare nessun colpevole. Un attimo dopo, Ryerson era morto.”    

“Mi dica, Larraby, ha per caso visto qualcuno nel bosco, mentre c’era anche Ryerson?”

“Mi sembra di averle detto, sovrintendente, che io ho visto il generale svoltare l’angolo, ma dal posto in cui mi trovavo non mi era possibile spaziare con la vista sul bosco. Forse la cuoca era in una posizione migliore della mia.”

“Bene, signore, un’ultima cosa. Anche lei era stato invitato qui per trascorrervi qualche giorno di vacanza?”

“Non proprio, signor Pitt. Io mi trovavo in questa casa per aiutare Ryerson a scrivere le sue memorie”.

“Anche quest’altro risparmia mica male sulle parole” pensò amaramente Pitt. Però non fece trapelare una virgola del suo dispetto e chiese ancora:

“Signor Larraby, può dirmi che ida si è fatta sull’omicidio di Ryerson? Sa se aveva qualche nemico particolarmente irriducibile?”

“No, sovrintendente, Ryerson non aveva un nemico al mondo, che io sappia, e non riesco proprio a spiegarmi chi potesse odiarlo tanto da arrivare ad ucciderlo. E in quel modo così misterioso, poi!”

Larraby aveva parlato in tono assolutamente tranquillo, senza la minima emozione, e Pitt non poté fare a meno di notare che sembrava del tutto indifferente alla tragedia appena accaduta:

“Ma come sono tutti freddi e controllati!” rifletté ironicamente l’investigatore. Stava per congedare lo scrittore, quando questi fece una risatina assolutamente incongruente e disse, rivolgendosi ad un disorientato Pitt:

“Lo sa, sovrintendente, che tutta la situazione sembra uscita da un mistery, un libro incentrato su omicidi e relative indagini? Un uomo si trova al centro di uno spiazzo completamente vuoto e all’improvviso crolla al suolo sotto gli occhi di ben quattro testimoni presenti ad una certa distanza. Accorrono gli aiuti, arriva un dottore che visita il poveretto, nel frattempo deceduto, e scopre che qualcuno lo ha pugnalato a morte. Ma come può essere accaduto? Nessuno si è avvicinato alla vittima e non c’è traccia dell’arma del delitto. Sembra una di quelle trame rese famose da un fantasioso scrittore americano, John Dickson Carr, che gli appassionati del genere poliziesco definiscono «i delitti della camera chiusa». Lei ha per caso letto qualcuno di quei libri, sovrintendente?”

“No, signor Larraby, non mi piacciono, mi basta quel tanto di delitti che mi riserva la realtà giornaliera.” Rispose Pitt, leggermente impermalito dal sorrisino sardonico con cui lo scrittore lo stava guardando.

Quando Larraby fu uscito, Pitt si alzò e fece due passi nella stanza, fermandosi di fronte alla finestra. Dal suo angolo di visuale vedeva il giardiniere che continuava a trapiantare fiori nell’aiuola e decise d’impulso di andarlo a sentire. Magari sarebbe anche riuscito a scrollarsi di dosso la delusione provata interrogando quei due…

Il giardiniere, all’arrivo di Pitt e di Talbot, si strofinò le mani ricoperte dai guanti in un gesto che denotava tutta la sua agitazione e guardò ansiosamente dalla parte dei due poliziotti. Pitt comprese che doveva assolutamente metterlo a proprio agio. Gli sorrise, si presentò compitamente, poi presentò Talbot e chiese che tipo di pianta fosse quella che l’uomo stava infilando in una buca del terreno. Il giardiniere factotum, un uomo massiccio, dalla carnagione scura che rispondeva al nome di Adam Nelson, spiegò con dovizia di particolari che quello era un ligustro, un arbusto molto ramificato e con fiori bianchi odorosi che in breve si sarebbe allargato fino a dare inizio ad un siepe. Proseguì indicando con orgoglio gli altri trapianti che aveva fatto nel corso di  quella mattinata e Pitt colse la palla al balzo:

“A proposito, sa dirmi che cosa ha visto stamattina? Magari qualcosa che l’ha colpita particolarmente?”

Nelson corrugò la fonte nello sforzo evidente di raccogliere i pensieri, poi raccontò più o meno quello che Pitt già si era sentito ripetere da Nash e da Larraby: l’arrivo di Ryerson sul piazzale, la sua caduta e l’aiuto che gli avevano portato i due uomini.

