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10 aprile 2012 2 10 /04 /aprile /2012 15:42

Ve le ricordate le Pasque di una volta? Erano davvero qualcosa di speciale, un fagottino di sensazioni che galleggiavano dentro e fuori la gente, colorando del rosa dell’attesa le giornate di avvicinamento alla più importante festa della cristianità. Intanto cadevano in primavera (lo so, anche adesso Pasqua si presenta in primavera, ma volete mettere le primavere di un tempo, quando le stagioni svolgevano diligentemente il compito loro assegnato dalle eterne leggi della Creazione e si avvicendavano secondo un ordine codificato nei secoli, senza divertirsi a mescolare le carte?) e la primavera, è noto, rappresenta il periodo dell’anno in cui la natura si risveglia, in un fermento di attività che coinvolge anche gli esseri umani. Sarà, infatti, che l’aria ci avvolge più tersa e dolce e luminosa oppure che le prime piccole gemme sui rami degli alberi o il capolino dei primi timidi fiorellini cantano la gioia di vivere, certo è che in primavera anche noi emergiamo dalla pesante ovatta di vita rallentata in cui l’inverno ci aveva ficcati e ritroviamo tutto il gusto di fare e di muoverci.

Torniamo alla domanda iniziale e proviamo a spiegarla. L’imminenza della Pasqua innescava, principalmente in casa, un frenetico meccanismo di iperattività che riguardava, naturalmente, le mamme. Oltre allo “smaltimento” delle consuete incombenze domestiche, infatti, le …regine della casa dovevano affrontare altri impegni supplementari: che so, dalle serate tirate tardi a consumarsi gli occhi sopra una gonna da reinventare o una maglia da finire alla svelta alle  mattinate intere trascorse a ribaltare la casa  per sterminare polvere e ragnatele subdolamente infiltratesi fin nei più riposti angolini durante la brutta stagione. A ridosso del Venerdì santo, poi, non esisteva casa in cui la brava reggitrice non preparasse tre o quattro focacce (ovvio, il numero dei dolci dipendeva sempre dagli stomaci da riempire…) e si recasse da Graziano Silverio, il proprietario del forno di Timau, per farle cuocere in cambio di un modestissimo pedaggio. I ragazzi, dal canto loro, si dividevano tra la “precettazione” alle funzioni sacre -era obbligatorio assistervi, poche storie!- e l’elencazione delle tante cose meravigliose da fare durante le vacanze. Arrivava finalmente il tanto atteso giorno di Pasqua. Occhi aperti di buon mattino, rapida toeletta personale ed alle otto in punto tutti in chiesa, grandi e piccoli, a far benedire cibarie durante la prima messa, che allora si celebrava….

In che cosa consisteva la “roba” portata a benedire? Presto detto: essenzialmente si trattava di una “pincia”, una focaccia dolce, e di un pezzo di “schultar”, spalla di maiale squisitamente trattata. Qualcuno portava uova sode e dipinte, altri affettati di vario tipo. Alla fine della messa, tutti svelti a casa a mangiare, per rispettare l’usanza, sicuramente, ma anche per saziare la fame sviluppatasi in seguito all’obbligo di osservare il digiuno assoluto tra la confessione, affrontata nel pomeriggio del sabato santo,  e la comunione della domenica di Pasqua. Superfluo precisare che spesso la tardiva colazione era più sostanziosa del pranzo….

Concediamoci un veloce viaggetto sulla macchina del tempo ed approdiamo ai giorni nostri. Le cose sono un po’ cambiate nel senso che sì, le donne si dedicano sempre con estrema cura alle pulizie pasquali e controllano preventivamente il guardaroba che tutta la famiglia sfoggerà a Pasqua, ma, ad esempio, non preparano più i dolci da mangiare in quel giorno particolare perché li troveranno bell’e pronti da Luigino Silverio, il proprietario dell’omonimo panificio che egli conduce con il prezioso ausilio della moglie Luciana, del figlio Paolo e di altri bravissimi collaboratori. E sapete che cosa si porta in chiesa a benedire, nel giorno di Pasqua? Pincia e schultar, proprio come tanti anni fa. E’ perciò arrivato il momento di dedicare due parole agli artefici di queste prelibatezze.