“Mi è sembrato che il signor Ryerson dicesse qualcosa, ma  ero troppo lontano per capire le parole. Ho tentato di avvicinarmi, ma il signore alto e magro mi ha detto di tornare al mio posto, poi è corso in casa, mentre l’altro signore con la pipa restava accanto al padrone. Poco dopo è arrivato il dottore e infine la polizia” – così dicendo Nelson lanciò un’occhiata di sottecchi a Talbot. No, non aveva visto nessun nel piazzale o intorno alla casa, oltre ai due signori e alla cuoca, che stava trafficando nell’orticello coltivato dalla parte opposta in cui si trovava Nelson. Pitt ringraziò il giardiniere e decise di andare a cercare personalmente la cuoca. Seguito dall’ispettore, rientrò in casa e si diresse verso la cucina, indicatagli dall’onnipresente maggiordomo che gli era comparso davanti nel corridoio. I due bussarono alla porta socchiusa per annunciarsi ed entrarono, finendo sotto lo sguardo freddo ed indagatore di un donnone dall’aspetto mascolino, con un colorito sano e un’espressione severa, della quale si serviva per intimorire la giovane sguattera che, secondo lei, pensava troppo ad un certo giovane e troppo poco al suo lavoro. Fumatrice accanita (ma soltanto nel tempo libero, come teneva a precisare), mandava avanti il suo piccolo regno con il piglio di un sergente istruttore dell’esercito. Era, del resto, brava e competente e lo dimostrava la cucina che specchiava, mentre dalle  pentole che gorgogliavano sui fornelli si sprigionava un odorino appetitoso.

Pitt avanzò di qualche passo e si presentò. La donna rispose che si chiamava Edith Palmer e chiese come potesse aiutare il signore. Pitt le chiese:

“Lei, signora Palmer, stamattina presto era nell’orto che si trova in un angolo di terreno quasi sotto il muro di cinta. Dove era arrivato il signor Ryerson, quando lei l’ha visto comparire?”

La cuoca non ebbe bisogno di pensarci troppo su, segno che la circostanza le era tornata spesso alla mente, quel giorno:

“Ho visto il padrone girare l’angolo della casa, arrivando dal bosco che in quel punto è assai folto. Mi è sembrato che camminasse con fatica, con un passo rigido, non so se riesco a spiegarmi. Si premeva una mano sul petto ed è arrivato lentamente fin quasi al centro del piazzale, poi è caduto. Il signore che stava sulla porta di casa, si chiama Nash, è subito corso da lui e così ha fatto anche l’altro signore che fumava la pipa seduto al tavolino nel prato. Io avrei voluto avvicinarmi, ma mi è stato impedito dal signor Nash.”

“E mi dica, signora: dal posto in cui si trovava ha visto qualcuno nel bosco?” Pitt incrociò le dita, era l’ultima speranza di scoprire se Ryerson fosse stato avvicinato da qualche persona mentre camminava nell’intrico della vegetazione. Ma le sue speranze ricevettero una fiera disillusione:

“Nossignore, io non ho visto nessuno, solo il padrone.” E poi, inaspettatamente, la donna sembrò farsi più piccola, gli occhi  le si velarono e lei quasi sussurrò:

“Povero signor Ryerson, non meritava di fare quella brutta morte!”

Pitt rimase sorpreso: era la prima persona che esprimeva un sincero sentimento di dolore per l’uccisione del generale. Salutò la cuoca, imitato da Talbot che non aveva mai aperto bocca, ed uscì dalla cucina, trovandosi faccia a faccia con Tellman che lo stava cercando con un’espressione soddisfatta dipinta sul volto. Pitt gli fece cenno di aspettare a fargli rapporto e si avviò verso la porta, la varcò seguito dagli altri e si diresse verso il viale che collegava la casa al cancello. Lì non c’erano alberi e si poteva parlare liberamente, sicuri di non essere ascoltati da qualche intruso.    (Continua…)

Condividi post
Repost0
18 settembre 2012 2 18 /09 /settembre /2012 17:46

Erano tornati e  si stavano godendo una delle esperienze più incredibili e straordinarie della loro esistenza. Felici come bambini divenuti improvvisamente padroni di un negozio di giocattoli, seduti su una stretta cengia del Gamspitz che si infilava in un intrico di arbusti, i due viaggiatori celesti si riempivano gli occhi con visioni di paesaggi che non avrebbero mai più pensato di rivisitare: la stretta vallata addensata di vegetazione, la traccia sinuosa del Bût, malghe aggrappate ai fianchi delle alture, orti e campi che lottavano contro l’invasione prepotente di alberi e cespugli per conservare il proprio spazio, la lunga fila di case del paese che si snodava tra fiume  e monti. Maria spostava senza tregua lo sguardo da un punto all’altro e, con festosa  avidità, tentava di imprigionare nella sua mente ogni immagine, ogni particolare da conservare gelosamente per l’eternità. Giacomo, più composto ma ugualmente emozionato, sorrideva divertito alle esclamazioni gioiose della sua compagna, tentando di ignorare il velo di tristezza che si insinuava nel suo animo al pensiero delle trasformazioni, non tutti positive, subite da Timau negli ultimi decenni.

“Guarda, Giacomo, guarda che magnifico spettacolo! Com’è cambiato il nostro paese, da quando l’abbiamo lasciato. Case nuove con le facciate tinteggiate di fresco, una distesa di tetti rilucenti sotto il sole e coperti da una selva di antenne televisive mischiate a certe  buffe padelle…a proposito, che cosa sono?”

“Si chiamano parabole e servono a catturare le immagini che poi il televisore trasmette” spiega Giacomo, che ha un amico, ex professore di lettere al liceo di Udine, il quale lo rimpinza di nozioni ed informazioni su qualsiasi argomento.

Maria, intanto, continua il suo viaggio alla scoperta delle novità di Timau:

“E guarda che strade, Giacomo, tutte asfaltate, tutte pulite, anche quelle piccole e strette che sono più che altro un passaggio di collegamento tra la strada interna del paese e la nazionale. Altro che le strade dei nostri tempi, sterrate e senza un filo di catrame, che a camminarci sopra  sollevavi nuvolette di polvere e la sera ti ritrovavi i piedi coperti da una patina indurita di bianco che sembrava un’ingessatura…”

“Maria, forse dovresti tenere conto di una cosa piuttosto importante: sono circa cinquant’anni che tu ed io, a distanza di un mese l’una dall’altro, siamo andati a guardare gli alberi dalla parte delle radici. Vuoi che in tutto questo tempo Timau non si sia abbellito e modernizzato? Case, strade, piazze, tutto è cambiato, tutto è migliorato seguendo il progresso e tu non dovresti meravigliarti tanto.”

Giacomo parla con calma, senza mostrarsi infastidito per il fatto di dover spiegare cose che sono tanto ovvie. Maria, al suo fianco, non si stanca di chiacchierare:

“Però, quanti alberi sono cresciuti sulle pendici delle montagne, nella piana e anche intorno al paese. Chissà che cosa succederà, se continua così.”

“Che un bel giorno le piante busseranno alla porta di qualche casa ed entreranno a bere un caffè!” borbotta Giacomo con un sogghigno.

“Che bella piazza hanno costruito nel Rana! E quella costruzione imponente che spicca di lato non può essere altro che la chiesa di Cristo Re. Guardala lì com’è diventata alta e grossa! Se solo penso ai gerli di sabbia e pietrisco che ho portato dal fiume, sento ancora le spalle indolenzite. Alle cinque del pomeriggio, il Cide suonava la tromba e via tutti, uomini, donne e bambini, a lavorare alla fabbrica, sotto lo sguardo vigile di don Cecatto che ti fulminava se non rigavi dritto. Chissà se l’hanno finita anche dentro…”

“Certo che l’hanno finita anche dentro. Non ricordi come l’ha descritta, e più di una volta, don Pietro Zuiani?  Un gigantesco Crocifisso in legno, scolpito in Val Gardena, la cui croce è alta sei metri, svetta nel coro abbellito da eleganti perlinature; lampadari in bronzo pendono tra le due navate in cui si susseguono cappellette dedicate a Gesù, alla Madonna e ad alcuni santi; un bellissimo altare in marmo carnico fa da mensa eucaristica; sopra il portale d’ingresso è stato fissato un artistico mosaico riproducente Cristo risorto nella gloria…credimi, dev’essere qualcosa di grande.”