 Certe mattine apri la finestra e ti chiedi: che cos’è questo effluvio  che, come una moderna stella cometa, guida verso un negozio defilato nella viuzza laterale della strada statale del paese? E’ il profumo che parte dal panificio Silverio, riempie lentamente gli spazi tra le case, entra dalle finestre aperte ed agisce sull’olfatto come un messaggio subliminale di tipo particolare: devo andare da Luigino a comperare qualcosa, non importa cosa. E’ il buongiorno che, come una trasparente nuvola di soave dolcezza, si stende sopra Timau  e quel laboratorio di squisitezze si può tranquillamente considerare l’equivalente gastronomico del pifferaio magico. Non con la musica, infatti, ma col filo forte ed invisibile degli aromi, la “banda Luigino” cattura le persone e le attira irresistibilmente nella sua bottega. Una volta entrati, gli avventori non hanno scampo. Non c’è dieta, non c’è linea fisica che tengano: troppi, e troppo invitanti, sono i prodotti che si pavoneggiano tutt’intorno.  E nel panificio Silverio c’è solo l’imbarazzo della scelta per chi voglia “addolcire” alcuni momenti della sua giornata! Già il pane da solo basterebbe a comporre un appetitoso campionario di gusto straordinario: il pane con la zucca; il pane “cu las fricces (i ciccioli)” consumato durante l’inverno; il “pane di casa” ricavato da una miscela di segala, frumento bianco, farina integrale e farina di polenta al posto del sorgo; il pane di sola segala da mangiare a fette spalmate di varhachara; il pane di farina di polenta accompagnato da speck a pezzetti; la focaccia a tre punte, tipo cappello da prete, da gustare con lo schultar, il pane  con mais e speck, con le olive, con l’uvetta…E mentre “è dolce naufragar”  in quel mare nutriente ed invitante, ecco che ti senti sfiorare la spalla  da una vetrina che espone sui ripiani più alti lo strudel, i croissant e i Krapfen, contornati da un tripudio di cannoli, bigné, meringhe, medaglioni, torcetti e baci di dama. Più sotto, in aristocratica solitudine, si allineano le perle delle torte timavesi, capeggiate dalla divina Sacher: alle mandorle, di noci, alla ricotta, di mele, alla frutta, di sfoglia o pan di Spagna, guarnite con panna, bigné, cioccolato, crema al caffè….  Non sai risolverti a scegliere tra quelle squisite tentazioni, pensi di aver deciso e proprio in quel momento la vista si apre su un florilegio di prodotti che occhieggiano da un cestone: gli “esse”, biscotti tipici sagomati ad imitazione dell’omonima lettera dell’alfabeto, aromatizzati al marsala e ottimi da inzuppare nel vino, nel caffelatte o nel tè e i “Krapfen”, autentico cibo degli dei, siano essi farciti di crema o della più tipica marmellata, circondati da fasci dorati di grissoni e di grissini all’olio d’oliva o integrali. E se a Natale Luigino tenta la gola con panettoni, tronchetti, alberelli e tante altre bontà dolciarie, a Pasqua la sua abilità rifulge nella preparazione della famosa “pincia”, la focaccia all’uvetta, un dolce tipicamente carnico, ricco di ingredienti semplici e saporiti.

Che dire di più? Ben poco, sinceramente. Anche perché arpeggiare ancora sul tema sconfinerebbe nel masochismo. Mentre scriviamo, infatti, il panificio è chiuso e dovremo dominare l’attacco di ghiottoneria almeno fino a domattina.  Meglio cambiare argomento e leggersi magari un ponderoso (in tutti i sensi) trattato sui fachiri che arrivano a digiunare per periodi lunghissimi…

 

Rocco Tedino

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