Maria l’ha ascoltato con interesse, poi la sua attenzione frulla verso un nuovo obiettivo:

“Giacomo, guarda come si vede bene l’Ossario senza alberi intorno e davanti. Che peccato, però, tagliare anche quei tigli che crescevano lungo il viale! Quanto vorrei dare un’occhiata all’interno, accendere una candela e recitare una preghiera per le anime di quei poveracci che si trovano là dentro, come ero solita fare ogni volta che passavo di lì per andare a falciare l’erba nel Daua, poco più su. Sai se arrivano ancora i pellegrinaggi da fuori e se esiste a tutt’oggi la tradizione di far partire dall’Ossario la fiaccola per Redipuglia?”

Maria non se ne avvede, presa com’è dai ricordi, ma Giacomo le ha scoccato un’occhiata sorpresa nel sentire il vocabolo ricercato usato dalla sua compagna di gita, quel tutt’oggi che non credeva facesse parte del lessico usuale della donna. Non vuole comunque metterla in imbarazzo e reprime l’impulso di fare un commento scherzoso sulle conoscenze linguistiche di lei. Perciò fornisce le informazioni richieste senza ulteriori commenti:

“Sì, ogni anno l’Ossario ospita due o tre visite di comunità della Carnia, nel rispetto della tradizione avviata quando la chiesa si chiamava ancora Santuario del Cristo, e una messa voluta dagli austriaci in suffragio dei loro Caduti che riposano nel Sacrario accanto ai nostri. Il primo novembre, poi, si ripete annualmente la cerimonia della fiaccola che parte da Timau per raggiungere Redipuglia il giorno quattro. In quell’occasione, i presenti  assistono alla sfilata di autorità militari e civili, ascoltano elevati discorsi che celebrano le eccelse virtù guerriere di quegli oltre millesettecento soldati uccisi in guerra, partecipano a tutto il rituale di contorno, fatto di squilli di tromba e ordini militareschi, quindi si assiepano sul sagrato del Tempio e stirano il collo nel tentativo di non perdere un solo momento della cerimonia di accensione della fiaccola e della sua partenza per il Sacrario di Redipuglia. Un quarto d’ora dopo il Tempio Ossario è deserto. La porta sbarrata indica che sono andati tutti via. Sul posto sono rimasti solo i morti, che risentono l’eco delle belle frasi gonfie di trita retorica pronunciate sul loro conto e si chiedono se potranno continuare a starsene in pace nella loro sistemazione, che dura ormai da settantacinque anni, oppure dovranno traslocare al più presto.”

Giacomo si interrompe, pentendosi di aver toccato un argomento che si era ripromesso di non rivelare a nessuno. Guarda Maria di sottecchi, sperando che non sia rimasta particolarmente colpita dalle sue parole, ma si accorge immediatamente che la sua è una speranza vana. La donna lo sta fissando con intensità dolorosa e nei suoi occhi si ingrandisce una domanda pressante: che cosa stai dicendo? Poi, la stessa domanda viene formulata a parole e Giacomo capisce che non più sottrarsi. Deve spiegare e lo fa col massimo tatto:

“Mi dispiace di aver accennato ad una questione così delicata, ma non sono riuscito a trattenermi. Ricordi per caso quel signore romano che ci ha raggiunti sette o otto mesi fa…”

“Quello che è morto di un brutto male alle soglie della pensione?” interrompe Maria, concentrata.

“Proprio lui” – conferma Giacomo – “Un giorno stavamo parlando del lavoro che faceva e ho scoperto che lavorava presso l’Ufficio che si occupa dei Caduti in guerra. Il discorso si è quindi spostato sui Sacrari e lui mi ha rivelato una cosa che mi ha lasciato senza fiato: «Amico mio, prima o poi tanti Sacrari saranno costretti ad autofinanziarsi: a Roma si trovano in difficoltà economiche ed hanno intenzione di tagliare le spese di mantenimento di quei particolari edifici. Corrisponderanno ancora delle somme, ma si tratterà di versamenti limitati, sufficienti unicamente a coprire le piccole spese di ordinaria manutenzione: toccherà invece ai privati responsabili della cura degli Ossari sobbarcarsi i costi delle riparazioni straordinarie».

Questo mi ha detto, più o meno, il nostro collega e puoi immaginare quanto mi abbia fatto male pensare che un giorno qualsiasi il nostro Ossario possa essere abbandonato a se stesso in quanto mancano i soldi per mantenerlo.”

La voce di Giacomo è colma di angoscia.  Maria se ne accorge e soffre con il suo compagno. Poi, con sensibilità tutta femminile, cerca di sdrammatizzare:

“Se ho ben capito, con i soldi mandati da Roma si può sostituire una lampadina fulminata, ma non certo eliminare un’infiltrazione di acqua dal tetto o riparare le campane. Mi interessa però capire se questa diminuzione di somme sarà immediata oppure, per fortuna, è una lontana eventualità.”

L’uomo scuote la testa, accigliato:

“Per la verità, una comunicazione in questo senso è già arrivata alla parrocchia di Timau, che ha preso ufficialmente in carico l’Ossario, e adesso si aspetta di vedere come si regolerà nel prossimo futuro  Onor Caduti, come viene abbreviato il nome dell’ufficio che si occupa dei militari morti in guerra. Ho paura, perciò, che non passerà molto tempo prima che la parrocchia si ritrovi sul groppone l’obbligo di dover provvedere a tutte le esigenze dell’Ossario, piccole e grandi. Dove prenderà allora i soldi necessari per affrontare le emergenze? La risposta è facile ed è inutile che te la suggerisca io. Vergogna!” – scatta Giacomo in uno scoppio di rabbia – “mi piacerebbe chiedere a tutte quelle povere vittime del dovere se sarebbero pronte, oggi come allora, a sacrificare la loro vita per la grandezza di una Patria che non sembra disposta a dimostrare nei loro confronti  né onore, né rispetto!”

Maria tace. È un po’ intimidita dallo sfogo di Giacomo e cerca di trovare a tutti i costi un nuovo tema di conversazione. Le viene insperatamente in soccorso un gruppetto di gitanti che sta percorrendo, poco più sotto, un sentiero che porta alla cappelletta Jegarastl:

“Guarda quella gente, sta percorrendo il sentiero che ho fatto anch’io, non ricordo più quante volte. Io e le mie amiche andavamo a fare fieno lassù. nei pressi della cima, poi seguivamo il viottolo fino alla cappelletta e da lì scendevamo a Timau. Dio mio, quanti anni son passati! Sai, Giacomo, non è per cambiare discorso, ma devo confessarti che mi è capitata una cosa strana: poco fa guardavo laggiù, verso la Braida, e non sono riuscita a ritrovare i luoghi in cui andavo a falciare e a preparare i covoni di fieno. Dove sono finiti quei larghi fazzoletti di prato che si stendevano, affiancati e scoscesi, sui pendii delle montagne e lungo il fiume? Io vedo solo distese di alberi e arbusti che hanno invaso si può dire tutto lo spazio esistente. Perché qualcuno ha permesso questa diffusione rapida ed inarrestabile della vegetazione? Crescendo l’una appiccicata all’altra, oltretutto, le piante soffrono e si ammalano più facilmente…”

Giacomo è grato a Maria per avergli offerto la possibilità di allontanarsi dal tema dell’Ossario e le risponde di buon grado, anche se gli dispiace darle un’altra delusione:

“Maria, forse è meglio che ti metta al corrente dei profondi cambiamenti intervenuti a Timau particolarmente negli ultimi anni. Quello dell’invasione incontrollata della flora è uno dei tanti, e neppure il più grave. Hai notato, ad esempio, che in paese abbiamo visto    poca gente, nonostante sia una luminosa domenica?”

“Adesso che mi ci fai pensare…sì, hai ragione, sono davvero poche le persone che se ne vanno a spasso. E sì che ce ne devono essere, di persone, in quelle belle case!”

Giacomo ogni tanto fa fatica ad adattarsi alle uscite di Maria, intrise di un candore derivante dal fatto che lei non si è mai preoccupata di tenersi al passo con le novità concernenti Timau. Ma non può certo arrabbiarsi e rovinare una bella amicizia per così poco. Meglio aprire gli occhi alla compagna una volta per tutte:

“Maria, guarda che Timau non conta più i milleduecento abitanti circa dei nostri tempi. Sai quanti sono attualmente i residenti in paese? Meno di quattrocento! Proprio così, e puoi anche smetterla di guardarmi ad occhi spalancati. A Timau abitano meno di quattrocento persone.”

Maria è esterrefatta:

“Ma sei sicuro di quello che dici? Come mai c’è stato un calo così forte?”

“I motivi sono tanti. Il principale, purtroppo, è da ricercare nella mancata compensazione tra il numero dei timavesi che vengono a raggiungerci quassù e quello delle nascite in paese. Ricordi quanti furono i nostri compaesani che l’anno scorso si unirono a noi? Dodici o tredici, se non sbaglio. E sai quanti bambini nacquero a Timau? Uno, solo uno. Tu non immagini quante di quelle belle case che ammiri tanto siano ormai vuote o, al massimo, abitate da un solo occupante. Poi, c’è da fare i conti con lo spopolamento causato dalla difficoltà di trovare lavoro in paese, dalla mancanza sempre più marcata di servizi, dalla scomodità dell’uso dei mezzi pubblici in alcuni tratti della giornata…Insomma, cara mia, a Timau prevale la presenza di persone anziane e non si possono certo costringere con la forza coppie giovani ad andare a vivere in paese.”

“No, Giacomo, questo non è proprio possibile, se non si vuole finire in galera. Mica i nostri timavesi possono fare come gli antichi Romani, che rapirono le sabrine e risolsero il problema” chiosa Maria con aria meditabonda.

“Brava, Maria, hai detto davvero una cosa giusta. Anche perché il popolo dei Sabini si è estinto da secoli e non ci sono più donne sabine, non sabrine, da rapire.” dice Giacomo sorridendo. Quindi accarezza amichevolmente la mano della donna, per farsi perdonare l’involontaria mortificazione inflittale con la sua correzione. Maria gli mostra scherzosamente la lingua, dopo di che sorride a sua volta:

“E quali sono gli altri problemi che ha Timau? Come farai a conoscerli tutti, poi…” mormora dubbiosa. Giacomo ha sentito e le spiega che lui non si lascia scappare un timavese: quando qualcuno di loro arriva, lo prende sottobraccio e piano piano riesce a cavargli tutte le novità del paese.

“ Adesso, cara Maria, ti faccio la fotografia del Timau dei giorni nostri. Prendiamo i locali pubblici.  Ricordi quanti chioschi, oppure semplici mescite di vino, c’erano sulla nazionale? I transitanti, in genere turisti, si fermavano, si rifocillavano e magari compravano anche qualche oggettino dell’artigianato locale. Oggi quei punti di ristoro hanno chiuso tutti i battenti, vuoi per la scomparsa dei titolari, vuoi soprattutto per il diradarsi del passaggio di macchine attraverso il valico di Monte Croce Carnico. Non ti dico quanti bar hanno cessato l’attività in paese; degli alberghi, quei grandi e tanto frequentati alberghi dei nostri tempi, è rimasto aperto uno solo. Vuoi sapere quanti sono i negozi di generi alimentari attualmente funzionanti? Solamente uno, ed il gestore parla sempre più spesso di chiusura. Se vuoi leggere un giornale, devi andare a comperartelo a Paluzza oppure appostarti nel bar e aspettare con santa pazienza di mettere le mani sull’unica copia esistente nel locale.”

Giacomo si è arrestato per prendere fiato e Maria, che lo sta ascoltando sempre più sgomenta, ne approfitta per chiedergli:

“E la cooperativa, la nostra preziosa coprativa, hanno chiuso anche quella?”

“Sì, Maria, otto o nove anni fa. Quanta nostalgia provo al pensiero degli incontri con gli amici, organizzati nel retro della cooperativa per buttare giù un bicchiere di vino in compagnia. Beati tempi, quelli, amica mia! Ma continuiamo a parlare di Timau. Non c’è più un negozio che venda materiale di ferramenta o  articoli per la casa. Se all’improvviso ad un timavese viene a mancare, che so, un chiodo, un cacciavite o una macchinetta per il caffè, non deve fare altro che prendere la macchina e andare a Paluzza. La stessa cosa dicesi per un cerotto o una lampadina nuova. Per la frutta e la verdura ci si può rivolgere al negozio di alimentari, ma la scelta è limitata e quindi che cosa resta da fare? Brava, andare in giù con la macchina…”

Giacomo si accorge che Maria è turbata. Tutta la sua gaiezza sembra svanita a causa delle notizie apprese dal suo partner, il quale si domanda se sia il caso di continuare a svelare alla donna certe scomode verità. Ma è la stessa Maria a toglierlo dall’imbarazzo:

“Dunque è così che si è ridotto Timau! Ho tenuto troppo a lungo occhi e orecchi tappati, ma ora voglio sapere tutto. Povero paese mio, si sta lentamente trasformando in un paese vuoto, un laars doarf, per dirla nel nostro tischlbongarish. Ti prego, Giacomo, raccontami del resto, se c’è.”

“Beh, ci sarebbe dell’altro, Ma vuoi davvero sentirlo?”

“Sì, dimmi tutto, senza nascondere nulla. E stai tranquillo, non sono una bambinella che si lascia impressionare facilmente, per quanto le novità possano essere spiacevoli.” Giacomo, rassicurato, riprende a parlare:

“Tre anni fa si diffuse in paese la voce che presto l’ufficio postale sarebbe stato chiuso. Molta gente si agitò, fu interessato alla vicenda anche il sindaco di Paluzza che contattò la Direzione delle Poste di Tolmezzo e alla fine si trovò un compromesso: Timau avrebbe continuato a giovarsi dei servizi dell’ufficio postale, che sarebbe rimasto aperto tre giorni alla settimana. Negli anni successivi, le cose avevano marciato con regolarità e ormai la gente si era scrollata di dosso  l’incubo di ritrovarsi senza posta, quand’ecco che l’assillo si rinnova e Timau ricade in una profonda preoccupazione alla notizia che la politica dell’attuale governo prevede la chiusura di moltissimi uffici postali, tra cui quello di Timau, dovendo risparmiare anche in quel settore. Capisci a quali e quanti disagi andrebbero incontro gli abitanti di Timau, in gran parte anziani e senza automobile propria, se fossero costretti a scendere a Paluzza per ritirare la pensione, prelevare soldi dal conto corrente oppure pagare semplicemente una bolletta? Se poi pensi che, a causa  dei vigenti orari dei pullman, chiunque si rechi a metà mattinata a Paluzza è costretto ad attendere fin quasi a mezzogiorno per  ritornare a Timau, puoi capire quanto l’eventualità che l’ufficio postale chiuda i battenti per sempre getti nel panico la comunità timavese.”

“Mi sembra perfettamente comprensibile” - dichiara Maria con voce triste – “La situazione è davvero desolante. Hai finito qui con l’elenco delle tristezze, oppure c’è dell’altro?”

Giacomo la scruta con gli occhi socchiusi e lentamente informa:

“Il dottore, c’è qualcosa che riguarda il dottore e che io ti racconto come l’hanno raccontata a me. Fino ad una quindicina di giorni fa, andava a Timau due volte la settimana; adesso si può trovarlo in ambulatorio una volta sola. Ma non basta: in ottemperanza alle recentissime disposizioni di legge, i dottori hanno l’obbligo di compilare al computer le ricette nel luogo in cui esercitano al momento, indicando sulle stesse i principi attivi contenuti nei medicinali prescritti. Ora, è chiaro che nessun medico ricorda a memoria le informazioni specifiche e perciò è costretto a ricorrere all’aiuto di Internet. Succede, però, che piuttosto spesso a Timau venga a mancare la connessione a Internet. Che cosa resta allora da fare ad un povero dottore di fronte a tali contrattempi? Ovvio, andare a Paluzza e compilare lì la ricetta. E che cosa resta da fare ad un povero paziente che ha bisogno della ricetta? Altrettanto ovvio: andare a prendersela a Paluzza. Se dispone dell’uso di un’autovettura. Altrimenti deve andare in giro a mendicare un favore presso qualche amico, perché nel pomeriggio fa servizio, se non sbaglio, una sola corriera. Questa bella storia mi è stata raccontata dal nostro compaesano appena giunto da noi, quello coinvolto in un mortale incidente stradale nel Moscardo insieme con il figlio e due amici, salvatisi tutti e tre, fortunatamente per loro.”

“Giacomo, non do certo la colpa a te, tu ti limiti a raccontare, ma ti garantisco che scoprire quanto sia caduto in basso Timau mi riempie il cuore  di un gelo intollerabile. Possibile che non ci sia anche qualche notizia positiva? Possibile che gli amministratori non facciano niente per migliorare la condizione del nostro paese?”

“Come no, Maria cara, come no! A Paluzza si preoccupano, e non poco, di rendere ottimale l’aspetto esteriore di  Timau. Vuoi sapere quale è stato, ad esempio, l’ultimo grande progetto illustrato alla popolazione? Il ripristino di un lago nella vasta zona che si stende, grosso modo, in corrispondenza di Casali di Sega, dalla confluenza del rio Lavò, all’incirca in località detta “ponte sott’Aip”, alla confluenza del rio Sgolvais. Il lago artificiale porterebbe un sacco di benefici sociali ed economici: disponibilità di un bacino di riserva dal quale attingere acqua in caso di siccità, comodità di avere sottomano un grande deposito d’acqua da sfruttare per l’irrigazione di campi e orti contigui, impiego di manodopera, allestimento di un reticolo di sentieri e piste ciclabili destinati a collegare il lago con Timau e Cleulis, il recupero ambientale di un tratto di territorio che rischierebbe di ritornare ad una condizione  semipaludosa…insomma, un progetto ambizioso, illustrato con dovizia di particolari dal sindaco dell’epoca e da altri politici della regione.”

“Che bello, Giacomo, sarebbe magnifico se Timau potesse godere di una simile possibilità. Se ne avvantaggerebbe anche il turismo, altroché! E quando è stato presentato questo programma alla gente di Timau?” Maria appare infervorata, la notizia l’ha resa euforica. Giacomo, sornione, risponde sommessamente:

“Quattro anni fa, mese più mese meno.”

“E quando sono cominciati i lavori?” incalza Maria.

“Mai” sentenzia Giacomo.

“Mai?” esala incredula Maria.

“Mai” conferma implacabile Giacomo.

La donna piega le spalle, sconfitta, ed esprime con quel semplice gesto tutta il suo sconforto. Giacomo le si fa più vicino, le prende amorevolmente una mano e la consola:

“Su, Maria, non lasciarti andare. Non ne vale la pena. Non hai ancora imparato che l’ottanta per cento delle promesse elettorali resta lettera morta? Timau procede sull’orlo di uno stretto sentiero aperto ai due lati, ma sono sicuro che si tirerà fuori in un modo o nell’altro da questa emergenza.”

“Lo spero, Giacomo, lo spero proprio. C’è, però, un altro pensiero che mi assilla: che cosa racconteremo ai nostri amici timavesi quando ci chiederanno di Timau?” la voce di Maria suona come un sussurro accorato. Giacomo è concentrato sulla domanda di Maria, appare lampante che sta elaborando la risposta che si aspetta la sua compagna. E alla fine gli sembra di averla trovata:

“Ascolta, noi non dobbiamo dire bugie, ma neppure raccontare quello che ti ho detto io, per non creare inutili allarmismi tra coloro che non sono al corrente della reale situazione in cui si dibatte il nostro paesello. Ci chiederanno di Timau? E noi lo descriveremo nei suoi aspetti migliori, quelli che effettivamente lo fanno preferire a tanti altri centri abitati, più grandi e più organizzati. Diremo che tanta gente viene ogni anno a Timau per gustarsi una piacevole vacanza estiva e che quando riparte carica in macchina anche una valigia colma di nostalgia. Parleremo del cielo che appare colorato di pennellate di un azzurro così vivo ed intenso da fare quasi male agli occhi, quando i primi raggi del sole scavalcano le cime delle montagne e si allargano a rischiarare anche le vaste distese di orti e campi disegnati sul fondovalle. Racconteremo della sottile magia che si avverte durante una lunga passeggiata nei boschi, quando il silenzio rende tutto più irreale e l’aria fresca e profumata scende nei polmoni simile a sorsate di corroborante elisir. Descriveremo Timau immerso nel verde come un dipinto inserito in un’artistica cornice…ma soprattutto inviteremo tutti a chiedere alla Provvidenza la grazia di conservare sempre bello ed accogliente il nostro amato paese. E adesso, cara Maria, credo che sia giunto il momento di andarcene. Guarda, il sole al tramonto sta incendiando il cielo dietro il Monte Coglians e il crepuscolo  prepara la strada alla sera. Andiamo, non voglio arrivare lassù col buio, non ho voglia di sorbirmi un’altra delle interminabili ramanzine di San Pietro. Se si arrabbia sul serio, è capace di proibirci di assistere al concerto vocale di stasera ed io non voglio neppure pensare ad una sciagura del genere. Figuriamoci, canta il coro dei cherubini ed il programma comprende anche l’esecuzione di “Stelutis alpinis”. Sembra che sarà presente lo stesso Zardini. E chi se lo perde, un concerto del genere! Coraggio, Maria, sbrigati per favore, non perdiamo altro tempo.”

Giacomo si è già avviato, impaziente. Maria affretta il passo per raggiungerlo, ma non può impedirsi di lanciare un’ultima occhiata allo stupendo paesaggio che si allarga sotto i suoi piedi. Ma lo vede sfocato e tremolante: è solo effetto della luminosità incerta del crepuscolo oppure dipende dal velo di lacrime che le offusca gli occhi?

 

Rocco Tedino              

 

 

 

 

   

       


 

 

Condividi post
Repost0